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Stili di vita alternativi. Nella Valle degli Elfi

di Mario Cecchi - Giuseppe Moretti - 07/03/2010

Questa è la prima parte di una lunga intervista a cura di Giuseppe
Moretti, pubblicata sul numero 35 di Lato Selvatico. L’intervista è
qui riproposta quasi integralmente, con pochi tagli e modifiche e
spero sia il primo articolo di una serie dedicata all’esperienza degli
ecovillaggi e dei felici esperimenti di vita comunitaria, che
sussistono nel nostro paese. Questi possono essere condivisibili o
meno, ma è certo che testimoniano della possibilità di altri modelli
sociali, per un’esistenza se non migliore almeno più coerente con i
propri principi e con la propria intrinseca diversità. (fm).

Mario Cecchi è un anziano del “movimento comunitario italiano”. Il suo
nome è indissolubilmente legato alla Comunità degli Elfi, di cui fu
tra i fondatori nei primi anni ’80, una delle comunità italiane più
longeve ed in continua espansione. A quasi trent’anni di distanza la
Comunità comprende più di una mezza dozzina di insediamenti, tutti
sull’Appennino Pistoiese. Mario, vive in quello di “Avalon” e oltre a
lavorare per l’autosufficienza della comunità nei campi, orti, negli
uliveti e nei boschi, tiene i contatti con il più ampio mondo
alternativo, infatti è attivo sia nel movimento Rainbow che nella Rete
degli Ecovillaggi, nella Rete delle Comunità Intenzionali, nei nuovi
contadini del C.I.R e nella Rete Bioregionale.

Raccontaci come sei diventato Mario degli Elfi.

Il mio approccio alla terra ha inizio nella primissima infanzia.
Vivevo a Genova con i miei genitori ma, d’estate, finita la scuola,
venivo affidato ai miei nonni che vivevano in campagna, in condizioni
simili alle nostre di adesso: un’ora di cammino a piedi dalla stazione
dei treni, riscaldamento e per cucinare a legna, senza luce elettrica.
Lì stavo bene, ero libero, quando potevo aiutavo nell’orto, a fare il
fieno, a fare le fascine per la capra e i conigli, nella vendemmia
ecc.
Mio nonno mi aveva preparato degli attrezzi proporzionati alla mia
statura e, per me, lavorare era un divertimento, non ero costretto
come i figli dei contadini. A volte, per stare in compagnia, non avevo
altro modo che lavorare con loro. Lavoravo con gioia, gratificato
dall’apprezzamento degli adulti. Era anche un sentirmi utile per la
comunità in cui vivevo.
Mio nonno aveva una fattoria piccolina: 1 mucca, 1 maiale, 1 capra, 6
ettari di terreno, equamente distribuito per soddisfare tutte le
necessità della famiglia, tanto che non comprava quasi nulla tranne il
sale e l’olio. Per averli si recava una volta al mese in paese, il
giorno del mercato, così aveva occasione di scambiare opinioni e
pettegolezzi con i suoi amici. Era per lui un giorno straordinario,
poiché il resto del tempo lo impegnava esclusivamente in campagna a
lavorare, con un ritmo molto lento, ma costante. Il tempo libero era
dedicato oltre che a riposarsi all’osservazione: molte delle sue
conoscenze derivavano dall’osservazione della natura. D’estate si
alzava alle 4 del mattino, appena cominciava ad albeggiare, poi si
recava nell’orto a fare i lavori pesanti poiché di giorno faceva
troppo caldo e dopo pranzo era solito riposare almeno fino alle 4.
Costringeva anche me a dormire, sebbene non ne avessi voglia, e spesso
scappavo per andare in giro nonostante la calura.
Di quell’epoca ho un ricordo meraviglioso, ero affascinato da tutto
quello che mi circondava: gli animali, la natura, il senso di libertà
e di intima soddisfazione; cosa che spariva quando ritornavo in città
ed ero costretto ad andare a scuola, racchiuso tra quattro mura, tutte
le mattine, per imparare cose che non mi interessavano. Spariva la
gioia e l’appetito, cominciava la ribellione, il rifiuto, l’apatia.
Da lì il passo è stato breve, ritornare a vivere in campagna è stato
come ricongiungermi alla mia infanzia felice, all’autogestione del mio
tempo, ad organizzare il lavoro e gli spazi come più mi piace, senza
un padrone, condividendo tutto con gli amici che poi sono diventati
gli Elfi.

