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“Immaginare la decrescita”: sintesi e riflessioni

di Paolo Baffari - 23/02/2010

Cosa intendiamo per decrescita e come possono porsi i concetti a essa legati in questa società dello sviluppo e della tecnologia industriale?


La decrescita come soluzione alla crisi
Serge Latouche, considerato oggi il padre virtuale della decrescita, ha aperto queste giornate di confronti con un’analisi dell’attuale crisi “economica”.
Il crollo della civiltà occidentale, ha ammonito, si sta attuando davanti ai nostri occhi e sarà compiuto nei prossimi quarant’anni. La comunicazione di massa ha definito questa crisi una crisi finanziaria e, precipuamente, americana; invece la sua dimensione è globale, e riguarda questa società della crescita nel suo complesso. La crisi culturale dei nostri valori è cominciata nel 1972, in seguito è diventata crisi ecologica; dal 1986, con l’insediamento del governo Thatcher, si è evoluta in crisi sociale. Oggi tutte queste crisi si mescolano, si assommano: la crisi attuale è una crisi antropologica, di civiltà. Gli economisti puri sono inattuali e inadeguati a risolvere i problemi di questa società globale e complessa, è necessario, come afferma anche Fritjof Capra nel volume “Il Punto di Svolta”, una nuova teoria che implicherà un approccio sistemico, il quale integrerà biologia, psicologia, filosofia, politica e varie altre branche della conoscenza umana, assieme all’economia, in un’ampia cornice ecologica.
La crescita e lo sviluppo derivano dalla teoria evoluzionista e dalla biologia: la natura cresce e, a un certo punto, appassisce e muore. Questo meccanismo complesso è stato interpretato, in modo riduttivo, dalla visione meccanicista cartesiana e applicato alla crescita economica da parte degli economisti puri, i quali hanno dimenticato di chiedersi: crescita fino a che punto? Di che tipo? Fino a quando?
Si è diffusa la convinzione, continua Latouche, che la felicità potesse coincidere con il benessere materiale, con la quantità dei beni materiali, delle merci e dei prodotti posseduti e consumati, con la crescita del prodotto interno lordo (PIL): ma crescita di che cosa? La crescita, imposta dal mercato e dal profitto, non distingue cosa, è quantitativa, non discerne e non conosce l’etica e la responsabilità, l’utilità per tutti: la cultura della crescita si manifesta oggi per ciò che è realmente, un’enorme bolla speculativa.
Nel ‘700 e ‘800 il mondo occidentale ha sognato la crescita, ne ha fatto un nuovo idolo con Adam Smith che nel libro “La ricchezza delle nazioni”, il primo trattato  di grandi proporzioni sull’economia, scritto in un momento di transizione da un’economia agricola e artigianale ad un’altra dominata dall’energia a vapore e dal lavoro di macchine in grandi fabbriche. Quale economista classico, Adam Smith non era uno specialista, ma un pensatore. Egli cominciò, secondo Capra, a investigare in che modo la ricchezza di una nazione si accresca e venga distribuita: il tema fondamentale dell’economia moderna.
Secondo Smith, osserva Latouche, dalla crescita economica tutti ne traggono benessere, si genera ricchezza per tutti: quindi, più si cresce più aumenta la ricchezza per tutti. Questa “Utopia”, al contrario, ha prodotto la concentrazione della ricchezza in mano di pochi – sempre più pochi – e l’aumento della povertà che si allarga a fasce di popolazione sempre più ampie; anzi, ha trasformato una povertà dignitosa in miseria degradante (distruzione dell’India, crisi agricola in Inghilterra). Dal 1850 in poi la produzione cresce a ritmi sempre più intensi, ma le classi povere non reggono il ritmo dei consumi, quindi, di tanto in tanto, si produce una crisi per dare ossigeno al capitale e ai mercati e far ripartire profitti e consumi. Negli ultimi cinquant’anni poi hanno inventato la pubblicità  e la televisione, che ci hanno indotto a consumi e stili di vita inutili e dannosi, generando una seconda bolla speculativa e un sentimento nuovo: il consumo abulico del consumatore, perennemente insoddisfatto come piace al mercato, e un’obsolescenza forzata.
