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Usa: complotto a fini elettorali?

di Michele Paris - 13/10/2011

 





Il ministro della Giustizia americano, Eric H. Holder, ha annunciato martedì in una conferenza stampa la scoperta di un complotto iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington. Le autorità statunitensi puntano il dito direttamente contro il governo di Teheran, anche se le accuse non sembrano per ora provare alcun serio coinvolgimento dei vertici della Repubblica Islamica. Con la campagna mediatica avviata subito dopo le rivelazioni, tuttavia, l’amministrazione Obama sembra aver già colto l’occasione per aumentare ulteriormente le pressioni sull’Iran.

La trama che le autorità americane sostengono di aver smascherato ruotava attorno ad un cittadino americano di origine iraniana, il quale, in contatto con un presunto membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, intendeva assoldare sicari affiliati a un cartello messicano del narco-traffico per attentare alla vita dell’ambasciatore saudita, Adel al-Jubeir, e per piazzare dell’esplosivo nelle sedi delle rappresentanze diplomatiche israeliane a Washington e a Buenos Aires.

L’iraniano-americano è stato identificato nel 56enne Mansour Arbabsiar, venditore di auto di seconda mano a Corpus Christi, nel Texas. Il suo nome appare nelle carte dell’FBI assieme a quello dell’iraniano Gholam Shakuri, definito come un membro di al-Quds, una sezione speciale dei Guardiani della Rivoluzione.

Il caso sarebbe iniziato lo scorso mese di maggio, quando un agente della DEA (Drug Enforcement Administration), infiltrato sotto copertura nel cartello messicano Los Zetas, riferì ai suoi superiori di essere stato avvicinato da un iraniano amico di famiglia a Corpus Christi - lo steso Arbabsiar - con una singolare proposta. Quest’ultimo, ritenendo l’agente della DEA un membro dei "Los Zetas", gli chiese di ingaggiare dei killer per portare a termine attacchi terroristici sul territorio americano. Nelle settimane successive sarebbe stato trovato un accordo per colpire l’ambasciatore saudita in un ristorante di Washington, dietro compenso di 1,5 milioni di dollari.

All’inizio di agosto, poi, Arbabsiar avrebbe trasferito dall’Iran cento mila dollari sul conto dell’agente DEA come anticipo di pagamento per il servizio richiesto. Un paio di settimane fa, infine, Arbabsiar ha preso un aereo dall’Iran diretto a Città del Messico per offrirsi personalmente come garanzia del versamento del saldo una volta ultimata l’operazione negli USA. Il governo messicano, su richiesta americana, gli ha però negato l’ingresso nel paese, mettendolo invece su un volo con scalo all’aeroporto Kennedy di New York, dove è stato arrestato il 29 settembre scorso.

Il complotto così grossolanamente organizzato non aveva alcuna possibilità di essere condotto a buon fine, dal momento che Arbabsiar era inconsapevolmente in contatto con un informatore della DEA e le sue conversazioni telefoniche erano costantemente monitorate. Mentre il cittadino iraniano-americano si trova tuttora in carcere, il presunto membro dei Pasdaran è con ogni probabilità a piede libero in Iran.

Le dichiarazioni del numero uno del Dipartimento di Giustizia che implicano il governo di Teheran nel fallito attentato sono di estrema gravità. Holder ha infatti chiamato in causa proprio l’élite dei Guardiani della Rivoluzione (al-Quds), il cui comandante risponde direttamente all’autorità suprema della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ali Khamenei.

Al-Quds, che corrisponde al nome arabo di Gerusalemme, è la più indipendente delle cinque sezioni in cui è suddiviso il Corpo delle Guardie della Rivoluzione ed è impiegata in operazioni segrete all’estero, in particolare in Medio Oriente. I suoi membri sono altamente addestrati, perciò appare improbabile un coinvolgimento dei suoi vertici in una macchinazione a dir poco maldestra.

Le reazioni iraniane alla notizia diffusa da Washington sono state comprensibilmente molto dure. L’ambasciatore di Teheran all’ONU, Mohammad Khazaee, ha respinto “categoricamente queste accuse senza fondamento, basate sulle dichiarazioni sospette di un singolo individuo”. Dalla capitale iraniana, un portavoce del presidente Ahmadinejad ha affermato che “il governo americano e la CIA hanno parecchia esperienza nella produzione di sceneggiature cinematografiche”, aggiungendo, in riferimento alla crisi economica e al movimento di protesta contro Wall-Street, che “questo scenario serve a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica statunitense dalla crisi interna”.

Perplessità circa la tesi sostenuta dall’amministrazione Obama del coinvolgimento di Teheran nella vicenda sono state sollevate anche da analisti e commentatori. In un’intervista al New York Times, il ricercatore iraniano-americano Rasool Nafisi ha definito improbabile una responsabilità diretta dei Guardiani della Rivoluzione, per i quali è altamente insolito “operare negli USA per timore di ritorsioni”. L’ultimo attentato condotto dai Pasdaran in America, secondo Nafisi, fu l’assassinio di un dissidente iraniano nel 1980 nella sua abitazione di Bethesda, nel Maryland.

Anche un think thank come Stratfor, che vanta legami nell’intelligence americana e negli ambienti militari, sembra scartare l’ipotesi che dietro al tentato assassinio del diplomatico saudita ci sia il governo iraniano. “Questo complotto non appare credibile alla luce dei consueti metodi operativi dei servizi segreti iraniani e per il fatto che avrebbe comportato sostanziali rischi di natura politica”, hanno scritto gli analisti della compagnia texana. “Non è chiaro inoltre cosa avevano da guadagnare gli iraniani uccidendo l’ambasciatore saudita”, tanto più che le probabilità di collegare l’attentato all’Iran erano molto elevate.

Nonostante la sicurezza mostrata dalle autorità statunitensi, alla luce dei fatti resi noti finora, rimangono profondi dubbi sia sul coinvolgimento di Teheran che sulla consistenza del complotto stesso. Tanto per cominciare, il caso si basa esclusivamente su una persona, l’iraniano-americano Mansour Arbabsiar, sui contatti che ha intrattenuto con un agente della DEA, sulle sue telefonate intercettate e sulla confessione rilasciata dopo l’arresto. Inoltre, secondo quanto scritto nel rapporto dell’FBI, l’idea di assassinare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in un ristorante di Washington sarebbe stata avanzata inizialmente dallo stesso agente americano sotto copertura.

Resta poi da spiegare come l’Iran, già alle prese con gli effetti della crisi siriana, le pressioni della comunità internazionale per il suo programma nucleare e le divisioni interne tra le varie fazioni politiche, abbia deciso di intraprendere una simile iniziativa che, era facile prevedere, avrebbe dato modo agli USA e all’Occidente di aumentare le pressioni nei suoi confronti.

La sola denuncia del tentato attacco terroristico ha in ogni caso spinto Washington a intensificare la retorica verso Teheran. Mentre Hillary Clinton minacciava misure punitive contro l’Iran in una lunga intervista alla Associated Press, il suo Dipartimento di Stato emetteva un’allerta per i viaggiatori americani all’estero, mettendoli in guardia da possibili azioni orchestrate dal governo della Repubblica Islamica. Poco più tardi, il Dipartimento del Tesoro ha invece annunciato nuove sanzioni dirette contro cinque cittadini iraniani, tra cui quattro membri di al-Quds, organizzazione bollata come terroristica dagli USA nel 2007. Una serie di misure, queste ultime, adottate tempestivamente e senza presentare prove concrete delle responsabilità iraniane, che minacciano un nuovo peggioramento nei rapporti già abbastanza tesi tra Washington e Teheran.