E gli Elfi chi sono, come e perché sono nati e come sono organizzati?

Gli Elfi sono nati nel 1980, da un gruppo di quattro persone che,
stanche della vita cittadina e di scelte a metà, decisero di andare a
vivere a Pesale (nome elfico Gran Burrone), un paesino abbandonato
dell’Appennino tosco- emiliano, a ottocentottanta metri d’altezza,
raggiungibile solo a piedi. Subito ci fu il contrasto con i
carabinieri, che intimarono loro di andarsene e diedero il foglio di
via obbligatorio alle persone presenti durante la perquisizione.
Questi, invece di rinunciare nei loro propositi, raccolsero qualche
centinaio di firme a loro favore tra la popolazione dei paesi
limitrofi, ed ottennero dal proprietario un foglio che legittimava
l’occupazione, in attesa di poter un giorno comprare il terreno. Così
il magistrato revocò i fogli di via e l’occupazione si estese in poco
tempo ad altri villaggi della zona: Piccolo Burrone, Case Sarti,
Pastoraio.
Gli altri tentativi da parte del comune e della comunità montana di
integrare in un progetto produttivo ed istituzionale la comunità, sono
stati sempre respinti dagli Elfi, che tenevano in grande
considerazione la propria autonomia ed autosufficienza. Per
interloquire con le istituzioni, non come singoli ma come
aggregazione, gli Elfi hanno creato due associazioni: “Il Popolo
Elfico della Valle dei Burroni”, associazione di tipo non
riconosciuta, retta da un comitato di gestione, e “Il Popolo della
Madre Terra”, associazione di utilità sociale senza scopo di lucro.