Una terza bolla speculativa, secondo Latouche, è rappresentata dal “credito”, con la crisi dei “Surprise”, dove hanno indotto i poveri a indebitasi per acquistare, soprattutto case; quindi, facendone lievitare i prezzi, le grandi società e le banche hanno moltiplicato i loro profitti. Siamo di fronte a una nuova forma di “Totalitarismo”, cosìddetto “dolce”, che ci condurrà alla catastrofe: una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito. La scomparsa della specie umana sta avvenendo a una velocità venti volte superiore a quella dei dinosauri; negli ultimi anni ventitrè milioni di api sono morte e con se ne conosce le ragioni.
Dal 2008, in compenso, è cominciata una “crescita negativa”, ma questa, pur se preferibile alla scomparsa, è la strada della disperazione non quella della decrescita. In questa società della crescita c’è disoccupazione, miseria, degrado sociale e ambientale, guerra, prevaricazioni e violenza; perché tutto è finalizzato al PIL e alla crescita economica.
Se questa crisi si evolverà in una crisi ecologica e umanitaria dalle proporzioni catastrofiche, l’attuale forma di totalitarismo “soft” del capitalismo si trasformerà in una forma “hard”.
Secondo Latouche non è più possibile ormai evitare la catastrofe, neanche attuando a pieno la decrescita; è possibile solo provare a gestirla e limitarla: in tal caso la temperatura media sul pianeta aumenterà di soli due gradi, invece dei sei previsti, che causerebbero l’estinzione delle specie viventi. L’aumento di due gradi provocherà comunque una tragedia umanitaria: centinaia di milioni di persone cercherà di spostarsi dal Sud al Nord del mondo e, probabilmente, si creerà un governo di stampo eco-totalitario, un “eco-fascismo”, per continuare a conservare il livello di vita occidentale, costringendo alla disperazione e alla morte qualche miliardo di persone.
La “Decrescita” rappresenta una speranza, la necessità di demolire la società della crescita e di dirigerci verso una “società della sobrietà”: consumando meno per vivere meglio. Decrescita dunque è una parola destabilizzante, una provocazione per decolonizzare l’immaginario della crescita. Si tratta di con-dividere altrimenti.
Il capitalismo ha equiparato il PIL a una torta da dividere, dove i più ricchi non intendono rinunciare a ricchezze e privilegi. Allora si è pensato che la torta potesse crescere, in modo da distribuire qualche piccola fetta anche ai poveri, ma, lievitando, la torta si è ammalata. Questo progetto delirante di una “torta infinita” è stato condiviso da sindacati, comunisti e dalla sinistra nel suo complesso; in tal modo essi hanno abbandonato l’idea di una rivoluzione dei valori e della società, equivocando anche il pensiero marxiano, che già guardava a un modo diverso di con-dividere i prodotti e le merci e non di accrescerle.
Dunque è necessario rivalutare il pensiero del primo socialismo: “condividere altrimenti”.
Gandhi ci ha così ammonito: “Il pianeta è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non è abbastanza grande per soddisfare i desideri di alcuni”.
Economia della decrescita
Il contributo di Mauro Bonaiuti parte da un’analisi dell’attuale crisi sociale, la quale ha prodotto: desertificazione dei legami sociali, solitudine, disagio, insicurezza, precarietà del lavoro. Queste conseguenze dannose possono essere accomunate all’interno della cornice della crescita e dell’economia di mercato e possono condurre a un collasso relativamente veloce rispetto ai tempi lunghi della storia. Il contributo più convincente a questa “teoria del collasso” è di un economista americano, Joseph Tainter; il quale ipotizza, all’accrescersi della complessità della società e delle istituzioni, un’inversione di tendenza al di là di una certa soglia, oltre la quale i benefici che queste ultime producono decrescono, mentre i costi sociali e ambientali crescono in maniera esponenziale: perciò tutto ciò che diventa eccessivamente grande è senza dubbio negativo e dannoso.
