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Scuola, conoscenza, libertà: una terza via tra pubblico e privato

di Giacomo Colonna - 30/11/2010

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La crisi dei sistemi scolastici ed educativi occidentali non è un fatto nuovo; in quasi mezzo secolo, a partire dalla stagione del '68, nessun tentativo di riforma ha tuttavia portato a risultati apprezzabili in nessuno dei paesi dell'Occidente.
Oggi, dati alla mano, sappiamo che, nonostante questo modello domini a livello mondiale, le nostre università sono sempre più inadeguate a preparare gli studenti; sappiamo che i costi dell'istruzione sono ovunque eccessivi e viziati da sprechi e diseconomie, mentre i risultati in termini di apprendimento sono sempre meno soddisfacenti e gli insegnanti sono sempre più insoddisfatti del proprio ruolo professionale, oltre che dei propri stipendi. Il mondo della ricerca, che al sistema dell'istruzione è fortemente connesso, lamenta una progressiva riduzione delle risorse, mentre da fuori gli si rimprovera una crescente incapacità di produrre innovazione di valore strategico, rispetto ai fondi allocati.
Per non restare chiusi nelle polemiche di questi giorni, confinate dentro implicazioni partitiche, è forse utile rammentare per prima cosa che i nostri sistemi educativi sono stati elaborati dall'Occidente europeo in una fase ben precisa della storia degli Stati nazionali moderni, allorché l'istruzione pubblica era in primo luogo destinata a fornire un contributo determinante a quella "nazionalizzazione delle masse" senza la quale la stessa storia delle democrazie occidentali per come la conosciamo non sarebbe mai stata possibile. È all'interno di questa impostazione che si collocano entrambe i modelli di successo del sistema: quello elitario anglo-sassone, che affida alle grande istruzioni private, strettamente collegate alle grandi fortune private, alla ricchezza, il livello più elevato dell'educazione, indispensabile ad assicurare omogeneità e continuità all'edificazione di classi dirigenti di livello "imperiale"; quello francese, per il quale invece l'istruzione pubblica, oltreché simbolo di eguale possibilità di accesso al sapere del citoyen come premessa delle rivoluzionarie "carriere aperte al talento", è strettamente legata alle esigenze di potenziamento della grande macchina dello Stato centralizzato.
Quando si parla di istruzione nel nostro tipo di modello politico, dunque, non si deve quindi dimenticare che, pubblica o privata che sia, l'istruzione è comunque strettamente integrata alle esigenze politiche dello Stato-nazione, di cui rappresenta uno dei più importanti strumenti di integrazione e di controllo sociale.
Non deve sorprendere, quindi, che la scuola divenga oggi parte della stessa crisi che lo Stato-nazione sta attraversando: una crisi collegata in primo luogo al debordare, nelle società occidentali, della componente economica, che ha assunto un enorme potere condizionante sulla loro organizzazione complessiva e sullo stesso funzionamento delle democrazie occidentali, attraverso la forza di interessi privati di dimensioni gigantesche, in grado di influire direttamente, mediante comitati di affari, sulle scelte dei partiti e dei gruppi dirigenti.
In Italia, più ancora che in altri Stati, poi, la dialettica dei partiti è penetrata in profondità ai livelli più elevati anche dei sistemi di istruzione, ad esempio in ambito universitario - creando una simbiosi tra mondo politico e mondo accademico che contribuisce alla sclerotizzazione della società mediante la sclerotizzazione del pensiero, come uno dei fattori più importanti e tuttavia meno studiati nell'impedire il ricambio delle classi dirigenti, l'emergere di nuovi orientamenti e nuove interpretazioni della realtà, l'affermarsi di uomini "nuovi" in quanto portatori di nuove idee.
Nello stesso torno di tempo, i cambiamenti che stanno investendo le economie dominanti dell'Occidente, rendono obsoleti, con crescente rapidità e profondità, i metodi dell'istruzione scolastica: nuove tecnologie, nuovi sistemi di organizzazione della produzione e dei servizi, nuove dimensioni fisiche della loro azione, ampliano lo scollamento fra quello che si apprende nei sistemi educativi e quello che ci si trova ad affrontare nella realtà. Si determina il paradosso per cui, proprio mentre la sociologia parla di una economia basata sulla conoscenza, le imprese lamentano il fatto che i giovani che arrivano nelle aziende non abbiano la minima idea di come si lavori oggi ed i giovani lamentano che quello che hanno imparato nelle aule scolastiche si dimostra sorprendentemente alieno rispetto a quello che servirebbe per entrare nel mondo del lavoro.
