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Locke auspica tolleranza religiosa per tutti, ma invoca la persecuzione di cattolici islamici e atei

di Francesco Lamendola - 10/02/2011


Si dice e si ripete che John Locke è stato il gran padre del liberalismo e che lui solo, o quasi, con estremo coraggio, in un’Europa abbrutita da fanatismi e odî d’ogni genere, ha invocato con voce alta e forte la libertà religiosa, e non solo religiosa, per tutti i cittadini d’Europa, se non addirittura del mondo intero, vista la lodevole sollecitudine con cui ha spezzato una lancia in difesa dei diritti degli Amerindi, scacciati dalle loro terre dall’avanzata dei coloni anglosassoni.

La cosa va alquanto ridimensionata o, per dir meglio, va ridimensionata la supposta virtù intrinseca del concetto di “liberalismo”; dopo di che si vedrà come Locke, se pure ne è stato l’araldo (niente affatto isolato e ancor meno coraggioso), non è stato altro che il mediocre estensore di una dottrina che proclama grandi principî al solo scopo di poterli meglio manipolare e capovolgere, secondo le convenienze del momento.

Tanto per cominciare: una cosa è il concetto di libertà, un’altra - e ben diversa - il concetto di tolleranza.

Locke non invoca libertà per tutti, ma tolleranza: e la tolleranza, per lui, non è affatto un diritto, ma un “privilegio”, che il magistrato benignamente concede a coloro i quali offrono sufficienti garanzie per essere ritenuti dei sudditi leali e perbene.

Lontanissima da lui l’idea che ciascuna religione debba essere rispettata per la verità intrinseca che i suoi seguaci le riconoscono; niente affatto: per l’illuminista Locke, solo il Cristianesimo è “ragionevole” e, pertanto, solo il Cristianesimo è “vero”: tutte le altre religioni sono false, punto e basta.

Se, poi, nonostante la loro falsità, le si debba tollerare, questa è cosa che le leggi (si intenda: le leggi dell’Inghilterra, assurta a pietra di paragone di ogni legislazione giusta e ragionevole) decideranno caso per caso; ma a patto che le loro strutture organizzative non siano suscettibili di trasformare i propri seguaci in altrettanti elementi di sovversione dell’ordine costituito.

Poiché i musulmani, a causa dei loro legami politici indiretti con il sultano turco, non offrono sufficienti garanzie di lealtà verso lo Stato (cristiano), la loro religione non deve essere tollerata più di quanto sarebbe ragionevole tollerare la presenza di un cavallo di Troia entro le mura della propria città.

Ma non basta.

In questo caso, Locke parla alla moglie affinché la suocera intenda: non sono i musulmani che egli ha in mente, quando parla del Gran Turco, anche per la semplice constatazione che, di musulmani, l’Inghilterra del XVII secolo ne contava davvero pochini entro i propri confini (anche se molti si preparava ad annetterseli mediante la Compagnia delle Indie orientali, nel Bengala e in altre regioni del subcontinente indiano).

No, non sono i musulmani che egli ha in mente, quando afferma con vigore che i seguaci di una religione che obbediscano alla propria Chiesa, prima che allo Stato, non devono godere di alcuna tolleranza, ma essere trattati da spie e da nemici: bensì i cattolici, gli odiatissimi papisti, i quali, nella storia inglese di quel tempo, svolsero più o meno la stessa funzione dei trotzkisti nell’Unione Sovietica di Stalin: quella di capro espiatorio di tutti i pubblici malanni.

Il Papa, per Locke, è il capo di uno Stato straniero e, per giunta, nemico: pertanto, un buon cattolico che sia anche un buon suddito della Corona inglese è una contraddizione in termini; qualcosa che, puramente e semplicemente, non è possibile.

Questa è precisamente la posizione dei dirigenti della odierna Repubblica Popolare Cinese: anche per loro i cattolici non meritano alcuna tolleranza, perché riconoscono l’autorità del Papa, ossia di un capo di Stato straniero; solo i cattolici che si riconoscono nella Chiesa “nazionale” meritano il diritto alla libertà religiosa.