Il PIL funziona esattamente con la medesima logica: la crescita materiale aumenta anche in condizioni di degrado sociale, economico e ambientale, la macchina economica quindi funziona e si accresce proprio grazie ai problemi che essa stessa genera. In tale situazione è necessaria una fase di transizione, verso una semplificazione di queste mega-macchine che, continuando a  crescere, aggraveranno i problemi attuali.
In tale ragionamento è fondamentale la questione della “scala”. Tutti gli economisti classici hanno sempre ritenuto che “più fosse meglio”, assecondando una scienza economica dove “ciò che conta non si conta”. Bonaiuti ritiene che un ripensamento di un progetto di economia su un territorio debba tenere conto del problema della “scala”. A tal proposito prevalgono due logiche contrapposte: da una parte si realizzano piani, progetti e interventi a grande scala che sono del tutto insostenibili e provocano più danni che benefici; d’altra parte nascono e proliferano piccole esperienze alternative di progetti e azioni locali, che pur all’interno di una coerenza ecologica, sociale e virtuosa, rimangono confinati in nicchie poco significative. Una “rete di economia solidale” deve pensare a come contestualizzare una rete alternativa al nostro territorio, deve apprendere a progettare con creatività; altrimenti si rischia che le soluzioni alternative prospettate dalla Decrescita restino confinate in una sfera utopica, mentre l’economia reale va in tutt’altra direzione.
Avviare la decrescita: dalle analisi alle misure concrete, quali proposte?
Alberto Castagnola propone una “riprogettazione” delle produzioni e dei consumi. I nostri modi di vivere, lavorare, muoversi, produrre, consumare devono considerare i limiti e gli equilibri di un pianeta che vive. La vita della specie umana deve ritornare a svolgersi in simbiosi e armonia con tutte le altre specie viventi e con gli elementi naturali.
La riprogettazione deve essere attuata per ogni tipo di prodotto e di merce, per ogni oggetto, per tutti i cicli di produzione, consumo, riciclo e riutilizzo, orientando la ricerca verso un modo altro di creare economia. In tale processo c’è la responsabilità di ciascuno di noi, affinché si diffonda e alfine prevalga una società della decrescita.
Carlo Cecere propone una rilettura dello spazio urbano che ci circonda e che pervade metropoli, medi e piccoli centri abitati, secondo un’ottica di “spazio-monnezza”, quale simbolo che questa civiltà lascerà ai posteri: rifiuti di ogni tipo, bidonville, aree e periferie degradate, quartieri e strutture “non finite”, etc.
Il non finito e il rifiuto, a un’osservazione attenta, contraddistinguono ormai ogni spazio abitato e, anche luoghi apparentemente incontaminati. Lungo i margini delle strade e delle scarpate, che percorriamo quotidianamente, si susseguono distese di rifiuti e discariche di merci e oggetti di ogni tipo, spesso inquinanti e pericolosi, ingombranti e non degradabili in tempi brevi: nei centri abitati, lungo versanti di colline e monti, così come lungo litorali e distese di campi agricoli. Il paesaggio viene stravolto da strutture intelaiate, capannoni, depositi, scatole di cemento palesemente abusivi, quasi sempre non finiti e a volte abbandonati: l’incuria del territorio e del paesaggio manifestano una società che tratta ogni cosa come merce da produrre, consumare e buttar via come rifiuto, anche se stessa.
La coerenza delle azioni
Il percorso della decrescita, per essere credibile, ha bisogno che alla teoria e ai buoni propositi, alla critica a questo sistema e alle proposte alternative seguano azioni e comportamenti “coerenti”: a cominciare dai piccoli gesti quotidiani, dalle modalità di relazione e dall’atteggiamento verso gli altri. Si tratta di cominciare da se stessi, di fabbricare ogni giorno un mattoncino di cambiamento e di consapevolezza, e al contempo, di smontare e frantumare un mattoncino del nostro immaginario di crescita.