A ciò si aggiunga la crescente indisponibilità ad apprendere mestieri considerati socialmente di rango inferiore, e la miscela di inadeguatezza risentimento e alienazione che circola fra scuola società lavoro raggiunge un livello di densità che possiamo cominciare a definire pericoloso per il futuro.
Da dove partire per affrontare il problema? A nostro avviso vi è un elemento fondamentale, del quale crediamo si stia parlando troppo poco. Quale è la sola superstite fonte di legittimazione sociale dei sistemi scolastici attuali? In verità, è assai semplice da individuare: dipendenti come storicamente sono dal sistema politico, le istituzioni scolastico-educativo-formative traggono il loro potere dal fatto di potere dispensare titoli di studio in nome dello Stato. Resistono oggi quindi non certo quali attuatori di una essenziale funzione sociale, dato che la assolvono in modo che tutti consideriamo insufficiente inadeguato ed eccessivamente dispendioso, resistono perché altrimenti non sapremmo più come certificare il sapere: di questo si tratta, e questo è il nocciolo della questione. Se ci riflettiamo un attimo, ci troveremo facilmente d'accordo sul fatto che nessuno oggi riuscirebbe a dimostrare il proprio status culturale senza una qualche forma di certificazione; ed è proprio questo potere di certificazione che lo Stato ha attribuito ai sistemi scolastici, condizionandoli e venendone condizionato a sua volta.
Pochi sanno che in Europa dal 2008 è stato stabilito un sistema di riconoscimento delle qualifiche, basato sulla valutazione delle competenze, chiamato European Qualification Framework (EQF), che include la possibilità di validazione anche di competenze non formalizzate e non preventivamente certificate da istituzioni scolastiche tradizionali, articolato su 8 livelli progressivi. Si tratta di una prospettiva suscettibile di sviluppi interessanti e per questo è significativo e realmente sintomatico il fatto che il mondo accademico europeo sia subito entrato in polemica con questa nuova prospettiva, nel timore che essa eroda il potere-chiave del sistema accademico, quello cioè di definire chi sa e chi non sa.
Ecco perché la questione scuola pubblica o scuola privata è secondo noi del tutto mal posta, e la polemica su questo punto è, come ormai spesso accade, fuorviante in quanto del tutto superata dai fatti: si pensa di potere procedere innanzi con la testa rivolta indietro.
La strada maestra è allora semplicemente rendere il mondo della cultura e dell'educazione indipendente dallo Stato politico da un lato e dall'economia dall'altro, ponendolo in condizione di vivere di risorse proprie e di auto-amministrarsi attenendosi a due principi essenziali, quello dell'autonomia di gestione e quello della capacità individuale.
Allo Stato, che incarna il principio democratico essenziale, quello della parità di diritti e delle opportunità, resterebbe a quel punto una sola funzione di rilievo, in relazione alla questione della scuola: garantire la possibilità di accesso di tutti a tutti i livelli dell'apprendimento - se del caso con opportune misure di sostegno economico e fiscale.
All'economia deve restare invece la sola possibilità di rilasciare, tramite donazioni, ovvero senza prospettiva di profitto, fondi per il sostegno di scuole e istituzioni formativo-educative, senza diritto di intervenire nella determinazione della didattica, dei criteri di scelta dei docenti e di valutazione degli allievi.
Quello che da tanti anni suona come uno slogan vuoto, l'autogestione, potrebbe a queste condizioni diventare realtà - quando cioè famiglie, insegnanti e allievi si coordinassero in forma autonoma per organizzare le proprie scuole e per amministrarle: opportune facilitazioni fiscali, da una parte, donazioni, dall'altra, insieme a strumenti oramai ampiamente collaudati nel settore no-profit, come la raccolta di fondi (fund raising), potrebbero diventare la prassi normale per alimentare con le necessarie risorse, gestite con attenzione esclusiva all'efficienza ed all'efficacia, la vita di istituzioni educative e scolastiche che potrebbero finalmente costruire programmi di studio innovativi, stabilire collegamenti con il mondo del lavoro e con altre istituzioni similari a livello nazionale ed internazionale, chiamando alla docenza figure di eccellenza, introducendo metodiche didattiche e formative più adeguate alla realtà.
