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Memorie dimenticate: genocidio in Tibet, Mongolia interna e Turkestan orientale

di Piero Verni - 08/10/2012

Fonte: miradouro


Tibet: un genocidio che dura da cinquant'anni
Nel 1950 il Tibet, uno stato indipendente e sovrano, con una propria identità culturale, religiosa, etnica e linguistica, fu invaso dall'esercito della Repubblica Popolare Cinese.

L'occupazione militare costituì un inequivocabile atto di aggressione e di violazione del diritto internazionale. Il Dalai Lama, capo politico e spirituale dei tibetani, tentò a lungo una pacifica convivenza con l'invasore ma le mire colonialistiche dei cinesi diventarono sempre più evidenti. Il 10 marzo 1959 i tibetani, esasperati dai continui soprusi e dalle vessazioni, insorsero e il loro risentimento sfociò in un'aperta rivolta nazionale. Un imponente assembramento di popolo si riunì intorno al Norbulinka, il Palazzo d'Estate, dove si trovava il Dalai Lama. Di fronte all'arroganza della Cina che brutalmente tacitava qualsiasi forma di resistenza, si accaniva sulla popolazione civile e, di fatto, esautorava lo stesso Dalai Lama da ogni potere, la gente chiese apertamente al governo di rifiutare ogni inutile e vano compromesso con Pechino e, con grande determinazione, gridò ai cinesi di lasciare il Tibet. La parola d'ordine era "Libertà e Indipendenza". La repressione fu feroce.

L'Esercito di Liberazione Popolare stroncò l'insurrezione con estrema brutalità uccidendo, tra il marzo e l'ottobre di quell'anno, nel solo Tibet centrale, più di 87. 000 civili. Il Dalai Lama lasciò il Paese e chiese asilo politico alla vicina India. Assieme a lui, abbandonarono in massa il Tibet occupato oltre centomila tibetani, il primo gruppo di quel flusso di profughi che, ancor oggi, nel tentativo di preservare le proprie tradizioni e di sfuggire alle persecuzioni e alla dittatura cinese, prende la via dell'esilio. All'indomani dell'occupazione i generali cinesi si resero conto che oltre il 90% dei tibetani era fedele al Dalai Lama e decisero quindi che, per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le "Riforme Democratiche", erano necessarie delle "sessioni di lotta"collettive, i famigerati thamzing, dei veri e propri linciaggi pubblici degli elementi "controrivoluzionari"a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva con il necessario entusiasmo, rischiava di passare immediatamente dal ruolo di accusatore in quello di accusato. Oltre a queste "sessioni di lotta ", per convincere il popolo tibetano a rispettare l'autorità di Pechino e a rompere con la "vecchia"cultura, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa. Anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. A questo scenario, di per sé tragico, si aggiunse lo spettro della fame e della carestia che tra il 1958 e il 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinese come conseguenza del "Grande Balzo in Avanti"voluto da Mao per riconquistare il pieno controllo del Partito Comunista. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, la seconda autorità religiosa tibetana dopo il Dalai Lama, che era rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui criticava severamente l'operato cinese in Tibet e chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La risposta di Pechino non si fece attendere. Il Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama che, dopo il processo, sparì nelle carceri cinesi da cui poté riemergere solo nel 1978. A completare l'opera di annientamento della cultura tibetana arrivò, nel 1967, la Rivoluzione Culturale con il suo tragico corollario di violenze, distruzioni e deliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati sciamarono sul Tetto del Mondo attaccando e fracassando ogni simbolo della "vecchia"cultura del Tibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclasta allucinato e allucinante le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di centinaia e a volte migliaia di anni producendo una ferita irreparabile alla civiltà tibetana. Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si limitò alle cose ma prese di mira anche le persone: i tibetani passarono attraverso un inferno difficile a descrivere con le parole. Il monaco tibetano Geshe Jampel Senge, attivista politico e tenace sostenitore della causa tibetana, così racconta, in un suo articolo del 2004, la follia di quegli anni: "Per crearsi un alibi e invadere il Tibet, i cinesi demonizzarono lo stile di vita dei tibetani e la loro cultura, definendola arretrata e oscura. Non si diedero la pena di verificare se quest'affermazione fosse vera o falsa: la usarono semplicemente come pretesto per ingrandire i propri confini, inventando, a legittimazione dell'occupazione del Tibet, uno slogan propagandistico tristemente ancora attuale. Dipinsero i monaci e le monache come parassiti che succhiavano il sangue della gente comune e definirono i Tulku (i reincarnati riconosciuti, secondo la tradizione buddista -ndt) ladri che privavano gli innocenti tibetani dei loro mezzi di sussistenza". Puntualmente, anche oggi i loro testi riportano la solita vecchia frase: "Il Tibet era una società feudale di servi retta da una teocrazia, una società più buia e arretrata di quelle dell'Europa medioevale". Per lisciare le penne arruffate dell'occidente, i cinesi definirono quindi il Tibet un paese buio ed arretrato, facendo sembrare la conquista del paese un'azione benevola compiuta per aiutare i tibetani. In realtà, con l'invasione cinese ebbe inizio l'era più oscura della nostra storia, vecchia di oltre tremila anni: i tibetani furono ridotti a cibarsi di carne umana e a cercare chicchi di grano non digeriti tra le feci dei coloni cinesi e dei soldati dell'Esercito di Liberazione. I bambini furono costretti ad assistere all'uccisione dei loro genitori, accusati, secondo la terminologia cinese, di essere "reazionari". Allo scopo di umiliarli e ridicolizzare le loro credenze, considerate superstizioni, i monaci e le monache furono obbligati a unirsi sessualmente in pubblico. A seguito delle continue vessazioni, intere famiglie si tolsero la vita gettandosi nei fiumi o dalle cime dei tetti. I Lama furono uccisi a colpi di pistola, a sangue freddo e, in vero stile nazista, seppelliti in buche fatte loro scavare in precedenza. La lista delle atrocità premeditate non ha fine e gli atti di brutalità continuano anche ai nostri giorni, dopo più di mezzo secolo. Questa è la cosiddetta "liberazione"imposta ai tibetani i quali, nonostante le insidie del percorso e la costante paura d'essere catturati sia da poliziotti di frontiera cinesi sia da nepalesi di poco scrupolo che, per danaro, hanno venduto la loro anima a Pechino, ogni anno lasciano in gran numero la loro amata terra e fuggono nei paesi vicini, quali l'India. Gli aspetti peggiori del comunismo, quelli che hanno minacciato il mondo civilizzato, si sono ovunque attenuati. Ma non in Tibet, dove i cinesi stanno cancellando un'antica civiltà non-violenta e un'intera razza desiderosa di vivere in pace e armonia con il resto del mondo. Con la loro follia e arroganza imperialista, gli invasori hanno di fatto distrutto i grandi e antichi monasteri, cuore della vita tibetana. Hanno demolito e saccheggiato i sacri templi che il nostro popolo aveva venerato per secoli. Hanno raso al suolo più di seimila tra monasteri e biblioteche che custodivano l'inestimabile eredità culturale e religiosa del paese. Quanti tentarono di opporsi a questo inutile saccheggio furono bollati come "reazionari" e assassinati, le loro teste appese ad alberi e pali per intimorire i compatrioti. I famigliari dell'ucciso furono costretti a danzare attorno ai cadaveri per "gioire dell'eliminazione dei reazionari". Le conseguenze di questa politica furono devastanti: 1. 200. 