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La destra: un deserto che cresce

di Marco Tarchi (di Claudio Pescatore e Graziella Giangiulio) - 30/10/2010


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Professor Tarchi, lei nel 1981 fu espulso da Almirante dal MSI. Perché?
Per una vecchia ruggine, che si era inspessita con il tempo. Quando ero l’esponente più in vista della corrente guidata da Pino Rauti nel Fronte della Gioventù, Almirante mi fece offrire tramite il presidente del partito Pino Romualdi, che venne con mia grande sorpresa a trovarmi a casa a fine 1976, la segreteria nazionale dell’organizzazione giovanile, la cooptazione immediata nel Comitato centrale e nella Direzione nazionale del Msi e… il posto numero 5 in lista nella circoscrizione laziale per la Camera quando si fossero tenute le successive elezioni, se avessi accettato di presentarmi nell’imminente Congresso nazionale missino “al di sopra delle parti”, tenendo un discorso di esaltazione dell’unità del partito e, di fatto, staccandomi da “Linea futura”. Sebbene la proposta mi avesse creato qualche emozione, la rifiutai subito, garbatamente ma senza ambiguità. Ero troppo legato al mio “piccolo mondo” interno e, va detto, troppo fiducioso di poter comunque in futuro, senza eccessivi compromessi, conquistare il partito dall’interno assieme ai miei amici. Un errore di sopravvalutazione. Non credo che Almirante mi abbia mai perdonato quell’atto di orgoglio, e non mancò di farmelo capire. Ma decisive furono due vicende di poco successive. In primo luogo, all’Assemblea nazionale del Fronte della gioventù che doveva indicare i sette nomi della “rosa” fra i quali, come un diktat statutario imponeva, Almirante avrebbe scelto il nuovo segretario, si tentò con insistenza di non giungere ad un voto, ma non ci si riuscì per l’opposizione mia e degli altri dirigenti rautiani – non tutti, perché Rauti, che aveva stretto un accordo con Almirante per entrare nell’organo supremo di gestione del partito, la Segreteria, non voleva frizioni e ordinò ai suoi fedelissimi che avevano diritto al voto di non parteciparvi (ed erano quasi trenta) –, cosicché il candidato in pectore (ma noto a tutti), Gianfranco Fini, subì una pesante batosta, piazzandosi al quinto posto. La cosa mandò Almirante letteralmente su tutte le furie, a tal punto che nell’incontro di due giorni dopo con i sette “papabili” rifiutò la parola ai presunti interlocutori e disse testualmente: “avete fatto un torto al vostro Segretario e questo gesto non me lo dimenticherò mai”. Quando poco tempo dopo, in una discussione in Direzione nazionale in cui i rautiani erano stati accusati di frazionismo, intervenni per ribaltare l’accusa – dati e nomi alla mano – sugli almirantiani che nelle federazioni emarginavano, destituivano o espellevano gli oppositori, la frattura divenne insanabile. Venni progressivamente emarginato e nel marzo 1979 mi dimisi dalla vicesegreteria nazionale del Fronte della Gioventù con una lettera polemica nei confronti della prassi epuratoria di Fini. Un anno dopo decisi di non ripresentarmi, sebbene fossi consigliere uscente, alle elezioni comunali di Firenze. Non condividevo quasi più niente dell’azione del partito. Ci rimanevo – altro errore… – per sentimentalismo, perché lì avevo tutti i miei amici e avevo vissuto momenti pubblici e privati indimenticabili. Ma nel frattempo tutto il mio impegno era dedicato alla Nuova Destra, che dal Msi aveva ormai preso forti distanze. Almirante aspettava il momento giusto per regolare i conti e lo colse quando uscì su “La voce della fogna”, la rivista satirico-politica di successo che animavo da sei anni nel fastidio crescente dei vertici missini, una falsa pagina del “Secolo d’Italia” i cui autori (Stenio Solinas e Umberto Croppi) mettevano alla berlina la nomenklatura del partito. Alcuni degli sbeffeggiati, in testa Mirko Tremaglia, chiesero la mia testa e la ottennero. Con un provvedimento ad personam, di “decadenza dall’iscrizione”, “in virtù dei poteri straordinari concessi dallo Statuto al Segretario nazionale” perché, in quanto componente di Comitato centrale e Direzione nazionale, l’espulsione avrebbe potuto essere appellata ai probiviri. Fra i quali godevo di una certa stima.
Mi scuso di essermi dilungato così a lungo sulla questione, ma la domanda mi offre il destro di chiarire una volta per tutte una vicenda che mi viene troppo spesso riproposta – quasi trent’anni dopo i fatti…! – e su cui in molti favoleggiano. Tanto che mi è capitato di leggere, di recente, per la penna di Franco Servello e la bocca di Ignazio La Russa, che personaggi così illustri nel Msi si erano dichiarati contrari al provvedimento disciplinare. A me non risulta.

