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È stata una scelta saggia e felice quella di Roma capitale?

di Francesco Lamendola - 26/08/2010



In un precedente articolo, «E se Milano, e non Roma, fosse divenuta la capitale d’Italia?» (sul sito di Arianna Editrice in data 07/01/2008) avevamo ipotizzato che la scelta di porre la capitale nel Nord del paese avrebbe potuto “settentrionalizzare” l’Italia, con vantaggio dell’economia, della politica e della società nel suo complesso, così come Parigi aveva potuto “settentrionalizzare” la Francia; mentre la decisione di portarla a Roma aveva avuto l’effetto di “meridionalizzare” l’Italia, ossia di estendere a tutta la giovane nazione i difetti e le croniche disfunzioni dell’amministrazione borbonica e di quella papalina.
(Mentre stiamo scrivendo, il computer sottolinea come erronea la parola “settentrionalizzare” ma non trova nulla da eccepire sulla parola “meridionalizzare”: segno che anche il vocabolario si è perfettamente adeguato alle modalità in cui si è svolto il processo di strutturazione dello Stato italiano dopo il 1861; e poi qualcuno dubita ancora che la storia sia, per definizione, quella scritta dai vincitori, sempre e comunque).
Ora vogliamo chiederci quali considerazioni abbiano indotto il nascente Stato italiano a fare di Roma la propria capitale, dapprima “spodestando” Torino (ove, infatti, scoppiò per contraccolpo una grave insurrezione popolare), indi trasferendola via da Firenze, ove era stata temporaneamente fissata in seguito alla “convenzione di settembre” con Napoleone III.
Il conte Camillo Benso di Cavour, che la maggioranza degli storici non solo italiani, ma europei, hanno giudicato come uno dei più grandi uomini politici del XIX secolo (giudizio, per inciso, che non condividiamo), aveva nelle proprie mani la politica del Regno sabaudo nel momento in cui esso si stava trasformando nel nuovo Regno d’Italia. A lui, pertanto, benché morto il 6 giugno 1861 e, dunque, quasi un decennio prima che Roma divenisse effettivamente la capitale d’Italia, spetta la principale responsabilità o, se si preferisce, il merito principale (a seconda dei punti di vista) di quella decisione che avrebbe legato per sempre il destino di una giovane nazione, fatta essenzialmente da uomini e idee settentrionali, ad una vecchia capitale che, nelle sue due lunghe stagioni di gloria, quella di Roma imperiale e quella del papato medievale, si era configurata essenzialmente come la capitale dell’Italia peninsulare, ossia dagli Appennini in giù (quella che, appunto, i Romani chiamavano propriamente Italia, fino al tempo di Augusto; mentre l’Italia continentale era, per essi, la Gallia Cisalpina).
Già nel tardo Impero romano vi erano state delle avvisaglie di dualismo fra il Nord e il Sud dell’Italia, o meglio, un ritorno a quel dualismo che era sempre esistito, almeno fino alla guerre puniche; basti dire che Milano e Ravenna furono, negli ultimi tempi, le capitali dell’Occidente, non Roma, benché il Senato continuasse a risiedere in quest’ultima. E, talvolta, il dualismo era degenerato in antagonismo e perfino in guerra aperta: così, ad esempio, nel 472 d. C., al tempo dello scontro fra l’imperatore Antemio e il suo generale germanico, Ricimero, l’uno insediato a Roma, l’altro a Milano; scontro che si era risolto con l’assedio, la conquista e il saccheggio di Roma da parte dei 6.000 barbari scesi dalla Pianura padana.
Poi, con gli Ostrogoti dapprima, con i Longobardi poi, tale dualismo si era rafforzato: Verona coi primi, Pavia con i secondi, si erano succedute come capitali dei nuovi regni barbarici, mentre a Roma si delineava un potere spirituale e al tempo stesso temporale che eccedeva di molto l’ambito politico italiano e si andava sviluppando in termini ecumenici, cioè universali.