Strano, ma vero: è come se il governo di Pechino, che non si può certo definire un esempio di liberalismo e tolleranza, fosse andato a lezione da John Locke, per quanto riguarda la posizione da assumere verso le confessioni religiose…

Ora, per Locke, non merita tolleranza chi non riconosce il diritto alla tolleranza degli altri: dottrina che sarebbe, in lui, sommamente contraddittoria, se non andasse sempre interpretata con questa tacita postilla: «tranne i cattolici». I cattolici, cioè, non devono essere tollerati, perché non sono tolleranti con i protestanti; ma il ragionamento non vale all’incontrario: vale, semmai, per i presbiteriani e gli altri non conformisti nei confronti della Chiesa anglicana.

E che la teoria della tolleranza religiosa di Locke abbia una lunghissima e vergognosa coda di paglia, lo dimostra il fatto che, mentre si indigna con commovente sensibilità per la triste sorte degli Indiani d’America, pressati dall’avidità di terre dei coloni bianchi, non si degna si spendere neanche mezza parola per quegli sventurati Indiani d’Europa che il governo britannico, proseguendo la tradizione della “grande” Elisabetta e di Cromwell, seguitava a perseguitare, massacrare e spogliare delle loro terre, come infatti farà per prima cosa Guglielmo d’Orange, non appena salito al trono d’Inghilterra: ossia i cattolici irlandesi, rei di abitare un’isola che faceva gola ai loro più potenti (e, guarda caso, protestanti) vicini di casa.

Nessuna pietà per i barbari, per i fanatici Irlandesi, dunque: confiscare le loro terre, spogliarli dei loro averi, ridurli alla condizione di servi in casa propria, erano evidentemente azioni legittime, dal momento che i cattolici, per definizione, non potevano essere che cattivi sudditi (patria degli Irlandesi: l’Inghilterra riformata), sempre pronti al tradimento e alla rivolta e sommamente ingrati nei confronti della “civiltà” portata loro dai gentiluomini inglesi.

Così, se la stampa e la televisione britanniche sono riuscite ad ovattare al massimo la notizia della tragica morte di Bobby Sands e di altri nove prigionieri irlandesi, fra il maggio e l’agosto 1981, nelle prigioni inglesi; e se esse riescono tuttora a far passare sotto silenzio il dramma di un Paese, l’Ulster, ove i protestanti continuano ad opprimere impunemente i cattolici, facendo sfoggio di un’arroganza d’altri tempi (i tempi, appunto, di Guglielmo d’Orange), lo dobbiamo anche alla colossale ipocrisia e alla violenza sistematica travestita da “tolleranza”, che John Locke ha teorizzato così sapientemente.

In tale atteggiamento mentale, peraltro, Locke non aveva nemmeno il vanto dell’originalità: si limitava a ripetere ciò che già stabiliva la legislazione inglese, ad esempio con il Test Act, approvato dal Parlamento di Londra nel 1673, che prevedeva l’obbligo del giuramento sulla Bibbia per tutti i membri delle Camere, escludendo dalle carche pubbliche quanti non si riconoscevano nella Chiesa anglicana. Il solo progresso auspicato da Locke in fatto di tolleranza era a favore delle sette protestanti non conformiste, ma continuava e ribadiva l’esclusione dei cattolici, come verrà stabilito dal Toleration Act promulgato da Guglielmo III nel 1689, appunto per impulso delle teorie del Nostro, filosofo ufficiale della “Glorious Revolution”.

Prima ancora, Thomas Hobbes se l’era presa con la Chiesa cattolica ed i suoi seguaci (oltre che con le numerose sette protestanti al di fuori della Chiesa anglicana), rei di voler instaurare niente di meno che il Regno delle Tenebre sulla Terra, propalando dottrine oscure ed erronee, al fine di ottenere il dominio sugli uomini.

Quanto agli atei, il modo di argomentare di Locke è, se possibile, ancora più schematico e brutale e si può ridurre a questo ragionamento: poiché essi negano Dio, per loro nessun impegno, promessa o giuramento  possono avere alcun valore; dunque, bisogna considerarli nemici dichiarati dello Stato e reprimerli con la massima severità.