Cosa si sentirebbe di dire a Fini che dal palco di Mirabello ha giudicato “incomprensibile” la sua espulsione dal Pdl?

Sarebbe banale ricorrere al “chi la fa l’aspetti”. Direi invece che un politico accorto come lui dovrebbe sapere che, quando si fa opposizione sistematica dall’interno ad un partito cui si appartiene, la cacciata va inclusa fra i rischi. E che, certo, chi ha usato per decenni la clava dei provvedimenti disciplinari contro i dissidenti, fa sorridere chi ne conosce la carriera quando grida al “clima da caserma” instaurato nel Pdl da Berlusconi e al diritto ad esprimere opinioni divergenti da quelle del capo.

Qualcuno sostiene che Fini ha rubato l’idea dell’“andar oltre” della “Nuova Destra”, è vero? E secondo Lei potrebbe nascere da questo “neopartito” la famosa sintesi che la “Nuova Destra” andava definendo alla fine degli anni ’70 e nei primi anni ’80?

In politica, è nessuno viene riconosciuto il copyright delle formule. Di certo, la direzione presa da Fini e dai suoi non ha niente a che vedere con quella seguita a suo tempo dalla Nuova Destra. L’ho documentato nel libro La rivoluzione impossibile. Dai Campi hobbit alla Nuova destra, che ho pubblicato di recente per Vallecchi, e ho sfidato chiunque a trovare convergenze tematiche e di argomentazioni tra le migliaia di articoli comparsi nel tempo sulle pubblicazioni della Nuova Destra – “Elementi”, “Diorama”, gli atti dei convegni, i molti altri libri – e quanto sostiene oggi la “destra nuova” di Farefuturo, Charta Minuta & Co. Mi è capitato di dire che, paradossalmente, laddove nella sua ricerca proiettata al di là della destra e della sinistra la ND guardava a sinistra (politica internazionale ed estera, critica del modello di sviluppo sociale capitalista, rivendicazione della specificità culturale dei popoli e critica dell’occidentalismo, teorie economiche, temi legge-e-ordine…), Fini e i suoi guardano a destra, e dove la ND manteneva opinioni di destra (temi etici, giudizi sulla globalizzazione e sulla società multietnica, opposizione alla dittatura della political correctness sulla ricerca storica…) i finiani si sono spostati a sinistra. Mi sembra sempre più vero.

Questa operazione Futuro e Libertà ricorda molto a un’operazione di vecchia data, 1976, “Democrazia nazionale”… Ci spiega se vi sono più similitudini o differenze?

Mi pare più corretto affiancare Alleanza nazionale a Democrazia nazionale, perché le due operazioni, pur tenendo conto delle notevoli differenze di contesto, presentano una notevole somiglianza di scopo: scrollarsi di dosso l’ombra delle radici fasciste e spostarsi verso il centro, ma su posizioni nazional-conservatrici, per rendersi appetibili come alleati e passare dall’opposizione al governo. Futuro e libertà, invece, punta su un sistematico adeguamento alle opinioni “politicamente corrette” per farsi accettare dai presunti avversari, polemizzando con gli alleati di centrodestra. Lo scopo della manovra è apparire come gli unici elementi ragionevoli, onesti, dialoganti, corretti, “buoni” dell’area governativa e perciò, nell’ipotesi di una scomparsa di scena improvvisa e drammatica di Berlusconi dalla scena, fare di Fini il candidato ideale per favorire un accordo di transizione sorretto dal consenso almeno di Udc e Pd, sulla base del quale costruire nuovi scenari. Penso tuttavia che l’accelerazione del conflitto Fini-Pdl abbia nuociuto a questo progetto, mettendone a rischio il successo.

Lei in un lungo articolo pubblicato su “Il Foglio” già a maggio contestava a Fini la coabitazione a Palazzo Grazioli e sosteneva che tra i due ci fosse “uno scontro di carattere, di ambizioni personali e non un contrasto di programmi e progetti”. Alla luce di quanto successo sono ancora valide quelle parole o crede che Fini sia cambiato?

