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Diritto all’insolvenza?

di Aldo Giannuli - 13/10/2011

Fonte: aldogiannuli

Di fronte alla tragica situazione greca, diversi osservatori come Loretta Napoleoni, Andrea Fumagalli, Damien Millet o Eric Touissant (tanto per fare qualche nome) hanno avanzato -con varie modulazioni- la proposta di uscirne dichiarando default, anzi, Fumagalli ha teorizzato un “diritto all’insolvenza”.
Abbiamo già detto che molti paesi di prima grandezza (Usa e Giappone, oltre che Italia) sono in condizioni di non poter pagare il proprio debito, ma di poter al massimo mantenersi sulla linea di galleggiamento (sinchè dura) pagando gli interessi e sperando che i creditori rinnovino all’infinito il loro prestito. Dunque, il tema si impone ed è necessario discuterne con molta freddezza, senza passionalità. 
Va detto che i casi di default di Stato sono più frequenti di quelli di rientro dal debito, ed in particolare sono frequenti i default domestici, in cui lo stato brucia i debiti verso i suoi cittadini, mentre più prudenza c’è nel caso di ripudio o ristrutturazione del debito estero, per le conseguenze negative che ne rivengono. Ma, anche in questi casi, non sempre il default ha conseguenze disastrose per chi lo dichiara anzi, in qualche caso (Argentina ed Islanda degli ultimi anni insegnano) proprio questo è il modo per uscirne e ripartire.

Ma nella maggior parte dei casi le cose non vanno in questo modo, ad esempio, il default del 1826 costò alla Grecia l’esclusione dai mercati finanziari internazionali per 53 anni e questo ha pesantemente condizionato il successivo sviluppo del paese. Più o meno la stessa cosa successe all’Honduras dopo il default del 1873. La Russia ripudiò i suoi debiti nel 1918 e restò fuori dei mercati finanziari per 69 anni. E di esempi negativi potremmo farne molti di più.

Rogoff dimostra che la propensione al ripudio del debito si accompagna più o meno regolarmente ad una crescita più lenta ed ha effetti che spesso superano il secolo.
Comunque, non esiste  una regola assoluta che ci dica se e quanto la scelta del default  sia auspicabile o meno ed occorre esaminare, caso per caso, tutti gli aspetti della decisione.

Intanto partiamo da una considerazione: la dichiarazione di insolvenza può risolvere il problema del debitore, ma non quello del debito in sè, che continua ad esistere. Poco male se il  creditore (o i creditori) è in condizione di assorbire la perdita o perchè il suo credito è coperto dall’assett, o perchè non ha, a sua volta, debiti rilevanti in sofferenza, o perchè il flusso degli altri crediti compensa la falla aperta. I guai cominciano quando il creditore ha debiti e non ha modo di compensare la perdita. In quel caso, anche il creditore va verso il default e la situazione si ripete con il suo creditore (o i suoi creditori). Peraltro, la  finanza è un meccanismo che si regge sulla fiducia: se viene meno la sicurezza di essere pagati, nessuno fa credito, se non si è certi che il debitore pagherà non si fanno prestiti e tutto si paralizza.

Può determinarsi una catena di insolvenze con un “effetto domino” per cui  il “contagio” si estende e si rischia il crack generalizzato ed una depressione durevole che, ovviamente, è l’esito meno auspicabile che si possa immaginare. E, se il fallimento di una banca può essere compensato dall’intervento dello Stato –prestatore di ultima istanza- magari a favore di aziende e risparmiatori- il crack di uno Stato è molto meno riparabile ed ha conseguenze spesso incalcolabili.
Pertanto, occorre pensarci per bene prima.

Vediamo il nostro caso: la situazione è particolarmente grave per il fatto che lo stato di indebitamento è generalizzato, coinvolge molti fra i massimi attori dell’economia mondiale, spesso indebitati reciprocamente ed ammonta a cifre iperboliche. Dunque, abbiamo una situazione di per sè fragile, dove il default di uno può provocare un effetto contagio di grandi proporzioni.

Un altro aspetto molto delicato è rappresentato dal fitto intreccio fra debito estero e debito interno: gli stessi titoli di debito sono acquistati tanto da acquirenti interni (soggetti istituzionali -come banche, compagnie assicuratrici, fondi di investimento ecc.- aziende, enti locali o singoli risparmiatori) quanto da acquirenti stranieri (fondi sovrani, banche centrali, soggetti istituzionali) in una rete fittissima di crediti e debiti che accomuna investitori pubblici e privati. Pertanto, il contagio passa molto facilmente dai soggetti pubblici a quelli privati per tornare indietro, provocando una “tempesta perfetta” che investe l’intera economia mondiale.