Stupisce che ipotesi come queste non siano oggi minimamente in discussione; stupisce che gli stessi insegnanti che lamentano il trattamento subito, i tagli economici, la farraginosità e l'ingiustizia dei sistemi di selezione e di carriera, le baronìe ed i potentati accademici, la discutibile organizzazione dei programmi, non affrontino la questione in modo realmente radicale - reclamando cioè il loro diritto ad organizzare e gestire la scuola, con il supporto delle famiglie e degli allievi, iniziando a sviluppare forme autonome di organizzazione educativa.
Somigliano in questo parecchio a quegli imprenditori italiani che lamentano ogni giorno la scarsa libertà di impresa, per poi correre ogni giorno al capezzale dello Stato a chiedere fondi e sostegni per le loro aziende: la visione morale, sostanzialmente burocratica, dei rispettivi compiti risulta assolutamente la stessa. Mentre l'insegnante, così come l'imprenditore, ha prima di tutto una missione sociale con la quale dovrebbe misurarsi quotidianamente, oppure cambiare mestiere.
È certo che, in una fase di passaggio che potrebbe aprirsi seguendo questa via, sarebbero numerosi i tentativi di creare scuole confessionali o di diretta espressione di interessi economici: ma questo già è avvenuto, senza bisogno di fare nomi e cognomi di scuole ben note, mentre si continuava ad invocare il primato della scuola di Stato, a dimostrare che quest'ultima è del tutto compatibile, come abbiamo visto, ad esempio nel modello anglo-sassone oggi tanto di moda (e tanto in crisi, come dimostrato sul nostro sito), con l'istruzione pubblica.
Una cultura effettivamente liberata, non potrebbe certo avere paura di confrontarsi con impostazioni diverse e diverse visioni dell'uomo, della storia, della vita, qualora si sentisse realmente portatrice di nuove energie intellettuali e creative, in una parola umanamente spirituali: la sfida è per questa ragione veramente di quelle epocali, e meraviglia che nel rinnovarsi di marce, striscioni e tensioni, manchi il coraggio, quello davvero rivoluzionario, di rimboccarsi le maniche e di cominciare a organizzare dall'esistente scuole realmente indipendenti da qualsiasi influenza esterna e allo stesso tempo aperte alla considerazione di tutto quello che vive nelle nostre società, per portarvi lo stimolo di idee impulsi intuizioni.
A questo modo, la scuola, anzi le diverse scuole, tornerebbero alla loro natura vera, che non è quella di produrre certificati e diplomi, ma di stimolare il lavoro interiore dell'uomo, l'espressione delle sue capacità, lo sviluppo della sua coscienza e, da qui, il potenziamento della sua capacità di lavorare nella società, anche per gli altri. Per rendere possibili passaggi fra competenze, qualifiche, specializzazioni, basterebbe a quel punto un qualsiasi sistema come l'EQF di cui si è detto, per creare sistemi di reciproco riconoscimento fra istituzioni educative e formative - in modo da rendere "leggibile" da tutti il percorso di apprendimento seguito da ciascuno: con la possibilità, tanto spesso invocata in letteratura, di poter costruire finalmente vie "personalizzate" di crescita della conoscenza, lontani da quella massificazione del sapere che tanta responsabilità ha nella perdita di vigore della cultura occidentale, nella sua inadeguatezza ad interpretare la realtà di oggi, a trovare in essa nuove soluzioni ai problemi posti dal nostro tempo.
Una scuola che nutre la libertà interiore dell'uomo e che in essa trova le proprie energie, potrebbe cooperare a quel punto, sulla base di parità funzionale, con uno Stato che garantisca e tuteli l'uguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti, per un lato, e, dall'altro, con un'economia che venga sollecitata a progredire anche sulla strada della fraternità, pur in trasparenti rapporti di interesse: in tal modo staremmo iniziando finalmente a declinare più correttamente i tre principi immortali, libertà eguaglianza fraternità, assegnando ad ognuno di essi un proprio spazio coerente con l'armoniosa articolazione di una società nella quale l'essere umano con la sua individualità unificherebbe i tre campi di azione e renderebbe in sé viventi quei tre principi, altrimenti destinati ancora per chissà quanto a restare vuote parole sugli striscioni nelle piazze, luoghi comuni nei talk show televisivi.