000 tibetani, un sesto dell'intera popolazione, furono uccisi con metodi paragonabili a quelli usati dai nazisti nei confronti degli ebrei oppure semplicemente scomparvero, dopo che qualcuno, nel cuore della notte, aveva bussato alle loro porte, così come avveniva nella Russia stalinista. La popolazione del Tibet fu decimata e ridotta a procacciarsi il cibo come fanno le bestie, a nutrirsi d'erba, di lucertole, delle suole di vecchie scarpe di cuoio, a raccogliere e masticare ossa, alla maniera dei cani. Questo è il genere di racconti che spesso ascoltiamo dai tibetani fuggiti dal Tibet, inclusi coloro che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in prigione, in condizioni terribili, paragonabili a quelle esistenti nei gulag al tempo del Soviet comunista. Ai nostri giorni, in aperta violazione dei più elementari diritti umani, in Tibet il diritto alla libertà di parola continua ad essere sistematicamente violato. Nelle carceri, i prigionieri politici, colpevoli solo d'aver espresso in modo pacifico il loro diritto alla libertà, sono brutalmente torturati, a livello sia fisico sia psicologico. Il solo possesso di una fotografia del Dalai Lama è considerato un'attività politica sovversiva e come tale punibile con la detenzione. La pratica del credo religioso è fortemente ostacolata e i religiosi, monaci e monache, sono costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dalai Lama e a dichiarare obbedienza al Partito Comunista. Questo accanimento contro la religione e i monasteri ha una ragione politica ben precisa: essendo la pratica del buddismo uno degli aspetti principali della cultura del Tibet, gli occupanti temono che attorno ad essa si possa cementare il sentimento di unità nazionale dei suoi abitanti. Il problema religioso diventa quindi un problema politico e le istituzioni religiose sono considerate centri di ribellione da tenere sotto stretto controllo o da sopprimere. Nonostante le continue vessazioni e i soprusi, in Tibet la resistenza continua. Ne sono testimonianza le centinaia di migliaia di eroi tibetani che hanno sacrificato la loro vita, e continuano a metterla a repentaglio, per difendere in modo pacifico il diritto alla libertà e a decidere del proprio futuro. Sono donne e uomini coraggiosi che sfidano apertamente un tiranno impietoso che non esita a imprigionare, torturare e, talvolta, a condannare a morte chi si rende colpevole di affiggere un manifesto, sventolare una bandiera o possedere una fotografia del Dalai Lama. Tra i tanti, ricordiamo l'artista Ngawang Choephel, la monaca Ngawang Sangdrol e le sue compagne di cella nella prigione di Drapchi, il venerabile lama Palden Gyatso, Tenzin Delek Rinpoche, Chadrel Rinpoche, fino ai due giovanissimi tibetani trucidati barbaramente dalla polizia di frontiera cinese il 30 settembre 2006, al Passo Nangpa, mentre cercavano la via dell'esilio. Ma l'elenco sarebbe lunghissimo. Assieme a loro, non possiamo dimenticare Gedhun Choekyi Nyima, l'XI Panchen Lama, rapito dai cinesi nel 1995, all'età di soli sei anni. Da allora non si sono più avute sue notizie. Purtroppo, né il sacrificio di tanti eroi, né l'infaticabile ricerca di dialogo del Dalai Lama con le autorità cinesi hanno finora scalfito la protervia di Pechino. Cresce, all'interno del Tibet e nella diaspora, il senso di frustrazione e il desiderio di partecipazione diretta alla lotta di liberazione del paese, sempre più devastato dal processo di colonizzazione in atto. Di fronte allo strapotere geopolitico, economico e militare della Cina, insignita dell'onore di ospitare i Giochi Olimpici del 2008 a dispetto delle palesi violazioni dei diritti umani di cui si macchia, il confronto appare assolutamente impari. Ciononostante, i tibetani non sono disposti a piegarsi ai soprusi e alla violenza. Certi del fatto che un giorno la verità storica e la giustizia finiranno col prevalere, non temono di battersi, in modo pacifico, contro un avversario tanto più potente. A quasi cinquant'anni dalla sollevazione di Lhasa, il loro motto è ancora "Libertà e indipendenza".