Dal lontano 1980, gli Elfi si sono diffusi in tutta la montagna, hanno
riabitato le case abbandonate, da ruderi le hanno trasformate in case
comode e confortevoli, consone al loro stile di vita: senza strada,
elettricità, gas. Utilizzano per la cucina e il riscaldamento il fuoco
a legna ed illuminano con i pannelli solari e le candele.
Nell’arco della loro esperienza hanno dato alla luce più di centoventi
elfetti (il più grande ha ora ventitre anni), che riempiono di
allegria quei luoghi altrimenti condannati alla desolazione, se non
fosse per la presenza degli Elfi, che li abitano, li amano, li
custodiscono, li coltivano, e li hanno fatti ritornare alla loro
antica dimensione vitale.
I rapporti con la gente intorno sono di buon vicinato, frequenti sono
gli scambi di cortesie e gli aiuti reciproci, anche se per un periodo
durato più di dieci anni c’è stata una guerra senza esclusione di
colpi con i cacciatori della zona, che si sono sentiti defraudati di
parte del loro territorio di caccia, dalla presenza massiccia degli
Elfi. Per fortuna ora è da parecchio tempo che non accade nulla e
sembra che la ragione abbia prevalso sull’intolleranza. Molte persone
ci stimano per la scelta coraggiosa che abbiamo fatto, ma a nostro
avviso ci vuole più coraggio a vivere nelle città, in quegli
appartamenti di pochi metri quadri, soffrendo d’inedia e di
solitudine, assillati dal problema economico, sempre in fretta per
arrivare in tempo; che a vivere in libertà in mezzo ai boschi,
cibandosi dei frutti freschi della terra.
Gli Elfi adesso sono più di duecento persone distribuite in trenta
ubicazioni, tra villaggi e case sparse. Hanno mantenuto il loro stile
di vita frugale pur non mancando loro nulla dell’essenziale. Non si
sono lasciati intrappolare dalle mode e dalla tendenza imperante del
consumismo. Una strada lunga cinque e più chilometri a piedi in mezzo
ai boschi li separa dalla “civiltà”, i loro figli frequentano con
buoni risultati la scuola media o superiore di Pistoia o Porretta, la
scuola elementare la fanno a casa; non si sentono assolutamente
isolati o fuori dal mondo, anche se conducono una vita diversa e non
accettano la logica della competitività o del massimo profitto, d
el
lavoro-consuma-crepa, dello sviluppo illimitato a discapito della
Madre Terra e della natura umana.
Nessuno ha un lavoro fisso, alle spese della comunità e dei villaggi
si rimedia con gli introiti ricavati dalle pizze che sfornano durante
i festival o le manifestazioni a prezzo politico, per le spese
individuali ognuno provvede da sé, salvo chiedere un contributo alla
Valle quando non riesce a guadagnare abbastanza per far fronte ad una
necessità contingente. Vige un rapporto di fratellanza e di
reciprocità tra tutti gli Elfi e non Elfi che vengono a trovarci:
basta inserirsi nell’onda magica della condivisione che esiste nella
natura dell’uomo, quando non è traviato dall’individualismo e
dall’egoismo della società attuale, che ha eletto il denaro a suo
unico Dio e si è dimenticata i valori spirituali ed umani alla base
della convivenza “civile”, almeno dal nostro punto di vista.
Le decisioni vengono prese con il consenso di tutti, mai con votazioni
a maggioranza, ma tramite il cerchio, la forma di come ci si dispone
per parlare, a dimostrazione che non esiste un capo, ma che siamo
tutti equidistanti dal centro, sede del potere o del grande Spirito.
Si attua un meccanismo di discussione e confronto che coinvolge tutti
i membri interessati della comunità, si parla uno alla volta quando
arriva il “Bastone Sacro della Parola”, che gira in senso circolare
sino a che non si dipanano tutte le questioni e si raggiunge l’accordo
(che non implica l’unanimità – qualcuno può anche dissentire
inizialmente, ma ciò non blocca la decisione degli altri). Questo
metodo è sempre stato utilizzato all’interno del cerchio degli Elfi
senza mai avere una forma codificata, ma funzionando sulla fiducia,
poiché le persone sono stimolate a parlare dal cuore e non secondo un
calcolo.
Una storiella che rappresenta molto bene il succo della vita e il modo
di pensare Elfico è: …..un uomo d’affari vide con fastidio che il
pescatore, sdraiato accanto alla propria barca fumava tranquillamente
la pipa.

- Perché non stai pescando? Domando l’uomo d’affari
- Perché ho già pescato abbastanza pesce per tutto il giorno.
- Perché non ne peschi ancora?
- E cosa ne farei?
- Guadagneresti più soldi. Allora potresti avere un motore da
attaccare alla barca per andare al largo e pescare più pesci. Così
potresti avere più denaro per acquistare una rete di nailon, e avendo
più pesca avresti più denaro. Presto avresti tanto denaro da poterti
comprare due barche o addirittura una flotta. Allora potresti essere
ricco come me.
- E a quel punto cosa farei?
- Potresti rilassarti e goderti la vita.
- Cosa credi che stia facendo ora?

(tratto da “Elogio alla Semplicità” di John Lane, edizioni Il Libraio
delle Stelle)

Qual è il significato del modo di essere elfico nella moderna società di oggi?

