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Come un Dio americano

di Gianni Petrosillo - 13/01/2010


Come un Dio americano che sa solo l’inglese, cantava il cantautore bolognese Claudio Lolli. Come
un Dio americano pare anche percepirsi, Sergio “Marpionne”, divenuto l’uomo dei due mondi
dell’auto e gran conquistatore delle Americhe con qualche secolo di ritardo.
Ma in Italia Marchionne ha qualche problema in più che negli Usa. Da noi resta aperta la vertenza
tra la Fiat, il Governo e le parti sindacali sugli impianti di Termini Imerese e di Pomigliano, con il
primo che rischia la chiusura ed il secondo che dovrà essere riconvertito per evitare la stessa sorte.
Tuttavia il Lingotto, che si mostra sempre disponibile al dialogo quando deve contrattare
agevolazioni e incentivi per sorreggere la domanda di automobili, al fine di contrastare le tendenze
di un mercato ormai saturo e tecnologicamente maturo, chiude volentieri le porte in faccia alle
rappresentanze dei lavoratori se queste chiedono di parlamentare per rivedere i programmi
dell’azienda e salvare centinaia di posti di lavoro.
Per esempio, ieri il Ceo di Fiat ha fatto grande sfoggio di realismo, a convenienza ça va sans dire,
rilasciando una dichiarazione, senza possibilità di interpretazioni, secondo la quale i sindacati
dovrebbero prendere atto della realtà: “I sindacati devono rendersi conto dell’equilibrio necessario
tra domanda e offerta”. Appunto, esimio Amministratore delegato, ma sarà difficile far digerire
questa lezioncina di economia a chi, per decenni, ha visto elargire, con mano leggera, aiuti pubblici
ad un’impresa privata, la quale per giustificarli non ha lesinato di giocare sull’immaginario
nazionalistico, portando a convergenza i suoi destini industriali e commerciali con quelli storici
dello stesso Paese.
La Fiat è l’Italia e l’Italia è la Fiat, o, ancora, ciò che va bene alla Fiat va bene alla patria e
viceversa. Ma oggi questo finto nazionalismo diviene una zavorra che pesa sul groppone di Torino
dove hanno deciso che è meglio andare a cercare fortuna dall’altra parte dell’Oceano.
“Noi siamo una multinazionale” dice Marchionne, ma sono passati solo pochi mesi
dall’acquisizione dell’americana Chrysler - un altro bidone quasi fallito che Fiat ha potuto
conquistare grazie all’appoggio del governo americano che ha intenzione di utilizzare il gruppo
piemontese come un cavallo di troia in Europa - per fargli dimenticare la grande narrazione
ideologica di una Fiat indissolubilmente legata allo Stivale e alle sue magnifiche sorti e
progressive. Eppure, con il lancio della campagna pubblicitaria della 500, l’auto della rinascita,
questo immaginario era stato tirato nuovamente in ballo, con sovrapposizioni di video della nostra
storia repubblicana studiate apposta per toccare al cuore l’Italia che spende. L’inganno però venne
presto a galla, questo piccolo orgoglio su quattro ruote veniva prodotto in Polonia e non nelle nostre
fabbriche. Bella sola.
Certo, non sono paragonabili le acclamazioni al salone dell’auto di Detroit, con tanto di
complimenti dal ministro dei trasporti del Governo Federale Ray Lahood, il quale si è detto colpito
dallo stile di leadership di cui Marchionne è capace, con le umili manifestazioni casalinghe al
salone dell’auto di Bologna dove arrivano più velocemente i lamenti del Ministro Scajola che
proprio non vuole saperne di mettersi a cuccia e cedere ai piani unilaterali di Fiat. Meglio emigrare
nella contea di Wayne dove sanno come divinizzare i grandi condottieri, quale Marchionne si sente.
Sarà per questo che il manager italo-canadese, sensibile alle adulazioni, dichiara con visione
futuristica che presto l’occupazione verrà incrementata negli stabilimenti americani mentre qui da
noi ha intenzione di sbaraccare pretendendo pure una serena rassegnazione.
Padronissimo di farlo, ma si scordi di allungare ancora le mani nelle tasche del nostro Stato e,
soprattutto, si liberi di ciò che non gli serve più favorendo alternative industrial