Comunità Tibetana in Italia
Associazione Italia-Tibet




Tibet: la compassione è ancora in esilio

Nella Cina comunista pastori protestanti, preti cattolici, predicatori musulmani, praticanti della Falun Dafa sono oggetto di una vera e propria persecuzione e le loro istituzioni religiose ridotte ormai al silenzio. Nel Tibet occupato, nonostante gli sforzi della propaganda di regime e l'imbarbarimento della vita quotidiana, la religiosità è ancora diffusa ed alimenta la rivolta contro l'occupante. I monasteri, nonostante l'asfissiante controllo poliziesco, continuano a promuovere una cultura antiautoritaria inconciliabile con la dottrina comunista e alimentano la resistenza nonviolenta alla dominazione coloniale cinese. Negli ultimi anni abbiamo quindi assistito ad una ondata di arresti, detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie che nelle intenzioni di Pechino avrebbero dovuto definitivamente sradicare la cultura tradizionale tibetana. Trulku Tenzin Delek, un religioso che ha speso la sua vita ad assistere i piu deboli e ad educare i giovani cinesi e tibetani al rispetto della vita e della libertà, dopo un processo farsa è stato condannato alla pena capitale. Lo hanno accusato, senza alcuna prova, di essere un terrorista che tramava nell'ombra per separare il Tibet dalla "madrepatria". In realtà la sua popolarità era cresciuta al punto tale da rappresentare ormai una minaccia per la "stabilità sociale"ed andava quindi inflitta una punizione esemplare. Solo dopo mesi di mobilitazione, solo dopo le dure prese di posizione di molti governi occidentali, la pena è stata poi commutata in ergastolo. Mentre non siamo riusciti a salvare la vita di un giovane patriota tibetano, arrestato con lui e con lui accusato degli stessi "crimini", che è stato assassinato con un colpo alla nuca dalla gestapo cinese. E non sappiamo quale sorte sia toccata al più giovane prigioniero politico del mondo. Da tempo infatti non si hanno più notizie del ragazzo riconosciuto dal Dalai Lama quale reincarnazione di una delle più importanti autorità spirituali del buddhismo tibetano. Il Panchen Lama, da dieci anni ostaggio dei cinesi, si trova con la sua famiglia in una località sconosciuta e nessun organismo internazionale è stato autorizzato a fargli visita. Ma questi sono solo i casi più eclatanti e noti quindi all'opinione pubblica occidentale. E'invece tra le mura dei monasteri, lontani da sguardi indiscreti, che i fanatici propagandisti del regime cercano di soffocare, con una vera e propria "campagna di rieducazione", la sovversiva vitalità dello spirito buddhista. Il Partito ha costituito "gruppi di lavoro"che hanno il compito di "educare al patriottismo"e di "estirpare le radici del separatismo"(e quanti non seguono con regolarità le sessioni di rieducazione o si rifiutano di sottoscrivere l'abiura vengono cacciati dalle istituzioni monastiche). Quelli che sono riusciti a fuggire, percorrendo a piedi intere catene montuose, ci descrivono le recenti "aperture"del regime comunista. Il solo possesso di una fotografia del Dalai Lama comporta oggi l'arresto o, nella migliore delle ipotesi, l'espulsione dal monastero. Sono state anche decise misure ancora più restrittive per limitare l'influenza dei centri religiosi imponendo un assoluto divieto ai minori di 18 anni di accedere all'educazione religiosa, cacciando i monaci più anziani detentori di una inestimabile saggezza. I commissari politici del Partito Comunista Cinese hanno poi infiltrato loro agenti nelle comunità religiose con il compito di controllare ogni momento della vita quotidiana dei monaci. E quando i gerarchi non riescono con questi mezzi cosi'convincenti a "normalizzare"la vita del monastero, procedono semplicemente alla sua distruzione. Infatti tutti i luoghi di culto "non autorizzati"possono essere rasi al suolo in qualsiasi momento senza nemmeno una comunicazione preventiva. Ma se nel caso dei monasteri, da sempre centri di contropotere, è"comprensibile"il furore repressivo, nel caso degli asceti solo