Fritjof Capra sostiene che la nostra civiltà si è sviluppata su un rapporto squilibrato tra Yin e Yang - due poli archetipi, nella filosofia del TAO, alla base del ritmo fondamentale dell’universo - secondo una loro errata interpretazione da parte del pensiero occidentale. La natura ciclica dell’universo e di tutti i suoi fenomeni oscillerebbe tra questi due poli che fissano i limiti per i cicli di mutamento. La cultura occidentale, nella sua visione cartesiana volta alla separazione e alla semplificazione dei fenomeni e delle cose, ha scisso nettamente queste due dimensioni, assimilando lo Yin al lato femminile e lo Yang a quello maschile e facendo prevalere quest’ultimo nella definizione del proprio sistema di valori dominante: espansivo, analitico, dissipativo, razionale, aggressivo, competitivo, individualista. In tale contesto di valori il percorso della decrescita non può esimersi da una dimensione educativa: si tratta di valorizzare quella naturale capacità sistemica della mente, evidenziata da Gregory Bateson, che: sappia connettere fenomeni e governare la complessità del mondo, gestire l’imprevisto e l’incertezza del futuro. Immaginare la Decrescita significa quindi: consentire a tutti di accedere a una conoscenza sistemica, comunicare il messaggio destabilizzante e sovversivo insito in essa.
Dal cortometraggio: Terra Madre
Se ciò che mangiamo, come ci muoviamo, la nostra stessa vita dipendono da società multinazionali anonime, non siamo più uomini liberi, questa terra non è libera!
Allora è prioritario: mettere in relazione  pensieri, idee, azioni, popoli, terre, luoghi, esempi, buone pratiche; mettere in valore le reti di relazioni, di lotte, di vertenze e azioni virtuose già esistenti. Carlo Petrini, presidente di Slow Food, denuncia che la finanza creativa, dopo aver speculato sulle case della povera gente, dopo aver lucrato su petrolio e rifiuti, ora vuole speculare su “acqua” e “cibo”. La terza rivoluzione industriale deve partire dalle terre, dalle campagne, dalle reti solidali. L’ “economia della natura” salverà il pianeta dalla delirante economia di mercato. Nel 2050 il 50% della popolazione planetaria non avrà accesso all’acqua per la sopravvivenza, mentre vaste aree coltivate e coltivabili vengono depredate e distrutte da società trasnazionali criminali. Bisogna aiutare i contadini a rimanere sui propri terreni e a coltivare in modo tradizionale, per un consumo locale, altrimenti la biodiversità morirà e noi insieme a essa. I giganti del male oggi sono Monsanto, Nestlè, Coca Cola, Suez, e tutte quelle multinazionali che stanno lavorando per controllare l’acqua, il cibo, la salute, la terra. La terra non ha bisogno di pesticidi, la terra non ha bisogno di sostanze chimiche velenose: chi afferma il contrario è un bugiardo e un criminale.
Verso un nuovo modello di sviluppo
Segue l’intervento di Alberto Zoratti, esperto di economia solidale, che denuncia questa economia dell’inganno, della menzogna, dell’assenza di regole, trasparenza e controlli.
In tal senso è sufficiente ridurre la filiera economico-produttiva e rivederne i valori di base per poter affermare che essa è ecologica e solidale? Si manifesta un’esigenza di partecipazione e di assunzione di responsabilità nella costruzione di un’economia altra. La periferia del mondo deve entrare in relazione per costruire un sistema economico di scambi che si contrapponga ai centri di potere globale, i quali impongono il sistema capitalista e neo-liberista (Londra, Shanghai, Rio De Janeiro, Città del Messico, come le altre megalopoli del mondo). Vanno costruiti ponti e alleanze di solidarietà per creare legami e scambi di esperienze, di competenze, di tecnologie pulite e sostenibili, di arti tradizionali, e la riconversione delle attuali filiere.
