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Dare e avere

di Francesco Lamendola - 16/01/2012


 

Théo van Rysselberghe, Le canal en Flandre par temps triste

 

La vita, si dice, è un continuo dare e avere: oggi a te, domani a me.

Pure, è evidente che moltissime persone ignorano questa semplice verità, ossia l’indispensabile reciprocità fra gli esseri umani; e cercano, più o meno sfacciatamente, di ricavare dagli altri più di quanto esse siano disposte ad offrire di sé.

Altre, e non sono meno inconsapevoli delle prime, sono, sì, disposte a dare, anzi, non chiedono di meglio che poter dare molto, moltissimo; ma poi, consciamente o meno, quando viene un certo momento, si aspettano di ricevere altrettanto, vale a dire fuor di misura: creando pesanti obblighi, ricatti morali e sensi di colpa nei loro cari e nei loro amici.

E allora bisogna comprendere che la regola del dare e dell’avere ha senso e funziona se viene intesa con naturalezza, con misura, con spontaneità: non può e non deve corrispondere a una forma di contabilità affettiva, né, meno ancora, a una sorta di investimento preventivo.

Uno dei problemi più grandi nelle relazioni interpersonali è che, quando il disagio di un essere umano oltrepassa una certa soglia, egli si chiude completamente ai problemi, alle difficoltà e alla fatica degli altri: non li vede neppure, ma è interamente preso in ostaggio dalla propria sofferenza, dalla propria angoscia e dalla propria paura.

Questo accade con frequenza nei malati terminali e in certe patologie legate alla vecchiaia, così come si può dire che sia la regola nel caso dei bambini; tuttavia è abbastanza diffuso anche fra le persone giovani e adulte, ed è un fattore tanto più subdolo e insidioso, quanto più il disagio in questione può essere di natura puramente psicologica e, perciò, non sempre interamente percepibile dall’esterno.

Mentre una malattia fortemente invalidante, per esempio, è evidente a chiunque e aiuta gli altri a rendersi conto del perché il paziente si chiuda così tanto nella propria sofferenza, fino al punto da non avere più occhi e orecchi per vedere e udire quella che colpisce le altre persone, una sofferenza di tipo psicologico non è altrettanto evidente e può anche essere fraintesa e scambiata per qualcos’altro, per semplice egoismo o per mancanza di comprensione e sensibilità.

Certo, vi sono anche numerose situazioni nelle quali si tratta proprio di questo: nelle quali, cioè, uomini o donne immaturi, viziati, egoisti, vorrebbero che il mondo intero fosse perennemente a disposizione dei loro bisogni e avesse sempre orecchi per ascoltare le loro interminabili lamentele e recriminazioni; uomini e donne i quali, non appena qualcuno si azzarda ad accennare alla propria stanchezza, alle proprie difficoltà, riescono, nel giro di pochi istanti, a rivolgere nuovamente il discorso su se stessi e sui loro problemi, veri o presunti.

Ma qual è il confine tra un problema vero ed uno fasullo? Chi può stabilire quando una sofferenza è reale e quando nasce sostanzialmente, o viene enormemente ingigantita, dalla sensibilità patologica del soggetto? Il malato immaginario non è forse un malato vero e proprio, la cui malattia si chiama ipocondria?

Lo abbiamo detto più volte e lo torniamo a ripetere: nessun paradigma può giudicare un altro paradigma, perché ciascuno di essi si basa su presupposti radicalmente differenti da quelli di qualsiasi altro. Il paradigma moderno non può comprendere e giudicare il paradigma medievale, e tanto meno il paradigma dell’uomo antico. Ebbene, per la stessa ragione il paradigma della persona sana non può comprendere, né giudicare, quello della persona malata, fosse pure della persona malata di quella speciale malattia che consiste nel credersi malati.

Sia come sia, quando si supera una certa soglia del disagio, si finisce per rimanere murati all’interno del proprio inferno privato, e ciò rende praticamente impossibile un rapporto equilibrato con il prossimo: perché, nella vita, le relazioni umane armoniose, o quanto meno accettabili, si basano sempre sulla reciprocità e, dunque, sulla regola del dare e dell’avere di entrambe le parti, non mai del dare o dell’avere a senso unico.