l'isteria di qualche burocrate può invece spiegare l'accanimento con cui si infierisce su questi praticanti. Di recente ho appreso dal Dalai Lama che molti asceti hanno dovuto lasciare i ritiri montani in quanto non erano in grado di pagare la nuova tassa di "occupazione di caverna"(sic!). E, dato che non intendevano continuare la loro pratica meditativa nelle galere cinesi, hanno cercato rifugio in località ancora più remote nella speranza di sfuggire all'arresto per "morosità". Questa è dunque la "libertà di culto"che i cinesi esportano con le loro disprezzabili mercanzie. Ma, come sempre accade, nelle tragedie più spaventose della Storia emergono per fortuna anche figure luminose di così tale spessore etico, morale e umano da costituire una speranza e un punto di riferimento per il loro Popolo e per tutta l'Umanità. E'certamente il caso di Palden Gyatso, monaco tibetano arrestato nel 1959 per aver partecipato a una manifestazione non violenta a favore dell'indipendenza del Tibet, giudicato "elemento reazionario"e incarcerato per sette anni. Tornò a Drepung, ma nel 1967 il celebre monastero fu raso al suolo e i monaci condannati ai lavori forzati. Quando nel 1992, dopo trentatrè anni di infernale detenzione, fu rilasciato - sotto promessa di ritornare alla quieta vita monastica -, riuscì a portare con sè, in India, gli strumenti con cui era stato torturato e, incoraggiato dal XIV Dalai Lama, iniziò a divulgare la sua spaventosa esperianza, rivelando agli occhi del mondo tutta l'agghiacciante portata dell'occupazione cinese. Palden Gyatso è stato anche insignito del premio John-Humphrey per la libertà (1998) dal "Centro Internazionale dei Diritti Umani e dello Sviluppo Democratico", riconoscendo gli instancabili sforzi per denunciare le violazioni dei diritti umani perpetrati in Tibet dai cinesi.

Claudio Tecchio
(Settore Politiche Internazionali della CISL Piemonte)




Mongolia Interna (Regione Autonoma della Mongolia Interna)

La divisione tra Mongolia Esterna (oggi Repubblica di Mongolia) ed Interna non esisteva fino a quando la dinastia mancese Qing non cominciò a governare la Cina nel diciottesimo secolo. Nel 1911, con la caduta dell'impero Manciù e la proclamazione della Repubblica, avvenne in Cina un processo analogo a quello che accadde in Europa all'impero austro-ungarico dopo la fine della Prima Guerra Mondiale quando molte delle nazionalità governate da Vienna, reclamarono la propria indipendenza. In Mongolia, a partire dal 1912, nacque un impetuoso movimento indipendentista a forti connotazioni religiose (una delle figure di primo piano era l'ottavo Hutuktu, la massima autorità buddhista del Paese e di nazionalità tibetana) che ebbe successo nella Mongolia Esterna la quale in breve tempo riuscì ad affrancarsi dal controllo della Cina. Le richieste di indipendenza furono invece brutalmente represse dagli eserciti repubblicani nella Mongolia Interna che rimase sotto il controllo di Pechino. Nel 1921 l'indipendenza della Mongolia Esterna fu definitivamente sancita mentre i territori rimasti sotto controllo cinese conoscevano un giogo coloniale ancora più duro di quello subito sotto l'impero dei Qing. Nel corso degli anni '20 e '30, mentre la ex Mongolia Esterna entrava nella sfera di influenza sovietica, in quella Interna ci furono diversi tentativi dei mongoli di ribellarsi ma furono duramente repressi dagli eserciti dei Signori della Guerra o da quelli repubblicani. Secondo fonti attendibili solo nella rivolta di Gada Meiren, nel Karchin orientale, vennero uccisi dai tre ai quattromila mongoli. Unicamente il governo presieduto dal principe Demchugdongrub ottenne un certo parziale successo e riuscì a controllare, prima di soccombere anch'esso, per circa una decina di anni quasi la metà del territorio della Mongolia Interna. Nel 1945 un esercito congiunto sovietico-mongolo liberò le aree della Mongolia che erano state occupate dai giapponesi nel corso della seconda Guerra Mondiale. L'Unione Sovietica, che nel frattempo aveva fatto della Mongolia