L’esperienza degli Elfi ha un’importanza che travalica il suo stesso
marginalismo, perché si propone (per il fatto stesso di esserci) come
modello di società post-industriale, post-capitalista, sostenibile,
compatibile con l’ambiente e vivificante per l’uomo stesso.
In un periodo storico ancora dominato dall’avidità capitalista, che
sta distruggendo l’ecosistema terrestre mettendo a repentaglio la
sopravvivenza stessa della specie umana, si fa strada un altro
paradigma fondato sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla solidarietà,
sulla cooperazione e sull’evoluzione spirituale dell’essere umano,
come valori fondamentali per una nuova rinascita in tutti i campi
della vita sociale. Mentre un modello di “sviluppo”, un certo tipo di
“civiltà” e di “progresso”, sono destinati al collasso ed andranno
incontro ad una crisi senza precedenti, dall’altro lato si sta
affermando una coscienza ed una ri-conoscenza delle antiche leggi di
natura e della spiritualità connessa, che presuppongono un rispetto
degli equilibri naturali ed un’interazione che tiene conto delle
necessità biologiche di ogni specie, per il mantenimento della
biodiversità.
L’uomo non è il padrone assoluto del pianeta, ma ne è ospite gradito o
inopportuno (Questo dipende da noi, adesso, alle soglie della
catastrofe ecologica, sappiamo che tipo di impatto ambientale abbiamo
prodotto!). “Se vuoi preservare la vita sulla terra insegna ai tuoi
figli ad amare tutti gli esseri dal più grande al più piccolo, e
ricorda sempre loro che l’uomo è soltanto un filo nella matassa della
vita.* (1)
Da li parte la valutazione che noi Elfi non siamo più gli utopici
hippy avventurieri fuori dal mondo e dalla storia, ma un baluardo di
resistenza culturale, umana e naturalistica che incarna il bisogno
della terra e del genere umano per una riconciliazione. La terra non
parla, ma si esprime in altri modi ancor più eloquenti, e diventa
comprensibile per ogni individuo non completamente accecato dal denaro
(uguale potere), che ora ci sta chiedendo di cambiare strada, cambiare
il nostro stile di vita, il nostro atteggiamento mentale, oltre che il
nostro sistema economico, politico e sociale.
Quindi noi non abbiamo fatto altro che incarnare questo bisogno
creando una microsocietà fondata su altri valori, quali l’uguaglianza
tra i sessi, la condivisione dei beni e dei mezzi di produzione,
l’annullamento dei ruoli, la famiglia allargata, la centralità della
terra, della montagna e della “contadinità”, quali risorse primarie
per risolvere i bisogni elementari, ma anche quali valori intrinseci
di un corretto rapporto uomo-natura e cultura, nella salvaguardia e
nella gestione dell’ambiente in modo da preservarlo per le generazioni
future. Una microsocietà in cui vengono rispettati i principi
elementari degli uomini/donne quali la parità di diritti (e doveri) e
la partecipazione alle scelte della comunità attraverso un processo
decisionale che coinvolge tutti i membri in una discussione franca e
pacata (senza lo stress dell’urgenza o dell’emergenza).
Una microsocietà dove gli anziani trovano una loro naturale
collocazione nel tramandare i saperi e rendendosi utili come possono,
e i bambini non vengono manipolati fin dall’infanzia per le esigenze
di una società competitiva e produttivistica, ma vengono invece
rispettate le loro inclinazioni ed i loro tempi di apprendimento,
dando pari importanza allo sviluppo intellettuale e pratico.
Nella creazione di un’altra economia si privilegia il baratto, lo
scambio o il dono, che non seguono leggi di mercato bensì il valore
d’uso, quando l’affettività o la relazione amicale non superano anche
il rapporto dare-avere.
L’economia svolge una funzione minima in quanto ogni comunità tende
verso la propria autonomia ed autosufficienza, oppure consuma prodotti
provenienti da una zona vicina, in modo da sprecare meno energia per
il trasporto e poter esercitare un controllo sulle merci (filiera
corta). Poiché è importante sapere da dove viene il cibo, come è
prodotto e perché: dalla scelta consapevole si può orientare il
mercato e la produzione verso un’etica di rispetto dell’ambiente e dei
diritti umani (Pensare globalmente, agire localmente).
Per ridurre l’impatto ambientale è necessario eliminare lo spreco,
ogni materia è fonte di energia e va utilizzata fino al limite del suo
ciclo, mentre in questa società viene scartata come rifiuto e
distrutta negli inceneritori, anche se ancora valida, quando potrebbe
essere data ai non abbienti o alle popolazioni del sud del mondo.
Tante e tali sono le contraddizioni e le ipocrisie della società
attuale che oramai ci vuole poco a riconoscere gli errori (viste le
conseguenze), ma è difficile cambiare poiché il sistema
politico-economico-militare delle multinazionali del potere è entrato
ovunque, con qualsiasi mezzo per scardinare o corrompere la vita sana
e naturale delle comunità locali (…). Tuttavia quando la coscienza
collettiva dell’umanità avrà raggiunto la consapevolezza che non è
possibile continuare così – e i cataclismi che la natura mette in atto
ce lo faranno capire – allora, se saremo ancora in tempo, cambieremo
il nostro stile di vita e non daremo più retta all’illusione del
progresso e dello sviluppo illimitato. La natura e la pazienza hanno
un limite. Un modo diverso di vivere è possibile, anzi già esiste…
“O Madre cosmica, Madre amata, tu permetti la nostra vita nel tuo
corpo, grazie perché mi dai l’opportunità di essere qui, grazie perché
mi alimenti, grazie perché mi proteggi” (2)