Non ci sembra si richieda una gran mente filosofica, per mettere insieme questi miseri concetti, espressione o di malafede, o di presuntuosa bigotteria; né che occorresse aspettare il 1689 per metterli nero su bianco, quando venti di tolleranza cominciavano già a soffiare sull’Europa: pure il Locke, per questi quattro filosofemi tanto brutali, quanto rozzi e sconclusionati, è stato applaudito poco meno che come se fosse stato l’apostolo di un’epoca nuova, pacifica, benevola e comprensiva, contrapposta (illuministicamente) a chissà quali “barbarie” precedenti.

Così si esprime Locke, infatti, nella sua «Lettera sulla tolleranza», scritta fin dal 1685-86, ma pubblicata anonima dal prudentissimo filosofo inglese, in Olanda, solo nel 1689, durante il suo cosiddetto esilio e mentre già si era compiuta in Inghilterra la “Glorious Revolution”, che aveva portato all’avvento della monarchia parlamentare di Guglielmo d’Orange (titolo originale: «Epistula de Tolerantia», traduzione italiana di Bettina Della Casa, Demetra Edizioni, 1995, pp. 50-53):

 

«Un altro male più nascosto, ma più dannoso per la comunità, si verifica quando gli uomini arrogano a se stessi e ai membri della loro stessa setta [leggi: i cattolici] qualche peculiare prerogativa mascherata  da apparenze di parole ingannevoli, ma contraria, in realtà, ai diritti civili della comunità. Per esempio: non troveremo alcuna setta che predichi espressamente e apertamente che gli uomini non sono obbligati a mantenere le promesse, che i governanti possono essere detronizzati da chi segue una diversa religione, o che il dominio di ogni cosa appartiene solo a loro, membri di quella particolare setta. Infatti tali argomenti, proposti in modo semplice e nudo, volgerebbero immediatamente su di loro l’occhio e la mano del magistrato e allerterebbero l’attenzione di tutta la comunità a un controllo  contro il pericolo del diffondersi nel suo seno di tale pericolo e male.  Tuttavia troveremo chi afferma le stesse cose in altri termini. Che così’altro fa chi predica che nn si deve mantenere la parola data agli eretici? In realtà essi intendono, in tal modo, che il privilegio di non stare ai patti appartiene soltanto a loro, poiché affermano che cloro che non anno paerte della loro setta sono eretici, o almeno si riservano di dichiararlo quando lo ritengono opportuno.  Quale può essere il significato del loro asserire che i re scomunicati perdono la corona e il regno? È evidente che si arrogano il diritto  di deporre i regnanti perché reputano la facoltà dio scomunica  riservata solo alla loro gerarchia. Che il dominio sia fondato sulla grazia è un’altra asserzione secondo la quale  coloro che ne sono i portavoce affermano il loro diritto  di possesso, poiché non si fanno certo il torto di non credersi o almeno di non professarsi assolutamente pii e fedeli. Sostengo quindi che non hanno motivo di essere tollerati dal magistrato coloro che attribuiscono al fedele, religioso e ortodosso, cioè a se stessi, un privilegio particolare o un potere sugli altri mortali in questioni di tipo civile, oppure coloro che, con ilo pretesto della religione, si arrogano un qualche diritto su chi è fuori dalla loro congregazione ecclesiastica. Come pure non possono essere tollerati coloro che negano il diritto alla tolleranza anche da parte di chi dissente  dalla maggioranza in materia di religione.  Poiché che cosa significano queste e altre proposizioni di principio se non che chi le predica è pronto, in ogni occasione, a impadronirsi del potere e a far sue le proprietà e le fortune dei concittadini, e chiede di essere tollerato dal magistrato solo fino al momento in cui si sentirà abbastanza forte da prendere il potere’