Esterna un suo stato satellite, si pose il problema se riunificare le due Mongolie (come era nelle aspettative di tutto il popolo mongolo) o restituire quella Interna alla Cina repubblicana, con cui Stalin aveva un ottimo rapporto. Alla fine, sulla base di considerazioni geopolitiche, il dittatore georgiano decise che sarebbe stato meglio per gli interessi dell'URSS, non riunire in un'unica nazione i popoli mongoli e quindi la Mongolia Interna rimase sotto il controllo cinese. Nel 1946 gli eserciti maoisti conquistarono gran parte della Mongolia Interna e nel maggio 1947 venne creato, sotto il diretto controllo del Partito Comunista Cinese, il Governo Autonomo della Mongolia Interna antenato dell'odierna Regione Autonoma della Mongolia Interna (R. A. M. I. ) che venne costituita ufficialmente nel 1956. All'inizio le nuove autorità di Pechino usarono un certo riguardo nei confronti del problema mongolo. Nel tentativo di segnare un cambiamento rispetto alla brutalità del governo repubblicano e di mostrare al mondo la loro sensibilità verso le autonomie regionali, la gestione della Mongolia Interna fu mena oppressiva e violenta di quella di altre zone della Cina. Presidente della R. A. M. I. venne nominato Ulanfu, un mongolo comunista e una significativa percentuale dei dirigenti di partito e dei quadri intermedi era di etnia mongola. Anche se tutte le decisioni effettive erano prese a Pechino la presenza, almeno a livello locale, di funzionari mongoli rendeva meno intollerabile la situazione agli occhi della popolazione. Ben presto però le cose iniziarono a cambiare. Quando gruppi organizzati di oppositori fecero sentire la loro voce la repressione fu immediata e brutale. Solo nel 1953 ci furono oltre 10. 000 esecuzioni capitali e un numero triplo di arresti e condanne a pesanti pene detentive per "crimini controrivoluzionari", "sovversione etnica", "mentalità feudale"e "spionaggio". E di conseguenza cambiò anche la composizione etnica della classe dirigente. La percentuale di quadri e dirigenti mongoli all'interno delle organizzazioni statali e di partito declinò bruscamente e se nel 1950 l'80% dei funzionari e dei dirigenti governativi erano mongoli, nei primi anni '60 la percentuale era scesa sotto il 50%. Inoltre per vanificare ulteriormente ogni idea di indipendenza, Pechino organizzò un massiccio afflusso di coloni cinesi nelle aree più economicamente appetibili della R. A. M. I. Con l'avvicinarsi della Rivoluzione Culturale in Cina aumentavano le spinte nazionaliste e scioviniste e i mongoli, come tutte le cosiddette "minoranze nazionali", cominciarono ad essere considerati con ancor maggior sospetto che in passato. Alla fine degli anni '50 molti intellettuali e quadri di partito mongoli furono accusati di essere "elementi separatisti"o "nazionalisti di destra"e quindi epurati e condannati a dure pene detentive. Nel 1965 il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese destituì Ulanfu e altri importanti dirigenti di etnia mongola. Nel 1966 l'onda lunga della Rivoluzione Culturale portò in Mongolia un clima di terrore e distruzione senza precedenti. Ulanfu e i suoi collaboratori furono definiti "cricca reazionaria"e arrestati. Nella primavera del 1967 l'Armata Rossa entrò in forze in Mongolia e il generale cinese Teng Haiqing divenne il presidente del Comitato Rivoluzionario della Mongolia Interna che aveva sostituito le precedenti istituzioni. Su richiesta di Pechino il generale lanciò, nel 1968, una campagna per "snidare la tendenza funesta di Ulanfu e liquidare la sua influenza nociva". Con l'approvazione incondizionata di Mao e Ciu En Lai, Teng diede vita su tutto il territorio della Mongolia Interna ad una vera e propria caccia alle streghe durante la quale bande di studenti fanatizzati gareggiavano con i soldati nel perseguitare la popolazione e distruggere quel poco che rimaneva di architettura mongola sia laica sia religiosa. Tra la fine del 1968 e il maggio 1969 la Mongolia Interna visse in un clima di terrore e allucinazione. Centinaia