Lo stesso dualismo, del resto, si andava profilando persino all’interno dell’Italia bizantina: con Ravenna che restava capitale non solo dell’Esarcato, ma di tutti i territori della Penisola facenti parte dell’Impero Romano d’Oriente; mentre Roma, sia pure nominalmente bizantina, sempre più si emancipava da quella ingombrante tutela e si avviava ad assumere quel ruolo mondiale che ne avrebbe caratterizzato la vicenda per tutti i secoli del Medioevo ed oltre.
Certo nel XIX secolo la sopravvivenza del potere temporale della Chiesa era un grosso anacronismo, anche se bisognerebbe evitare di giudicarlo secondo le categorie mentali della modernità: modernità che, a quel tempo, si andava ancora affermando, ma non senza incontrare resistenze e generare conflitti (si pensi solo al “Sillabo” di Pio IX, sul versante spirituale e culturale; oppure, sul versante politico, a vicende come la rivolta  della Vandea nel 1793 e quella dei contadini sanfedisti nel Regno di Napoli nel 1799).
E tuttavia Cavour, la più grande mente politica italiana dell’epoca - d’accordo, in questo, con Mazzini, suo irriducibili antagonista - era fermamente convinto che Roma, e solamente Roma, avrebbe potuto essere la degna capitale, anzi la “naturale” capitale, del nascente Stato italiano; e questo prima ancora che il nodo del potere temporale del papa fosse stato sciolto.
Ecco come Cavour espose il suo punto di vista sulla questione di Roma capitale, nel corso del primo e più famoso dei tre discorsi per Roma capotale, tenuto alla camera il 25 marzo 1861 (gli altri due furono pronunciati rispettivamente alla Camera il 27 marzo e al Senato  il 5 aprile), in mezzo agli applausi generali (da: Camillo  Benso di Cavour, «Discorsi parlamentari», a cura di Delio Cantimori, Torino, Einaudi, 1942, pp. 247-251):

«L’onorevole deputato Audinot vel disse senza riserva: Roma debb’essere la capitale d’Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma, se questa verità non è prima proclamata, accettata dall’opinione pubblica d’Italia e di Europa. (A SINISTRA: BENE!). Se si potesse concepire l’Italia costituita in unità in modo stabile senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente  che reputerei difficile, forse impossibile la soluzione della questione romana.  Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma sia riunita all’Italia? Perché senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire. (APPROVAZIONE).
A prova di questa verità già vi addusse vari argomenti l’onorevole preopinante. Egli vi disse con molta ragione che questa verità, essendo sentita quasi istintivamente  dall’universalità degli Italiani, essendo proclamata fiori d’Italia da tutti coloro che giudicano delle cose d’Italia con imparzialità ed amore, non ha d’uopo di dimostrazione, è affermata dal senso comune della nazione.
Tuttavia, o signori, si può dare di questa verità  una dimostrazione assai semplice. L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione  suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa; ora, o signori, perché quest’opera possa compiersi conviene che non vi siano cause di dissidi, di lotte.  Ma finché la questione della capitale non sarà definita vi sarà sempre motivo di dispareri e di discordie  fra le varie parti d’Italia. (BENISSIMO!).
E invero, o signori, è facile a concepirsi che persone  di buona fede, persone illuminate ed anche dotate di molto ingegno, ora sostengano o per considerazioni storiche o per considerazioni artistiche, o per qualunque altra considerazione la preferenza a darsi a questa o quell’altra città come capitale d’Italia; io capisco che questa discussione sia per ora possibile; ma se l’Italia  costituita avesse già stabilita in Roma  la sua capitale, credete voi che tale discussione  fosse ancora possibile? Certo che no; anche coloro che si oppongono al trasferimento della capitale a Roma, una volta che essa fosse colà stabilita non ardirebbero di proporre che venisse traslocata altrove. Quindi è egli solo proclamando Roma capitale d’Italia  che noi possiamo porre un termine assoluto a questa cause di dissenso fra noi.