Questo non significa che gli squilibri e gli scompensi nelle relazioni affettive siano dovuti unicamente al fatto che una delle due parti è afflitta da un disagio che abbia oltrepassato una determinata soglia di sopportabilità; molto più spesso sono dovuti, puramente e semplicemente, al fatto che una elle due parti, o magari entrambe, non hanno elaborato neppure quel minimo di consapevolezza da aver compreso che, nella vita, vige la norma della reciprocità.

In particolare, se una delle due parti commette l’errore di mostrarsi, fin dall’inizio, eccessivamente disponibile e servizievole; se abitua il proprio amico, il proprio coniuge, il proprio figlio o il proprio genitore a non aver neanche bisogno di manifestare un desiderio, che già si precipita a soddisfarlo, è molto probabile che, poco alla volta, verrà a stabilirsi una relazione affettiva a senso unico, con uno schiavetto sempre pronto a correre per soddisfare le esigenze del proprio padrone, il quale, da parte sua, considererà dovuto e scontato tutto quanto venga fatto per lui, fino al punto di non vedere più le attenzioni che continuamente riceve.

Vi possono essere svariate ragioni perché si instauri questo genere di servitù volontaria, ma, sostanzialmente, sono tutte riconducibili, crediamo, a due tipologie fondamentali: quella della paura della perdita e quella del senso di colpa. Quando si ha una paura patologica di essere lasciati e quando si ha una disposizione patologica al fatto di sentirsi in colpa, si tende a esagerare nella disponibilità e nello spirito di servizio verso l’altro, con il risultato di forgiare da sé le catene della propria schiavitù, la quale, pur essendo volontaria, nondimeno finirà per diventare, alla lunga, spossante e degradante quanto quella che viene imposta dall’esterno.

Solo il santo o l’idealista che decidono di spendersi gratuitamente per il prossimo possono sopportare con animo lieto e saldo la schiavitù volontaria, però indirizzandola indifferentemente verso tutti gli esseri umani; la persona comune, nella sua relazione con gli amici e i parenti, non potrà mai essere animata dalla medesima serenità, perché essa, nell’altro, cerca comunque un riscontro, un segno di apprezzamento e, possibilmente, un sentimento personale di affetto o di amore.

Qualunque persona normale, alla fin fine, soffre di vedersi perennemente sfruttata, disprezzata e trattata come un semplice strumento; e ciò non tanto per il sentimento istintivo della propria dignità, che effettivamente non tutti possiedono in grado sufficientemente sviluppato, quanto per il semplice fatto che la fatica dello schiavo, se non viene mai apprezzata e se è accompagnata non da atti di gratitudine, ma da atteggiamenti sprezzanti e persino derisori, finisce per rivelarsi insopportabile, per minare la stabilità psicologica e per spingere o alla rivolta o a quella particolare forma di rivolta che consiste nel rivolgere l’aggressività contro se stessi.

Questo è un pericolo reale: chi non si vuole abbastanza bene da pretendere la reciprocità nei rapporti con l’altro, non se ne vuole abbastanza nemmeno per sopportare, sul lungo periodo, il disagio e la sofferenza che le continue umiliazioni gli provocano, e può essere tentato di interrompere la catena infernale, non già interrompendo quella relazione affettiva e cercando di costruirsene un’altra, più equilibrata, ma danneggiando intenzionalmente se stesso.

È sempre più facile gettare per terra il giocattolo che non funziona, invece di cercare di ripararlo con pazienza; in fondo, è quello che tante persone tendono a fare con solo con se stesse, ma anche con gli altri, gettandoli via ogni volta che insorge una difficoltà tra esse e loro e pensando, ogni volta, che non sarà difficile sostituire la perdita con qualcun altro.

In questo senso, si può dire che la lebbra del consumismo ci ha contagiati un po’ tutti e si è riversata dalla sfera dei comportamenti esteriori, riguardanti le cose e le situazioni estrinseche, in quella più intima dell’affettività, spingendoci a “usare” gli altri proprio come si farebbe con degli oggetti; salvo sbarazzarcene senza tanti problemi quando non ci servono più o quando sarebbe necessario un salto di qualità, da parte di entrambi, per conservare le ragioni dello stare insieme o del frequentarsi con piacere.

Siamo diventati un po’ tutti analfabeti dei sentimenti: analfabeti di ritorno, perché certe cose le sapevano e le abbiamo dimenticate, per incuria e negligenza.

Del resto chi, se non un bambino viziato o un analfabeta dei sentimenti, può aspettarsi di ricevere, nella vita, più di quanto egli sia disposto a dare agli altri? La cosa è talmente evidente, talmente intuitiva, da non aver bisogno di alcuna spiegazione; e chi non la comprende, vuol dire che non ha intenzione di capirla.

