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La bellezza del corpo nudo è sublime se contemplata con lo sguardo dell'anima

di Francesco Lamendola - 11/04/2010

La nostra cultura è ossessionata dal corpo nudo, lo vede e lo cerca dappertutto, dalla pubblicità della pastasciutta alla copertina di un settimanale di politica e attualità; ma ad una condizione: che esso sia giovane, bello, sano, depilato, abbronzato e palestrato.
Lungi dall’essere un corpo naturale, il corpo la cui nudità viene continuamente celebrata è un corpo totalmente artificiale, inverosimile, inesistente in natura. Di conseguenza, anche il suo affannoso inseguimento nasce da un sostanziale equivoco: non è la naturalezza che si cerca e non è naturale il desiderio; ma tanto il desiderio quanto la ricerca sono figli malati di una condizione spirituale patologica.
Negare ciò, significa barare al gioco e truccare le carte; significa essere intellettualmente disonesti. Se la condizione naturale del corpo nella nostra società fosse la nudità, allora noi dovremmo accettare ed accogliere di buon grado qualunque corpo: anche se vecchio e malato, anche se obeso e deforme. Invece non è così: anzi, proviamo addirittura sentimenti di repulsione di fronte a tali corpi; e più forte li provano proprio coloro che vanno cianciando della assoluta e ovvia naturalezza della nudità.
La cultura dominante ama dire e ripetere fino alla noia che l’ossessione del corpo è il frutto di secoli di repressione, di colpevolizzazione, di demonizzazione - addirittura - del corpo nudo; ma questa è una litania che, per quanto reiterata con monotona perseveranza, non dovrebbe convincere quanti possiedono ancora un po’ di senso critico.
È vero: nella cultura cristiana dei primi secoli vi è una reazione contro l’ostentazione del corpo nudo, propria della classicità; ma bisogna storicizzare. La tarda antichità aveva spinto quella ostentazione fino ai limiti estremi della pornografia, del sadismo, della pedofilia; e che altro erano le carneficine dei giochi gladiatorî e l’esposizione alle belve feroci, se non una sadica celebrazione del corpo nudo torturato, insanguinato, massacrato? La cultura cristiana ha reagito a siffatte degenerazioni e ha tentato di bonificare la palude in cui era sprofondata la sensibilità tardo-antica; certo non senza cadere, talvolta, nell’esagerazione uguale e contraria, come certi monaci della Tebaide che vedevano la presenza del Maligno ovunque comparisse un corpo, specialmente se femminile.
Tuttavia, non è questo il punto.
Il punto è che troppo tempo è trascorso e troppa acqua è passata sotto i ponti perché si possa ancora sostenere, seriamente, che l’odierna ossessione del corpo sia una reazione all’educazione repressiva dei tempi andati. Sarebbe molto più leale riconoscere che essa è, viceversa, il frutto, da un lato, di una sfacciata e sempre più decisa operazione commerciale (fino al cattivo gusto del «Chi mi ama, mi segua» stampato sui mini-jeans che coprono a stento due procaci glutei femminili), e, dall’altro, di una repressione, quella sì, tenace e consapevole, esercitata proprio dalla cultura della modernità: ossia dell’idea del nostro essere mortali.
In tal modo, esaltare il corpo nudo artificiale consente di prendere, per così dire, due piccioni con una fava: favorire l’industria dell’abbigliamento, veicolando nuove immagini del corpo e, quindi, introducendo profondi mutamenti culturali; ed esorcizzare (si fa per dire) la paura della morte, davanti a cui anche la scienza e la tecnica - sotto ogni altro rispetto rimaste padrone incontrastate del campo, dopo l’eclisse del sacro - hanno dovuto arrendersi, lasciando l’uomo moderno in uno stato di angoscia intollerabile.
L’uomo moderno, infatti, non è più in grado di capacitarsi della propria mortalità: vede che ogni altra barriera ha ceduto, che ogni altro limite è stato oltrepassato, ma quello no, quello resiste; egli è disperato e rabbioso, perché si sente ingiustamente condannato a morire, proprio adesso che aveva trovato la formula alchemica per trasformare ogni cosa in oro. E, non potendo rendersi ragione della morte, non trova di meglio che rifugiarsi nel mito regressivo del corpo nudo sempre giovane, sempre bello, eternamente sano.
Intendiamoci: non è l’idealizzazione del corpo a costituire un problema. I celebri nudi dei grandi artisti del Rinascimento, per non parlare dell’arte classica, sono lì a dimostrare che l’animo umano aspira naturalmente alla bellezza, e quindi anche alla bellezza del corpo. Sarebbe ipocrita volerlo disconoscere. Il problema nasce dal fatto che, se la nudità del corpo fosse naturale, allora esso non farebbe scandalo quando perde i requisiti della freschezza, della salute, della giovinezza, eccetera: verrebbe accettato anche nel suo sfiorire e nella sua decadenza.