(1)(2) le citazioni sono tratte da “La donna dalla coda d’argento” di
Herman Mamani, editore Mondatori.

Ci puoi parlare dei Rainbow gathering, del movimento degli Ecovillaggi
e del CIR, di cui sei membro attivo. Cosa li differenzia e cosa li
accomuna?

La famiglia Rainbow propone un nuovo modo di vivere. Senza tanti
ideologismi o teorie si basa su una visione di vita armonica in cui
tutte le diversità possono coabitare, come i colori dell’arcobaleno,
appunto. Non c’è competizione, ma l’amore è quello che ci diamo
reciprocamente quando ci incontriamo nei raduni dell’arcobaleno.
Si cerca un posto che abbia le caratteristiche adatte, selvatico,
lontano dalle strade, raggiungibile solo a piedi in un’ora, un’ora e
mezzo di cammino, con legna secca e acqua a sufficienza, una piana
dove incontrarci, una buona relazione con la gente: i pastori o i
proprietari del luogo che ospita l’incontro. Quando un gruppo di
persone è andato a vederlo e ha dato il consenso, allora viene
comunicato ai “focalizzatori” (una decina in Italia), che diramano
l’informazione ai simpatizzanti, che a loro volta faranno risonanza.
Nell’incontro non si fa commercio, ognuno porta quello che può, la
spesa per ogni necessità viene sostenuta dal “cappello magico”,
raccolta di soldi effettuata a fine pranzo, dove ognuno mette a suo
piacimento. Non ci sono capi né organizzatori, ognuno è promotore e
porta il suo contributo, la propria energia, esperienza e conoscenza.
Tutto si fonde nell’armonia del gruppo. Come nel calderone delle
verdure che unendosi assieme vanno a preparare dell’ottimo minestrone
(…) Ognuno si porta la propria ciotola e sacco a pelo, può trovare
ospitalità nei tepee della famiglia, se non ha tenda propria; ci si
arrangia e si impara a vivere semplicemente anche con le risorse del
selvatico che il luogo offre, attribuendo maggior importanza alle
relazioni, all’affettività ed al rapporto con la Madre Terra, che non
al materialismo fine a se stesso, sinonimo del possedere. Siamo tutti
fratelli e apparteniamo alla stessa Madre Terra e, grazie alla nostra
cultura, non faremo mai la guerra.
Per cambiare il mondo, trasformiamo noi stessi, questa è la migliore
rivoluzione che si possa fare, ed il maggior contributo che possiamo
dare.
La R.I.V.E (Rete Italiana Villaggi Ecologici) è un’associazione di
promozione sociale, con una struttura verticistica, ma in pratica
funzionante come organizzazione orizzontale, in cui ogni ecovillaggio
partecipa attraverso una o più persone delegate. E’ importante che chi
vi partecipa dia una continuità di presenza agli incontri, in modo da
consentire una miglior crescita del gruppo. L’organo sovrano è
l’assemblea dei soci, che si riunisce una volta all’anno per
ratificare tutte le decisioni prese dal consiglio direttivo oltre che
il bilancio, l’ingresso o la recessione dei soci. Possono farne parte
come sostenitori anche singoli ed enti.
Ormai la R.I.V.E ha superato il decennale di vita, nel tempo si è
consolidata l’amicizia tra i membri e grazie agli incontri si è
raggiunto un ottimo livello nella comunicazione e nel prendere le
decisioni. Questo è stato possibile poiché abbiamo scelto di fare le
riunioni con un facilitatore esterno, il quale ha la capacità, grazie
alla sua formazione ed al potere che noi gli riconosciamo, di
mantenere la discussione entro i tempi ed i binari prestabiliti,