Altraeconomia e nuova politica economica
Andrea Ferrante, presidente dell’AIAB (Associazione Italiana Agricoltura Biologica), spiega che, con il nuovo trattato dell’UE, l’agricoltura è divenuta competenza del parlamento europeo e incide per il 40% sul bilancio europeo, nonostante ciò essa non è mai stata oggetto di discussione da parte del parlamento e del consiglio dell’UE.
L’agricoltura rappresenta oggi un modello insostenibile di consumo di energia fossile, con una quantità dieci volte superiore a quella che produce in alimentazione. Per mettere in discussione tali modelli di produzione si devono prima di tutto modificare radicalmente gli attuali modelli di consumo, liberando il proprio tempo.
L’intervento di Pietro Sardo, in rappresentanza di slow food insiste sulla qualità e salubrità del cibo  e sulla riscoperta dei cibi perduti, soprattutto nei paesi del sud del mondo. Ma la proposta di educare i popoli africani a riscoprire i cibi e le ricette tradizionali appare iscritta all’interno di una logica occidentale etnocentrica, che ripercorre la logica colonialista e depredatrice finora perpetrata: dopo aver sfruttato, inquinato, massacrato, distrutto quelle terre e quelle culture, improvvisamente sentiamo il bisogno di insegnare - ancora una volta noi a loro - le loro tradizioni perdute e, ancora un a volta ci sentiamo custodi e portatori di verità; il Sud del mondo vuole essere lasciato in pace; siamo noi ad aver bisogno di imparare da culture antiche, da popoli ancora pregni di umanità e di rispetto per quella terra di cui abbiamo perduto il senso e il valore vitale.
Una gestione corretta dei rifiuti
Roberto Pirani, esperto in gestione e riduzione dei rifiuti, propone una strategia sostenibile di gestione del ciclo dei rifiuti che, prima di una raccolta differenziata spinta, preveda sistemi di riduzione e riutilizzo dei materiali e dell’umido, attraverso l’attuazione di percorsi di sensibilizzazione, informazione e partecipazione dei cittadini, assicurando un elevato risparmio di risorse finanziarie e un incremento dell’occupazione. Tale pratica virtuosa si connette a quella del risparmio energetico, inteso prima di tutto come progettazione di materiali e di oggetti completamente riutilizzabili e riciclabili, di abitazioni costruite secondo criteri ecologici di elevata inerzia termica e acustica. E’ possibile così parlare di Negawatt invece che di Megawatt, evitando la truffa del nucleare e il rischio di inceneritori, inefficienti e pericolosi. In tale direzione, l’ordine dei medici francesi ha chiesto a viva voce al governo di proibire la costruzione di nuovi inceneritori e di vietare il funzionamento di quelli esistenti, perché altamente pericolosi per la salute umana. Il modo attuale di gestire il ciclo è, per gli amministratori, facile, immediato, privo di progettualità e di lavoro intellettuale; al contrario il modo descritto comporta studi, progetti complessi e multidisciplinari, partecipazione e trasparenza, rottura con le lobbies locali e non, responsabilità e competenza.
Un esempio di comune virtuoso
Bendasi Battisti è il sindaco del comune di Corchiano, in provincia di Viterbo. Ha trasformato il paese in un luogo di relazioni, di riscoperta dei luoghi, delle antiche fonti, dei miti, della storia, del paesaggio, che, deturpato da discariche e rifiuti, è stato riconsegnato alla sua sacralità. Il paese si è trasformato, attraverso una serie diversificata di azioni materiali e immateriali, in un paese sostenibile, senza rifiuti, quasi del tutto autosufficiente dal punto di vista energetico; dove si beve acqua dell’acquedotto, dove gli anziani dialogano con i giovani, dove si consumano prodotti locali e si pratica la filiera corta, dove gli abitanti partecipano alla vita pubblica e ne sono i protagonisti.