Ancora: non ha alcun diritto di essere tollerata dai magistrati quella Chiesa che sia costituita sul principio che coloro che vi entrano a far parte si pongono “ipso facto” sotto la protezione e il servizio di un altro sovrano. Perché, in questo modo, il magistrato darebbe luogo all’insediarsi di un’autorità straniera sul suo stesso territorio e metterebbe i suoi sudditi nella condizione di essere chiamati alle armi contro la pro’pria autorità. Né aiuta, in questa situazione, l’inconsistente ed errata distinzione tra Corte e Chiesa, specialmente quando entrambe sono egualmente soggette all’autorità assoluta della stessa persona, la quale non ha solo il potere di persuadere i membri della sua Chiesa, sia dal punto di vista strettamente religioso sia da altri analoghi punti di vista, ma può perfino imporre di aderire alla sua chiesa sotto minaccia di fuoco eterno. È ridicolo per chiunque professarsi maomettano solo per quanto attiene alla religione, e per ogni altra cosa rimanere invece soggetto a un magistrato cristiano, mentre si riconosce, nello stesso tempo, ciecamente obbediente al Mufti di Costantinopoli il quale è, a sua volta, assolutamente ligio all’imperatore ottomano e formula a suo piacere i falsi oracoli di quella religione. E un maomettano che viva tra cristiani si sottrarrebbe apertamente al loro governo se riconoscesse come capo supremo ella sua chiesa la stessa persona che è a capo dell’autorità civile.

Infine, non sono assolutamente da tollerare che negano l’esistenza di Dio. Promesse, impegni e giuramenti che costutuiscono i vincoli fondamentali di una società umana non hanno valore per un ateo. L’escludere l’esistenza di Dio, anche solo nel pensiero, li scioglie tutti; inoltre coloro che, con il loro ateismo, minano e distruggono la religione, non possono avvalersi di alcun argomento religioso per rivendicare il privilegio della tolleranza. Per quanto riguarda le opinioni pratiche invece, non vi è ragione di non tollerarle, anche se non scevre da errore, sempre a condizione che non tendano a stabilire  alcun dominio sugli altro o l’impunità civile della Chiesa in cui vengono insegnate.»

 

Davvero, verrebbe da arrossire nel leggere queste parole, pensando a quali altissimi elogi sono stati rivolti al loro autore, quasi che non si fosse mai visto, prima di lui, e con sì mirabile dottrina, un filosofo altrettanto sollecito nel difendere la libertà di coscienza.

In questa sola pagina sono tali e tante le affermazioni che, ammantate di ragionevolezza, rivelano, ad uno sguardo anche superficiale, malafede o inconsistenza, che l’esame di ciascuna risulterebbe fin troppo lungo e monotono.

Ci limiteremo a due soli punti.

Locke sostiene che i cattolici, i quali pure non vengono nominati, affermano che i governanti possono essere detronizzati da chi professa un’altra religione, ossia da loro, i cattolici stessi: strana accusa, visto che nel 1688 furono i sudditi protestanti di Giacomo II Stuart a ribellarsi al loro sovrano cattolico e a cacciarlo a motivo della sua religione, oltre che del suo tentativo di restaurare l’assolutismo.

Poco più avanti, Locke sostiene che i cattolici (ma sempre senza nominarli) sono pronti a prendere il potere e fare proprie le fortune e le proprietà dei concittadini di diversa religione; di nuovo: con quale coraggio egli porta avanti un simile argomento, mentre i cattolici irlandesi venivano sistematicamente spogliati dell’autogoverno, delle loro fortune e proprietà, per mano dei “tolleranti” e “civili” protestanti inglesi?

Eppure Locke viene ancora oggi letto e ammirato, anche nei Paesi di cultura e tradizione cattolica, come un grande apostolo della tolleranza e della libertà religiosa.

Le vittorie in guerra consentono di tramandare simili stravolgimenti della verità. Ed è noto che, chi ha vinto l’ultima, può concedersi il lusso di mistificare la realtà, perfino sui libri di testo dell’ex nemico, per molti e molti anni: almeno fino alla prossima.

Anche a questo è servita la vittoria degli Alleati, nel 1945, quando al liberalismo inglese e americano si affiancava il comunismo sovietico… tutti crociati in nome della libertà dell’Europa e del mondo; tutti ugualmente puri e disinteressati nei loro scopi di guerra.

Locke, dunque, padre della tolleranza e della libertà religiosa: chi potrebbe mandar giù, oggi, una simile barzelletta, se la Gran Bretagna, nel 1945, non si fosse trovata dalla parte dei vincitori?