Le considero ancora più valide. Lo stesso inasprirsi dello scontro sta a confermarlo: è evidente che Fini non si considera fatto per un ruolo subordinato a chicchessia, scalpita per avere il ruolo di protagonista. Quanto ai programmi, al di fuori dell’esasperato “buonismo” esibito in ogni frangente, dalle pagine delle pubblicazioni finiane non ne vedo emergere la benché minima traccia. Scorgo solo una strategia di appropriazione di tutto quello che fa spettacolo e consenso, che del resto era stata inaugurata ai tempi di Alleanza nazionale: ogni tema o personaggio di moda viene dato per acquisito, con le giravolte ideologiche più ardite. Così si può oggi esaltare la caccia e domani l’animalismo, prima tessere le lodi della globalizzazione e poi ammiccare ai suoi nemici, di volta in volta esecrare o esaltare la cultura “nazionalpopolare” della tv di massa, schierarsi con l’Occidente su tutti i campi di battaglia salvo poi criticare le premesse delle guerre sostenute. È un vero e proprio guazzabuglio, in cui può entrare di tutto: dall’elogio di Doctor House all’andirivieni dei giudizi sull’uso dell’energia nucleare. Leggere per credere.

Fini è un uomo di destra?

Come è noto a chi mi conosce, io non vedo nelle nozioni di destra e sinistra una coerenza interiore. Sono etichette che di volta in volta si applicano a “sintesi di atteggiamenti”, per dirla con Giovanni Sartori, legate alle circostanze. Si può stare “a destra” di qualcuno su un determinato tema, ma nel contempo su un altro argomento ci si può collocare “a sinistra” rispetto a lui. I comportamenti tutti d’un pezzo che traducono pari pari i testi sacri di un’ideologia in pratica sono sempre stati rari – nemmeno i maoisti all’epoca della “gloriosa Rivoluzione culturale” si riconoscevano vicendevolmente la virtù dell’ortodossia, e anzi spesso se le davano di santa ragione in nome della “fedeltà alla linea”, non solo in Cina ma anche in tutta Europa – e oggi lo sono ancor di più. Fini non sfugge alla norma. Come ho già accennato, si colloca a destra in taluni ambiti e a sinistra in altri. Quel che lo preoccupa è apparire aperto a quelle che interpreta come le “ragioni della modernità”. Insomma, è un progressista sui generis, che cerca di seguire per quanto gli è possibile il vento che tira. Ha sempre avuto uno spiccato senso delle opportunità.

Resterà con Berlusconi o farà cadere il Governo?

Chi segue i dettami della scienza politica deve rifuggire dal mestiere del chiromante. Sul terreno delle mere congetture, credo non gli convenga far cadere il governo prima di aver organizzato il suo partito. Gli fa molto più gioco logorarlo con critiche quotidiane, anche perché la posizione in cui si è collocato gli è valsa un vantaggio non da poco: può attaccare Berlusconi sui suoi punti deboli ergendosi a custode della legalità, della tolleranza, della lacità e del rispetto della Costituzione, senza aver bisogno di chiarire cosa farebbe al suo posto. Si noti che è talmente legato a questa immagine che, da quando la Francia ha cominciato ad espeller Rom dal proprio territorio, i suoi fiancheggiatori hanno depennato Sarkozy dal Gotha dei politici di riferimento. Sono rimasti Cameron e Merkel, ma sono anche loro a rischio…

Lei ha sostenuto che con la morte di An sono finite anche due fondamentali ambizioni politiche mutuate dal fascismo: primo, superare le contrapposizioni tra destra e sinistra, secondo, dare vita a un nuovo modo di rapportarsi alla politica, secondo lei Fli, al di là delle parole di Fini, potrebbe mirare a soddisfare queste ambizioni?

Certamente no. Fli non propone alcun nuovo spartiacque attorno al quale orientare il confronto politico; si limita a navigare tra i poli esprimendo giudizi secondo le convenienze del momento. E con l’eredità del fascismo sostiene di non aver niente a che fare, anche se, per tenere insieme il suo composito seguito di fedeli, deve perseguire la politica già varata da Alleanza nazionale dell’eclettismo dei riferimenti ideali e sentimentali. Quel che attrae Benedetto Della Vedova non necessariamente piace all’antiberlusconismo di destra dei nostalgici di Almirante, che continuano a vedere in fini l’Unto del Grande Leader; quel che può piacere a Giuseppe Pisanu, che si dice coltivi simpatie per i finiani, difficilmente può andare a genio a chi a Mirabello acquistava negli stand biografie di Mussolini che è difficile supporre denigratorie.


Perché è così difficile per questa classe politica rispettare gli impegni con gli elettori?