Invece il corpo anziano e malato fa scandalo, esattamente come - nella nostra società - fa scandalo la morte. Non sono forse entrate nel linguaggio comune espressioni come: «Lo ha ucciso una malattia», oppure: «La montagna assassina ha travolto gli alpinisti?».  Se la morte fosse vista come cosa naturale, non  se ne parlerebbe come di una ladra e un’assassina. Similmente, se il corpo nudo fosse visto in maniera naturale, non ci sarebbe bisogno di porre dei limiti estetici alla sua fruizione: vale a dire, in sostanza, dei limiti anagrafici.
Alcune acute osservazioni in proposito sono state fatte dal filosofo Sergio Givone  (già allievo di Luigi Pareyson e ordinario di Estetica presso la facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Firenze) nel suo articolo «La nudità vissuta e rappresentata» (su «L’Erasmo. Bimestrale della civiltà europea», Milano, n. 7, febbraio 2002, pp. 4-9):

«… Certamente l’esser nudi dice qualcosa d’innegabile sulla condizione umana Sia in senso positivo sia in senso negativo. In senso positivo: nudo è che si è tolto gli indumenti, che sono artificiali, dunque un di più, e dunque nudo è chi ha una percezione più libera di sé  e almeno per certi aspetti più gioiosa, come dimostra il fatto che il piacere sessuale si accompagna solitamente alla nudità.  Ma anche in senso negativo: nudo è sinonimo di spogliato della propria seconda pelle, se non proprio della propria dignità, così com’è sinonimo di inerme, esposto alle intemperie e alle aggressioni degli altri  animali, che la natura ha dotato ben altrimenti che l’uomo.
Tuttavia ciò non significa affatto che la nudità sia la nostra condizione naturale.  Sarà pure un paradosso, ma per l’uomo la nudità non è uno stato, un modo d’essere primitivo e originario, bensì il risultato di un processo. Non lasciamoci ingannare dal fato che nasciamo nudi. Il vero  atto di nascita, per noi, non è venire al mondo nudi, ma  l’essere accolti da qualcuno che si prende cura di noi e ci veste.  Così non fosse, l’atto di nascita coinciderebbe con l’atto di morte e non saremmo qui a parlarne. Ben lungi dall’essere la condizione naturale dell’uomo, la nudità è un punto d’arrivo più che un punto di partenza. Tant’è vero che la nudità è sempre una condizione che dobbiamo riconquistare o una condizione a cui siamo costretti.
Riconquista la nudità, con gesti che possono essere molto sofisticati, ma anche inconsapevoli e automatici, l’amante  che si accosta all’amato, e appunto di un riconquistare si tratta, un risalire verso fonti dimenticate e sepolte neanche il corpo desiderato fosse il paradiso perduto.  Anche la nudità del naturista p una nudità riconquistata.  Ha un bel dire, il naturista, che per lui lo star nudo  quanto di più semplice e spontaneo ci sia.  Come non fosse proprio lui a parlarci della necessità di liberarci dei tabù. O a salutare la caduta di ogni pezzettino di stoffa come un passo verso l‘emancipazione. Dunque, quello che addita agli altro è pur sempre un cammino che ha più del’ascetico che non del festoso. Alla fine de quale il più delle volte ss’incontra una simulazione di naturalezza per lo meno sospetta. Quanto alla nudità che non è certo una conquista, ma al contrario un’imposizione, c’è poco da dire.  L’uomo che è obbligato a denudarsi, o è denudato a forza, e lasciato in quello stato, patisce violenza ma anche umiliazione.  L’atto compiuto sui di lui è peggio che disumano. È disumanizzante. Lo riduce a meno che uomo, lui, che animale e soltanto animale non può essere.
Sia la nudità riconquistata sia la nudità che deriva da costrizione lasciano perciò ben poco spazio all’idea che essa per noi possa rappresentare la condizione naturale. Ci si può illudere. Si può caratterizzare il sogno di un’innocenza  edenica che è lì, a portata di mano: basta togliersi i vestiti e vivere in armonia con la natura. Che cosa significhi togliersi i vestiti, lo sappiamo.  Un po’ meno sappiamo che cosa significhi vivere in armonia con la natura, anche se facciamo finta di saperlo. Ma tant’è. Quel sogno è stato sognato un infinità di volte. Almeno da Rousseau in poi.  Ed ecco uomini e donne, nudi, e possibilmente giovani e belli, stringere patti comunitari e intrecciare danze nei  boschi e bagnarsi in acque purissime e magari gelide… Ci sono anche interessanti documentazioni fotografiche di ciò. Peccato che da esse non risulti come questi movimenti neo-pagani abbiano incontrato spesso il favore di altri movimenti, il cui conclamato culto della corporeità (e della nudità) nascondeva una demoniaca volontà di dominio anzitutto sui corpi. E come il sogno sia diventato un incubo.