Un comune nel solco della crescita e della produttività
Vincenzo Mazzeo, sindaco del comune di Farasabina, racconta, al di fuori del coro, la visione di sviluppo del comune da lui amministrato, connotato da un territorio già ampiamente compromesso da interventi antropici impattanti. La sua idea di sostenibilità rappresenta un caso emblematico di una cultura politica e programmatica diffusa, che gioca con le parole accostando termini antinomici quali “sviluppo sostenibile”, coniugati in termini quali crescita, fabbrica della cultura e della formazione, riformismo, competitività e attrattività di un territorio, etc. Un linguaggio, intriso di una cultura della crescita, evidentemente antitetico rispetto a un’idea altra dei luoghi che tende a riscoprire: sacralità, sogno, valore, tradizioni, storia e paesaggio, socialità, relazioni, dialogo, convivialità.
La decrescita in pratica
L’ultima giornata dei lavori si apre con un intervento di Daniel Tarozzi, rappresentante del Movimento per la Decrescita Felice, che invita a una riflessione sulle diverse ghettizzazioni in atto, quale quella tra classi di età - giovani, adulti, anziani - accomunate da una medesima tendenza a separare, compartimentare, classificare, escludere, semplificare, insita nella visione cartesiana di questa cultura.
Tale cornice riduzionista è messa in evidenza anche da Perluigi Paoletti, dell’Arcipelago Scec (moneta alternativa), che associa le pareti di una casa alle gabbie mentali della società della crescita: pareti reali e virtuali fondate sul profitto. Paoletti spiega come l’economia crea il debito, attraverso un andamento esponenziale che alimenta solo se stesso, all’infinito. Per raggiungere un indebitamento così elevato abbiamo sacrificato tutto: famiglia, affetti, emozioni, tempo…
Negli anni ’50 un’attività equivalente a un dollaro innescava attività economica del valore di quattro dollari. Oggi il rapporto si è invertito in negativo, il debito alimenta solo se stesso: si emette un debito per eliminare il debito regresso e, in tal modo, si indebita il futuro, cioè le prossime generazioni. La rottura del sistema avviene quando il debito supera un dato limite; oggi il limite è stato già ampiamente superato ed è legato all’artificiosa messa in circolo di denaro. Per rimettere in moto l’economia è necessario estinguere la quantità di debito oltre il limite di “crash”, come è già accaduto in passato: ad esempio in occasione dei giubilei che consentivano l’annullamento di tutti i debiti, o attraverso le guerre. Oggi l’utilizzo delle guerra è stato sostituito dalla creazione di una grande crisi economica, dove le regole del gioco sono truccate e il giocatore, opportunamente adescato e allettato dall’illusione di poter vincere, perde sempre. Nell’istante in cui si abbatte una “cella”, come avverrà a breve con un definitivo crollo della borsa, cercando di mantenere le medesime strategie ed equilibri, è possibile invece inserirsi per cambiare le regole. E’ quello il momento propizio: quando la gabbia sta crollando, e prima che se ne costruisca un’altra similare, secondo le regole che i potenti hanno già stabilito, noi possiamo costruire celle intercomunicanti; cioè un nuovo sistema fondato su nuovi valori e nuove regole. In tal senso va distrutto il sistema Yang, competitivo e individualista, sostituendolo con una cornice di cooperazione e partecipazione, che sia capace di demolire la gabbia mentale illusoria che ci attanaglia. Non si vince combattendo il sistema, ma creando un sistema antagonista e, contemporaneamente, svuotando il precedente.
L’esperienza dei distretti di economia solidale
Come organizzare nella pratica un’economia della decrescita? Una risposta cerca di formularla Riccardo Troisi, presidente del Consorzio Città dell’Altreconomia di Roma.
Creare un distretto di economia solidale significa mettere in relazione tutte le esperienze, le pratiche, le azioni, gli esperimenti di: altra cultura, altra città, altra energia, altra produzione, altro consumo, altra moneta, altra economia, e così di seguito. Abbiamo bisogno di costruire insieme percorsi e reti solidali, virtuosi, di reciprocità, al di fuori delle logiche economiche classiche di competitività, attrattività, quantizzazione, profitto.