Addirittura, si nota spesso che proprio le persone più egoiste, più avare di se stesse, più chiuse e corazzate nel proprio ego, sono precisamente quelle che nutrono le maggiori aspettative nei confronti della vita; sono proprio quelle si aspettano di attirare l’interesse, l’amicizia o l’amore delle persone più belle, più intelligenti, più ricche di fascino…

Che altro dire?

È evidente che, se vogliamo incontrare l’interesse e riscuotere la simpatia dei migliori, dovremmo sforzarci noi stessi di divenire un po’ migliori; se riteniamo davvero di meritare cose belle dalla vita, dovremmo fare in modo di essere delle persone un po’ più belle, incominciando a lavorare su noi stessi e imparando a guardarci in faccia, senza veli e senza ipocrisie.

Gira e rigira, si torna sempre lì: al conosci te stesso.

Chi non conosce se stesso, non può fare una stima ragionevole di quel che vale e di quello a cui può aspirare nella vita; tanto meno può aspettarsi che gli altri vedano in lui delle qualità inesistenti, che apprezzino in lui quelle cose che egli solo s’illude di possedere, ma che gli altri non gli riconoscono affatto.

Dobbiamo imparare ad essere dei giudici più severi nei confronti di noi stessi e, se possibile, più indulgenti nei riguardi del prossimo; mentre, per l’ordinario, noi tendiamo a fare esattamente l’opposto: a essere indulgenti con noi stessi e a giudicare con severità gli altri.

I nostri difetti, i nostri limiti, le nostre meschinità, ci sembrano trascurabili; quelli del prossimo, invece, anche se meno gravi, ci appaiono intollerabili: usiamo due pesi e due misure, ma sempre a nostro vantaggio, come dei commercianti disonesti.

Oppure cadiamo nell’eccesso opposto: ci deprezziamo al massimo, ci sentiamo gli ultimi di tutti, i più miseri, i più indegni; ci sembra che chiunque sia altro sia migliore di noi, che chiunque altro ci sorpassi in tutto, e di molto; ci sembra di essere insignificanti, stupidi, ignoranti, immeritevoli della minima attenzione da parte del prossimo…

Naturalmente, anche questa è una strategia dell’ego: una strategia inconscia, quasi certamente; ma pur sempre una strategia. Svalutandoci, disprezzandoci, umiliandoci, ci sembra quasi di prevenire ogni critica che gli altri possano muoverci: non c’è bisogno che alcuno ci faccia notare le nostre miserie, noi per primi ce le siamo fatte, ci siamo accusati e condannati senza alcuna pietà, nella maniera più severa.

Ma cosa si cela dietro questa strategia? Ancora la profonda ignoranza di noi stessi; ancora l’incapacità di guardare onestamente gli altri; ancora l’istinto di metterci al centro di tutto: mediante le critiche, se non è possibile che siano le lodi. L’importante è che noi siano al centro del discorso, che si parli comunque di noi: nel bene, se è possibile; e se no, nel male.

Ora, tutte queste cattive abitudini, tutti questi giochetti con la nostra coscienza, tutte queste menzogne e tutte queste mezze verità devono aver fine, se vogliamo ritrovare noi stessi e, nello stesso tempo, se vogliamo ristabilire un sano rapporto con gli altri: perché sull’ignoranza e sulla menzogna non si costruisce nulla, né dentro né fuori di sé.

Dunque: si può ricevere, quando si è pronti a dare; e si è capaci di dare, quando si è anche capaci di ricevere.

Non è vero che il ricevere sia cosa più facile che il dare: il ricevere nel modo giusto, naturalmente. Ricevere l’amicizia degli altri, l’affetto degli altri, l’amore degli altri: il riceverli nel modo giusto, non è cosa facile; richiede maturità, richiede consapevolezza, richiede conoscenza di se stessi; richiede essere dei veri uomini e delle vere donne, non burattini a un tanto il chilo.

Il mondo è pieno di burattini vestiti da uomini e da donne, che si lamentano continuamente perché non ricevono dalla vita quanto meriterebbero; oppure che si auto-flagellano per potersi compatire e commiserare e, magari, per essere compatti e commiserati dagli altri.

Eppure, nella vita, ci sarebbero soddisfazioni e gioie per tutti, a patto di essere leali con se stessi…