Se la nudità NON è la condizione naturale dell’uomo, può essere tuttavia la condizione ideale. Nude, creature umane che riposano perfettamente in e stesse, tali cioè che in esse il particolare (quel determinato corpo) e l’universale (l’idea di uomo) coincidono. Creature di questo tipo nella realtà capita raramente d’incontrarne e anzi non capita affatto. L’uomo però ha sentito il bisogno d rappresentarle. E c’è anche riuscito. La sua dunque non è una fantasticheria. a contrario è una manifestazione di verità. Ossia qualcosa che lascia intravedere chi veramente siamo  o chi siamo chiamati a essere. […]
Consideriamo la statuaria greca. Dove il corpo nudo  dell’uomo esprime l’idea e anzi è tutt’uno con la forma sensibile  dell’idea. Com’è possibile un miracolo del genere? È possibile perché l’uomo è il solo essere che è nella natura ma è anche molto più che natura, è spirito. Ossia raccoglie in sé un intero mondo e anzi il mondo intero. Giustamente si dice che l’uomo è un microcosmo.  Ma proprio perché l è, il suo modo di essere (cioè il suo essere com’è, il suo essere nudo)  esprime non solo questa determinata particolarità individuale, ma l’idea. La natura contemplata dal unto di vista dello spirito svela ciò che sul piano puramente naturale resterebbe nascosto, ossia che il corpo dell’uomo incarna l’idea, riflette il divino Attraverso lò’arte i greci l’hanno intuito e mostrato. […]
Agli antipodi de’arte classica, l’arte contemporanea. Se l’arte classica innalza il nudo, il corpo nudo, suo piano del’idea,  giungendo addirittura a identificarlo con essa, l’invece l’arte contemporanea per così dire denuda l’ideale e lo investe di pulsioni che vengono al basso. Se l’arte classica non aveva occhi che per la forma, la pura forma, e quindi escludeva ogni particolarità, invece l’art contemporanea predilige il deforme e il puramente fisiologico oltre che l’individuale, l’eccessivo, il trasgressivo. Infine, se l’arte classica purificava l’eros fino a rappresentarlo come perfettamente appagato, invece l’arte contemporanea sembra restituirgli tutto il suo furore e il suo demonismo. Com’è stato detto giustamente: solo un maniaco può provare eccitazione sessuale di fronte  a una statua greca, mentre oggi non c’è quasi opera d’arte che non sprigioni un oscuro brivido erotico.  […]
Della nudità l’parte contemporanea porta alla luce il volto notturno, infero, e questo in un mondo che concepisce il denudamento nella forma del più volgare e inconsapevole esibizionismo.
Eppure, anche dell’arte contemporanea, benché abissalmente lontana dal’arte classica, si deve dire esattamente come di quella, che è una manifestazione di verità, verità su di noi. Che poi la “verità” luminosa e olimpica dell’arte classica contraddica quella oscura e sotterranea dell’arte contemporanea, e viceversa, non importa. Il nudo, come l’uomo, è cosa sommamente ambigua, anzi, contraddittoria.»

Dunque: l’arte trasfigura il corpo nella sua idea essenziale, vale a dire lo vede e lo rappresenta con gli occhi dell’anima. Ogni vero artista, quando ritrae il corpo umano nella sua nudità, opera tale trasfigurazione.
Viene da domandarsi, a questo punto, se gli artisti moderni, così spesso incapaci di tale trasfigurazione, siano ancora degli artisti o non piuttosto dei pornografi. Il loro appello ai bassi istinti non è solo un inno alla volgarità; è anche una mistificazione del corpo.
Il corpo, infatti, è molto più di un insieme di ossa, muscoli, tendini, vene, arterie, organi e tessuti; vi è una sacralità in esso, derivante dall’essere il tempio vivente della persona (e qui, dobbiamo pur dirlo, ci discostiamo dalla lettura di filosofi come Givone, tipicamente occidentale, quasi che non vi fosse una sacralità e non vi fosse un’anima anche nel corpo delle altre creature viventi).
Perciò, rappresentare il corpo in modo veritiero - che è altra cosa dal rappresentarlo in modo veristico - significa saperlo cogliere per quello che effettivamente è: la parte visibile della persona, l’involucro dell’anima.
La rappresentazione di un corpo senz’anima, per quanto bello e perfino seducente, altro non è che un tristo esercizio di necrofilia.
Necrofili sono molti sedicenti artisti moderni; necrofili sono molti uomini e donne che si credono grandi amatori, solo perché sanno spogliare e possedere molti corpi; necrofila è la società che trova normale questa orribile deformazione della persona.
La bellezza del corpo nudo è sublime: ma solo se contemplata con gli occhi dell’anima.