Un esempio virtuoso di comunità ecologiche è rappresentato dagli ecovillaggi e dalla rete che li connette. Eva Lotz, che vive personalmente questa esperienza, li raffigura come piccoli laboratori di una visione altra di esistenza e di convivenza, partendo dai quattro elementi primordiali: terra, acqua, aria, fuoco.
La terra, per imparare uno stile di vita sostenibile, che, partendo da un’economia della terra, tenda all’autonomia totale, o quasi, delle comunità.
L’acqua, intesa come metafora del flusso continuo e complesso di informazioni, relazioni, scambi, incontri, da facilitare secondo criteri di ascolto, condivisione, solidarietà, dono, convivialità, reciprocità.
L’aria, cioè la creatività che genera cultura, arte, celebrazione di miti e tradizioni e feste, che si sviluppa con e nella natura, per riscoprire un senso nuovo di crescita interiore e di appartenenza alla comunità.
Il fuoco, energia di trasformazione dell’esistente, individuale e collettiva.
Gli ecovillaggi possono rappresentare luoghi che raccontano un legame nuovo con i luoghi: dove tessere relazioni, emozioni, dove radicare nuove visioni economiche e comunitarie, al contempo identitarie e meticcie, tradizionali e aperte al cambiamento.
Il senso che accomuna la varietà e la diversità dei temi e dei problemi rappresentati in questi giorni è una ricerca tesa alla comprensione del come e del perché l’umanità sia arrivata a quella crisi di civiltà che Capra chiama “il punto di svolta” e quale mutazione antropologica abbiamo bisogno di attuare. Non c’è futuro all’interno di questa logica della crescita infinita in un mondo finito, lo ha sottolineato ripetutamente Latouche. La scienza cartesiana e newtoniana, fondata sulla separazione, semplificazione e riduzione dei fenomeni e degli organismi a elementi meccanici da manipolare, assemblare, sezionare, sfruttare, così come l’ossessione della tecnica, che da strumento si è trasformata nell’unico scopo, insieme al denaro, ci hanno condotto alla perdita della visione complessa delle cose, a una compartimentazione dei saperi e delle nostre stesse vite, a misurare l’esistenza solo in base a indicatori quantitativi e all’accumulo di beni e ricchezze materiali, a scapito dei beni e patrimoni comuni: fonte di benessere e di vita, disponibili gratuitamente per tutti.
Le giornate di Rieti si chiudono con un laboratorio di Daniela Degan, che risveglia l’interesse e la partecipazione di tutti. Il gioco di ruoli, il lavoro in gruppo, il creare spaesamento e incertezza, il porre problemi da affrontare e risolvere, la riscoperta sempre nuova del senso del gruppo, sono tutti ingredienti che contribuiscono, a differenza dei percorsi educativi e formativi verticali, a sviluppare riflessione, senso critico, capacità di ascolto e di relazione, competenze in azione e per l’azione. Il laboratorio si conclude con alcune considerazioni di Serge Latouche e Alberto Castagnola, in qualità di osservatori critici.
I processi di apprendimento e di cambiamento sono faticosi e non esistono formule magiche e semplificate, come qualcuno in questi giorni ha tentato di ipotizzare. Ciò che serve, per generare quella mutazione antropologica invocata da Pasolini fin dagli anni ’70, è sviluppare una più generale competenza, che Edgar Morin identifica nel “conoscere cos’è la conoscenza” o nell’ “imparare ad apprendere”; e questo può attuarsi solo attraverso percorsi continui e faticosi di condivisione di linguaggi comuni – perché i termini non hanno lo stesso significato per tutti -, di costruzione e risoluzione dei problemi, di costruzione e ricostruzione di senso, di un governo dell’incertezza e della complessità del mondo, in quella che Baumann chiama “una società liquida”, e di una capacità di attuare azioni individuali e collettive di cambiamento, che siano esse stesse segno che un altro mondo è ancora possibile.