Io sono dolente perciò di vedere che uomini autorevoli, uomini d’ingegno, uomini che hanno reso alla causa italiana eminenti servigi, come lo scrittore a cui l’onorevole preopinante alludeva [ossia Massimo d’Azeglio], pongano in campo codesta questione e la dibattano, oserei dire, con argomenti di poca importanza.
La questione della capitale non si scioglie, o signori, per ragioni né di clima, né di topografia, neanche per ragioni strategiche; se queste ragioni avessero dovuto influire sulla scelta della capitale certamente Londra non sarebbe capitale della Gran Bretagna, e forse nemmanco Parigi lo sarebbe della Francia. La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.
Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le  circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinate le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che n abbia memorie esclusivamente municipali;  tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente  al di là de suo territorio; di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato. (SEGNI DI APPROVAZIONE SU VARI BANCHI). Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all’Europa, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese  a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione. (APPLAUSI). Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacché, o signori, non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve  rinunciare assolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del governo. (APPROVAZIONE).
Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne gli è con dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artistica (SI RIDE), sono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale. Ma egli è con fiducia, o signori, che io affermo queste verità. Conoscendo l’indole dei miei concittadini; sapendo per prova come essi furono sempre disposti a fare i maggiori sacrifizi per la sacra causa d’Italia (VIVA APPROVAZIONE); sapendo come essi fossero rassegnati a vedere la loro città invasa dal nemico e pronti a fare energica difesa, conoscendo, dico, questi sentimenti, io non dubito ch’essi non mi disdiranno quando, a loro nome, come loro deputato, io proclami che Torino è pronta a sottomettersi a questo gran sacrifizio nell’interesse dell’Italia (APPLAUSI DALLE GALLERIE).»


Ci sarebbero molte cose da osservare su questo discorso, di cui abbiamo riportato la parte iniziale e, in questa sede, più interessante; mentre il seguito era dedicato a sviluppare la tesi che Roma avrebbe dovuto diventare la capitale italiana senza sfidare la Francia di Napoleone III e senza provocare un aperto conflitto con la Chiesa e con i cattolici. Come è noto, nessuna delle due condizioni venne poi rispettata, perché Roma fu presa con la forza, profittando della disfatta francese nella guerra contro la Prussia e passando sopra il rifiuto di Pio IX di cedere pacificamente il potere temporale. La conseguenza di quell’atto di forza apparente, in realtà di intima debolezza, fu che l’Italia si trovò gravemente esposta sia sul piano internazionale, sia sul piano della coesione e della saldezza interne.
Di quel discorso ci sarebbe da osservare, fra l’altro, la perfida malevolenza nei confronti di Massimo d’Azeglio, qualificato “scrittore” e non già, come sarebbe stato doveroso, presidente del Consiglio piemontese (dal 1849 al 1852) e senatore (dal 1853). Anche la battuta, apparentemente autoironica, sulla propria mancanza di doti artistiche - sottolineata dalle risate del Parlamento - è, quasi certamente, una frecciata contro D’Azeglio, che fu anche romanziere e pittore di notevole talento, oltre che insigne statista e mente politica di prim’ordine (chi non ricorda la sua celebre frase: «L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani»?).
Forse Cavour era invelenito contro d’Azeglio perché questi, conosciuti i risultati delle prime elezioni nazionali italiane, tenutesi nel gennaio 1861 con la partecipazione effettiva di meno dell’un per cento della popolazione, aveva commentato che «queste Camere rappresentano l’Italia, così come io rappresento il Gran Sultano turco»; e i fatti gli avrebbero dato fin troppo ragione, con la feroce guerra del Brigantaggio meridionale (che Cavour però non fece in tempo a vedere, perché si spense prima).
Ma non si trattava solo delle riserve e delle critiche formulate dal d’Azeglio sui modi e sui tempi i dell’unificazione.