Ad esempio, un default greco non colpirebbe solo le banche francesi e tedesche che detengono la parte più cospicua di titoli, ma anche enti locali stranieri, università  o fondi pensione che si sono lasciati attrarre dagli altissimi rendimenti offerti, scommettendo sull’intervento europeo che compensava il loro alto indice di rischio. Le banche francesi, a loro volta, subiscono ancora gli effetti   del crack dei mutui subprime e sono al centro di un pesante attacco della speculazione, per cui potrebbero a loro volta non reggere il loro livello di esposizione verso altri soggetti come assicurazioni, fondi pensione, fondi sovrani. L’attesa di  una ondata di insolvenze generalizzata, a sua volta porterebbe le banche a non prestare liquidi ad altre banche, paralizzando il mercato interbancario –esattamente come accadde dopo il crack della Lehman Brohers nel 2008-; quello che accelererebbe la tempesta trasformando in insolvenze anche stati di momentanei illiquidità. Contemporaneamente questo potrebbe causare una serie di cadute a catena di altri paesi a loro volta sull’orlo dell’insolvenza  (Portogallo, Spagna, Italia, Irlanda, Ungheria, Pakistan, ecc.).

Come si vede, anche un default di piccole dimensioni come quello greco (300 miliardi di euro, sono all’incirca il 3% del debito dell’Eurozona e molto meno dell’ 1% del totale dei debiti sovrani) può innescare una crisi di proporzioni molto vaste. Questo feedback positivo particolarmente rapido è la conseguenza tanto del fortissimo grado di interdipendenza dei mercati finanziari mondiali, sia del vicinissimo stress del 2007-8 che è tutt’altro che superato: il sistema ha spazi di recupero limitatissimi, per cui anche un urto di proporzioni relativamente modeste lo manda in crisi.

In una situazione di questo genere la cosa peggiore sarebbe un “rompete le righe”  con una corsa in ordine sparso  a chi arriva prima a dichiarare l’insolvenza. Dunque, parlare di “diritto all’insolvenza” non mi pare che abbia particolare senso:  più che di un diritto, si tratta di una situazione di fatto e le cose sono molto semplici: se hai i soldi paghi i debiti, se non li hai non li paghi ed il creditore reagisce nei limiti che gli consentono i rapporti di forza. Il resto sono chiacchiere.

Da questa situazione non usciamo con le petizioni di principio, ma con una presa di coscienza della gravità della situazione e con decisioni politiche conseguenti.
E la situazione è questa: c’è una larga parte di Mondo, praticamente tutto l’ex Occidente (Usa, Giappone ed Eurozona) che non è in grado di pagare i suoi debiti e va verso una serie di rovinosi default che, però, coinvolgerebbero anche i loro creditori. La Cina ha crediti per oltre 1000 miliardi di dollari con gli Usa più una massa doppia di dollari nelle sue casseforti, insieme a titoli europei e giapponesi per somme un po’ inferiori: questa enorme massa di denaro diventerebbe un mucchietto di cenere dopo una serie di default a cascata. Tutt’ora queste tre aree economiche rappresentano di gran lunga  la maggior parte dei suoi mercati di sbocco: a chi venderebbero dopo questi fallimenti in serie?

Più o meno lo stesso discorso potremmo fare per Russia, Brasile, India, Sudafrica,  mentre si fermerebbe sul nascere il promettente sviluppo di Indonesia, Turchia, Messico, Egitto, Sud Corea. In breve sarebbe una recessione mondiale che starebbe a quella del 1929 come una broncopolmonite doppia ad un raffreddore di stagione.

Ed allora? Allora, come prima cosa la questione va tolta dalle mani della finanza e messa in quelle della politica. Occorre una nuova Bretton Woods, con cinesi, indiani, brasiliani ecc, nella quale ripensare l’ordine mondiale e non solo quello economico-finanziario. In soldoni (è il caso di dirlo): l’Occidente chiede la moratoria di una larga fetta  del suo debito con i Bric, in cambio di quote di potere politico. Bonificare parte del debito americano, europeo e giapponese può essere nell’interesse di cinesi, indiani, russi ecc, ma non basta. L’Occidente ha quattro cose da offrire: la fine del dollar Standard, la fine del monopolio euro americano in Fmi e Bm, lo scioglimento della Nato, la diminuzione delle basi americane nel Mondo ed in particolare nell’oceano Indiano ed in quello Pacifico.

Cioè la fine dell’egemonia “occidente” in favore di un ordine mondiale policentrico.
In questo quadro possiamo anche pensare di uscire dal pantano del debito inestinguibile.

Aldo Giannuli