favorendo il confronto e la sintesi. Altrimenti, le decisioni vengono
prese col metodo del consenso, che ho spiegato sopra.
Esistono varie tipologia di ecovillaggio, ma tutte coniugano quattro
dei filoni fondamentali dell’esistenza: ecologia, comunità, cultura e
spiritualità, e si caratterizzano a seconda dell’importanza che diamo
ai singoli fattori. In ognuno di questi filoni l’ecovillaggio cercherà
criteri e soluzioni nuove per vivere insieme conformemente alle
proprie necessità, nel rispetto della persona e della dialettica
interna, su basi paritarie di solidarietà e fratellanza.
L’ecovillaggio è quindi un laboratorio, un luogo di sperimentazione
dove si privilegia il bene comune e individuo e comunità collaborano
tra loro, interagiscono reciprocamente fino a trovare il giusto
equilibrio.
Il CIR è nato durante la fiera dell’autogestione a San Martino in Rio
(RE) nel ’95. Un gruppo di rurali si è incontrato ed ha dato origine
al bollettino che ha preso, appunto, il nome di CIR (Corrispondenze e
Informazioni Rurali), che è lo strumento di divulgazione e di
propagazione della rete creatasi intorno al progetto di mettere
insieme ed organizzare un bagaglio di conoscenze, vissuti e produzioni
del “popolo contadino”.
“Un popolo che viene da molto lontano ed ha l’ambizione di andare avanti”.
Ogni anno si fanno un paio di incontri in posti sempre diversi, e in
quella sede ci si organizza per dare il nostro apporto alle battaglie
più importanti contro le biotecnologie o contro le multinazionali del
transgenico: Monsanto, Novartis, Bayer etc..,che minacciano la
preservazione dell’ambiente, la biodiversità, la salute umana e del
pianeta.
Ha cercato di sollevare la pietra sui “beni comuni” propugnando il
ritorno alla terra, l’affidamento ai giovani delle terre demaniali e
di uso civico, il ritorno alle comunità rurali e al localismo quale
unica fonte per la salvaguardia del territorio, per arrivare
all’autosufficienza, alla sovranità alimentare, allo scambio e
all’autoproduzione delle sementi, al rapporto diretto tra produttore e
consumatore.
Ma, l’impegno sociale-pratico-organizzativo di partecipare alle
iniziative che vanno sempre più aumentando, si scontra con la realtà
quotidiana di chi vive sulla terra e abbisogna della sua presenza
costante ogni giorno o quasi, quindi, per molte persone è stato ed è
difficile mantenere una costanza nell’attivismo se non a discapito
della propria vita. Per questo e per altre contraddizioni sorte in
seno al gruppo promotore, il CIR si è molto indebolito sebbene rimanga
pur sempre valido e sentito l’intento, tant’è vero che si sono create
diverse filiazioni o aggregazioni simili a livello regionale.
La diversità tra un organismo e l’altro consta proprio nella modalità
di approccio alle tematiche, che pur essendo simili per tutte e tre le
reti, occupano ognuna uno spazio diverso rispetto alle esigenze
espresse dalle persone.
Il Rainbow è principalmente un incontro estivo prolungato anche per
più di un mese, ed un incontro primaverile organizzativo breve. Il CIR
è sempre due volte all’anno per un tempo breve, 3 o 4 giorni, ma con
una finalità di intervento nelle battaglie politiche in difesa della
ruralità ecologica. La R.I.V.E, si occupa principalmente della rete
degli ecovillaggi o delle comunità esistenti o in formazione,
promuovendone la nascita e lo sviluppo. Sono reti simili ed è giusto
quindi che comincino a collaborare tra loro.