Perché l’allineamento sempre più accentuato delle campagne elettorali alle regole del marketing non porta più a cercare di convincere il cittadino della bontà delle proprie tesi, ma spinge ad adeguarsi alle sue preferenze precostituite, già note attraverso i sondaggi. Così, si promette tutto quello che al pubblico può piacere, in una gara di demagogia. Ovviamente, chi poi va al governo è in grado di mantenere assai pochi degli impegni presi. Chi sta all’opposizione, per rifarsi insiste sul prospettare obiettivi irrealistici ma di sicura presa sull’immaginario collettivo. Il risultato è un affievolimento quasi totali dell’etica della responsabilità che dovrebbe animare i “politici per vocazione”, per dirla con Max Weber. Ma oggi in giro ci sono solo politici di professione, che mirano soprattutto alla propria carriera. Non è un’osservazione qualunquistica, ma semplice realismo.

Lei ha sempre sostenuto che il “neofascismo” aspirava a proporre modelli di organizzazione economica alternativi rispetto al capitalismo, modelli in questo momento indispensabili per superare la crisi… dove sono finiti quei modelli? Sono mai esistiti veramente?

Dal punto di vista della pura impostazione teorica, pur con tutti i loro numerosi lati fragili, quei modelli sono esistiti. Basta rileggere le annate della “Rivista di studi corporativi” per sincerarsene. Ma va ammesso che una grande ricchezza di elaborazioni concettuali, in questo ancor più che in altri campi, il neofascismo non l’ha mai dimostrata. Petizioni di principio, molte; proposte capaci di incidere sulla prassi, pochissime. Sta a spiegarlo, in parte, la mentalità antieconomicistica che ha animato gran parte dei frequentatori di quell’ambiente: di regola, ciò che si detesta non lo si studia. Ci si accontenta di lanciare strali – peraltro non sempre a torto – contro lo strapotere della finanza o invocare la compartecipazione agli utili e/o alla gestione delle aziende, ma si va poco oltre.

Lei ha detto che tra i problemi che potrebbero insorgere, dalla morte della destra italiana, è la deriva dei giovani, nostalgici e totalitari, cosa bisognerebbe fare per loro?

L’esatto contrario di quello che ha fatto Fini in Alleanza nazionale: sostituire alle apologie di un tempo e alle deprecazioni successive del fascismo, dell’autoritarismo e del totalitarismo un serio e sistematico studio critico delle esperienze che vi si richiamarono. In epoca non sospetta, io denunciai l’effetto pernicioso dei “venditori di immaginette” che spacciavano letteratura apologetica di scarsa o infima qualità in argomento. Ne nacque una dura polemica, in cui non mi vennero risparmiati gli insulti, ma l’andazzo non cambiò, se non nel microcosmo della Nuova Destra, che in questo campo ha operato molto bene. Poi, con l’opportunità offerta da AN, venne il tempo dei voltafaccia improvvisi, delle abiure proclamate a gran voce e di un ancor più accentuato nicodemismo: coltivare in privato il culto degli idoli infranti in pubblico. Ai giovani, specie se di sentimenti radicali o estremi, questo modo di comportarsi non può che suscitare disgusto. Si spiega così la deriva oltranzista odierna. Che forse è troppo tardi per contenere.

Cosa pensa del lavoro di Casa Pound? O dell’iniziativa di Giorgia Meloni di Atreju?

La prima mi pare declini i propositi di radicale modernizzazione all’interno del circolo chiuso dei riferimenti al consueto Pantheon del fascismo e del neofascismo: una contraddizione in termini che, a mio avviso, rischia di non portare da nessuna parte. E, pur avendo avuto ampia esperienza diretta negli anni Settanta della violenza di certa ultrasinistra, considero assolutamente negativo coltivare la logica dell’esaltazione della forza e della legge del taglione. Sopraffazione e culto della mentalità squadrista sono stati troppo a lungo nel dna di quanti si sentivano legati al fascismo. La Nuova Destra si sforzò di eliminarli. Vederne una rinascita mi rattrista. Del programma di Atreju 2010, letto su internet, posso solo dire che mi sembra troppo “terra terra”, legato a tematiche concrete di attualità ma prive di fascino per quella mentalità idealistica, intrisa di generoso utopismo, di cui molti giovani sono portatori.

Un’ultima domanda… che fine ha fatto secondo lei il patrimonio del MSI e poi di An?

Spero non ci si riferisca ai beni mobili e immobili, di cui si è sin troppo parlato e di cui nulla so. Quanto al patrimonio ideale, si è progressivamente estinto. Già in AN, molto di quello del MSI, che aveva raccolto a sua volta solo una parte di quello fascista, aveva cessato di circolare. Era inevitabile, perché ogni epoca produce i suoi sistemi di pensiero e la nostalgia atrofizza spesso intelligenza e senso critico. Tuttavia, tagliare le radici prima di aver piantato nuovi virgulti e aver verificato la loro crescita, non può dare che un risultato: la desertificazione.