Il fatto è che D’Azeglio non credeva nel dogma di Roma capitale, giudicando che sarebbe stato preferibile lasciarla al papa; peccato, questo, gravissimo agli occhi di Cavour. E che si trattasse di un vero e proprio dogma, la prova il fatto che l’oratore non argomenta, si rivolge direttamente alla pancia degli ascoltatori, quando sostiene che la necessità di fare di Roma la capitale dell’Italia è una verità evidente per se stessa, e che gode del consenso di tutti gli Italiani.
Ma quest’ultima affermazione era quanto meno dubbia; si è già accennato al fatto che i Torinesi, per esempio, non erano affatto di una tale opinione, perché, smentendo in pieno le parole di Cavour, diedero vita ad una protesta che, sedata nel sangue, provocò 30 morti e 160 feriti tra la popolazione nel settembre 1865, quando la Corte e il Parlamento lasciarono le loro sedi in riva al Po, per trasferirsi in un primo tempo sulle rive dell’Arno, indi su quelle del Tevere.
In buona sostanza, gli argomenti con i quali Cavour dichiara indiscutibile la scelta di Roma come capitale sono due, oltre alla pretesa auto evidenza e allo sbandierato, ma non verificato, sentimento popolare: 1) che solo Roma, fra tutte le città italiane, possiede delle memorie storiche le quali non siano esclusivamente municipali; e che 2) l’Italia non si può costituire come nazione indipendente, senza Roma capitale.
Il primo è un argomento per esclusione: insufficiente, dunque, a reggersi in piedi da se stesso. Nel caso della Svizzera, così come in quello degli Stati Uniti d’America (ma anche, più recentemente, della Repubblica Federale Tedesca), il punto morto delle contrapposizioni municipaliste è stato superato in tutt’altro modo che ripiegando sulla scelta di una gloria storica ormai del tutto anacronistica.
Il secondo è una evidente falsità. L’Italia era nata il 17 marzo 1861 e nessuno può negare che, fino a quando Roma venne presa nel settembre del 1870, aveva potuto vivere e “costituirsi” benissimo, pur senza aver potuto stabilire sul Tevere la propria capitale. Avrebbe potuto continuare a vivere per altri venti o trent’anni e forse per sempre. La vitalità di uno Stato non si misura dal fatto che la sua classe dirigente si identifichi in particolare con un certo luogo geografico: purché vi sia una classe dirigente degna di questo nome e che possieda, in primo luogo, il requisito fondamentale del senso dello Stato.
Se non vi è senso dello Stato, nessuno Stato sarà mai vitale, indipendentemente dal fatto che la capitale coincida con una grande memoria storica: perché nella costituzione di un nuovo Stato, le radici sono importanti; ma è ancora più importante la capacità di guardare avanti. Stabilendosi a Roma, la classe dirigente italiana, già gracile e fiacca per conto suo, e scarsamente dotata di senso dello Stato, decise di guardare indietro, non avanti.
Era sempre il mito di Roma, il mito che aveva ossessionato gli imperatori tedeschi nel Medioevo, che aveva alimentato il sogno di Dante e le farneticazioni di Cola di Rienzo: Roma eterna, luce dei popoli, eccetera. Ma con i sentimentalismi non si costruisce uno Stato giovane ed efficiente; bensì con la buona amministrazione e con la capacità della classe dirigente di interpretare l’interesse collettivo.
Ed erano queste cose, invece, che mancavano: con o senza Roma. In questo senso, anche la “morte della patria” dell’8 settembre 1943 contiene una lezione altamente significativa: perché il re, i ministri e i generali scelsero di fuggire ignominiosamente dalla capitale, che era ancora difendibile (con cinque divisioni italiane dislocate nei dintorni, contro le due tedesche), invece di restare e, se necessario, di morire fra le sue macerie?
Ma c’è un altro lato interessante nel ragionamento, se così lo si può chiamare, di Cavour a proposito di Roma capitale.