Fra le tante cose ti occupi anche dei cosiddetti “usi civici” delle
terre, un antichissimo ordinamento giuridico che garantisce il diritto
di coltivazione, pascolo, legnatico, e raccolta dei frutti selvatici
su certe aree alla gente che ne ha bisogno per la propria
sopravvivenza. Purtroppo, pur essendo un diritto tutt’ora valido,
pochi oggi ne sono a conoscenza, lasciando così ampia libertà alle
amministrazioni pubbliche di farne l’uso che vogliono. A che punto è
il movimento per la riappropriazione degli usi civici, ci sono
speranze per il futuro di quei giovani che vogliono ritornare alla
terra facendo affidamento su questi usi, sanciti giuridicamente, ma
burocraticamente così difficili da ottenere?

È vero, fra le tante cose di cui mi occupo, vi sono anche gli usi
civici. Inutile ripetere cosa sono, lo hai già accennato nella
domanda. L’importanza che io attribuisco agli usi civici è quella che
attribuisco ai “beni comuni”, in antitesi con la proprietà privata e
con la proprietà pubblica, dello Stato o delle Regioni, che si
comporta alla stessa maniera di quella privata. I beni comuni sono
beni condivisi, vanno gestiti insieme a tutti i residenti o gli aventi
diritto. Ne esistono di diverse specie e, a seconda della Regione,
assumono nomi diversi: Laudo, Universalitas, Comunanze etc. Hanno un
comune denominatore: per utilizzarli vanno stabilite delle regole, che
devono essere approvate, condivise da tutto il popolo residente.
Non si possono vendere né alienare, ed è per questo che esistono
tutt’oggi, altrimenti sarebbero finiti in pasto agli innumerevoli
sciacalli. Infatti, così è stato per tanti usi civici che sono stati
usurpati dalla speculazione privata o dai comuni, laddove il popolo
che li usava non c’è più, si è disperso, dimenticandosi dei suoi
diritti su quelle terre.
La legge Serpieri del 1927 ha riconosciuto la legittimità di quelli
esistenti, ma ha impedito la costituzione di nuovi. In deroga a questa
legge noi abbiamo chiesto di poter collocare sotto tale forma
giuridica le terre da noi occupate o comprate, ma l’iter è
parlamentare e quindi non se ne parla nemmeno con la sensibilità
politica che c’è oggi. Chiunque sia a conoscenza di dove tali diritti
permangono, può farne richiesta (prendendo la cittadinanza nel comune)
di utilizzo e vantarne il diritto d’uso insieme agli altri residenti:
poiché può essere un erede degli eredi, degli eredi… di chi li
utilizzava.
La loro natura è agro-silvo-pastorale: erano stati concepiti per la
sussistenza del popolo “minuto”, e tali devono rimanere per impedire
le speculazioni. Dove sono stati considerati adatti per l’edilizia,
state tranquilli li hanno già utilizzati in tale senso, privatamente o
tramite appalti comunali. A nulla sono valse le istruttorie intentate
dai vari commissari “ad acta” per gli usi civici. Sono rimaste lettera
morta, nonostante la legislazione in materia: il codice degli usi
civici, che andrebbe fatto rispettare, ma la giustizia è quella che è,
siamo in uno stato di diritto quando fa comodo ai potenti, in uno
stato che abiura il diritto, anzi usa dei codicilli per insabbiare lo
stesso, quando nuoce ai loro interessi. Così nell’agropontino, nel
Lazio, sono state costruite più di 200 case abusive, ma le denunce
rimangono infossate nello stagno della burocrazia. I giovani, che
speranze volete che abbiano: dovranno seguire l’iter burocratico e
scontrarsi con l’apparato politico-istituzionale, con quali risultati?
Provate ad immaginare: uno su mille forse ci riesce.