Da un lato lo statista piemontese afferma che «senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire»; dall’altro, incurante della palese contraddizione, sostiene che «se si potesse concepire l’Italia costituita in unità in modo stabile senza che Roma fosse la sua capitale, [… sarebbe] impossibile la soluzione della questione romana». Dunque, per sciogliere il nodo della questione romana, bisogna fare di Roma la capitale dell’Italia; ma l’Italia non si può fare realmente senza Roma per capitale: e ciò a dispetto del fatto che l’Italia si sia già costituita, senza Roma (e senza Venezia).
Insomma: anche se “il senso comune” degli Italiani, per Cavour, esige che Roma sia la capitale, l’Italia di fatto esiste già e la capitale è pur sempre Torino; inoltre, per sciogliere la questione romana, bisogna che Roma diventi la capitale. Ma allora il ragionamento di Cavour si avvita su se stesso: Roma dev’essere la capitale per un “naturale” diritto storico, oppure perché questo è l’unico modo per risolvere la questione romana, vale a dire per porre fine al dominio temporale della Chiesa cattolica? Sono chiaramente due ordini di considerazioni diversi: storico il primo, politico il secondo.
In ogni caso, non è saggia politica quella di creare o inasprire un problema, per risolvere un altro problema: e la drammatica contrapposizione fra Stato liberale e Chiesa cattolica (oppure, se si preferisce, fra Massoneria e Chiesa cattolica), creatasi con la breccia di Porta Pia del 1870, avrebbe costituito un problema aggiuntivo a tutti gli altri, lasciati irrisolti a causa del modo in cui fu realizzata l’unità nazionale.
Comunque, fino a quando rimase al potere la Destra storica, cioè fino al 1876, la classe politica fu essenzialmente piemontese e settentrionale e si mosse nel solco della tradizione della buona amministrazione piemontese, lombarda (cioè austriaca) e, in parte, toscana. Quando, nel 1876, andò al potere la Sinistra, la classe politica italiana andò sempre più meridionalizzandosi e trovò in Roma, città abituata da secoli alla cattiva amministrazione e ad una politica di basso profilo, il suo teatro ideale.
I luoghi possiedono una tradizione: la tradizione centro-meridionale del cattivo governo, antica di secoli, prese il sopravvento su quella settentrionale. A una classe di politici dalla mente forse un tantino ristretta, ma onesti e capaci amministratori della cosa pubblica, subentrò una classe di politici arrivisti e trasformisti, eletti con i voti delle clientele e delle consorterie, avvezzi a ogni forma di trasformismo, cultori di spregiudicati rapporti con il mondo degli affari, con le banche e con la finanza.
Gli scandali a ripetizione, che caratterizzano la storia d’Italia post-unitaria, non sono altro che l’inizio di un malcostume diffuso e nel quale siamo tuttora immersi, essendo prosperato senza soluzione di continuità nei centocinquant’anni di vita dello Stato nazionale. Ai politici dei primissimi anni dello Stato unitario: risparmiatori, oculati gestori del denaro pubblico, profondamente compresi del bene comune, sono subentrati dei politici cinici e avventurieri, ben decisi ad occupare le poltrone il più a lungo possibile, al solo scopo di poterne ricavare il massimo profitto.
Roma, ripetiamo, per tradizione e per vocazione, è stata lo scenario ideale di questa progressiva corruzione; e continua ad esserlo. Una città economicamente e culturalmente parassitaria, popolata da un numero esorbitante di pubblici impiegati e funzionari, dove l’importante per far carriera è coltivare le relazioni giuste col bel mondo dei salotti che contano, della stampa e (oggi) del cinema e della televisione; oltre che, si sa, delle logge massoniche.
Giulio Andreotti è stato il più rappresentativo di questi politici romani senza principî, senza scrupoli, senza pudore: inaffondabile e inamovibile, nonostante i cento scandali e perfino a dispetto di una sentenza definitiva che lo condanna per aver collaborato con esponenti di spicco di Cosa Nostra (condanna caduta peraltro in prescrizione).
Del resto, il grande meridionalista Pasquale Villari lo aveva predetto, immaginando che così parlasse un esponente delle plebi meridionali: «O voi riuscirete a rendere civili noi, oppure saremo noi a rendere voi dei barbari».