di migliaia di uomini, donne e perfino bambini furono imprigionati, umiliati, torturati e uccisi. Durante pubbliche riunioni la gente doveva confessare delitti mai commessi. Soprattutto dovevano confessare di essere attivisti di un fantomatico "Nuovo Partito Rivoluzionario del Popolo"legato alla "cricca reazionaria"di Ulanfu. Nell'estate del 1969 la Mongolia Interna venne posta sotto controllo militare e un buona porzione del suo territorio fu incorporata nelle confinanti province cinesi. Nello stesso anno, finalmente, Mao decise che la repressione si era spinta troppo in là e chiese al generale Teng di moderare la sua furia repressiva. La situazione cominciò quindi a tornare verso una sia pur precaria "normalità". Un certo numero di detenuti politici poté rientrare a casa ma molte decine di migliaia rimasero in prigione fino alla seconda metà degli anni '70. Secondo fonti ufficiali dello stesso Partito Comunista Cinese, rese note nel 1981, nella repressione nella Mongolia Interna oltre mezzo milione di persone vennero incarcerate, decine di migliaia furono ferite e torturate, più di 20. 000 (secondo altre stime 50. 000) furono assassinate dall'esercito o dalle Guardie Rosse. La nuova dirigenza cinese, pur pubblicando queste cifre e condannando l'accaduto, non prese alcun provvedimento disciplinare nei confronti dei responsabili. Comunque i problemi per i circa tre milioni di mongoli che abitano nella Mongolia Interna non finirono con l'attenuarsi della repressione. Infatti, come per tutte le altre aree abitate da etnie non cinesi, il pericolo più grave è costituito dalla migrazione di coloni han che rende le popolazioni locali insignificanti minoranze nei loro stessi paesi. Ancora all'inizio di questo secolo la presenza cinese nei territori della Mongolia Interna era in pratica inesistente. Come abbiamo visto, solo dalla seconda metà degli anni '50 ebbe inizio una immigrazione di massa. Nel 1947, nell'area controllata dal Governo Autonomo della Mongolia Interna, vivevano 1. 200. 000 mongoli e meno di 800. 000 cinesi. A partire dal 1956 il numero di questi ultimi si è moltiplicato esponenzialmente Oggi, secondo i dati dell'ultimo censimento, nella Mongolia Interna a fronte di 3. 5 milioni di mongoli vi sono 18 milioni di cinesi. Questa proporzione esprime bene la posizione di Pechino verso il problema della "minoranze nazionali". Alla fine degli anni '80 con la caduta del Muro di Berlino, l'inizio del collasso dell'Unione Sovietica e la fine del regime comunista nella Repubblica di Mongolia, i timori di Pechino per un possibile aumento delle richieste democratiche e indipendentiste nella R. A. M. I. portarono a nuovi giri di vite repressivi e ad una accelerazione del processo di sinizzazione. Nonostante tutto però, Pechino non è ancora riuscita a normalizzare questi territori. A partire dal 1981 ha fatto la sua apparizione un movimento non violento di studenti e intellettuali che conta tra i suoi membri alcune significative figure della cultura mongola contemporanea. Una di queste, Baatur, nel 1987 venne arrestato e condannato ad 8 anni di carcere per reati di opinione. A partire dall'inizio degli anni '90 i piccoli gruppi di resistenza organizzata della R. A. M. I. cominciarono a operare anche all'estero facendo conoscere al mondo la drammatica situazione della loro terra. Nel 1992 diversi gruppi si unirono nel "Consiglio di Coordinamento Generale del Movimento per la Rinascita della Mongolia meridionale"e pubblicarono un manifesto politico che chiariva le motivazioni della loro lotta. Ovviamente l'internazionalizzazione della questione mongola mandò ancor più su tutte le furie Pechino che rispose intensificando la repressione interna e colpendo con particolare durezza gli esponenti dei gruppi politici più attivi come il "Partito del Popolo della Mongolia Interna"e l'"Alleanza Democratica della Mongolia meridionale". E a quest'ultima organizzazione appartengono i due più noti prigionieri politici mongoli, Hada e Tedexi, condannati nel 1996 rispettivamente a 15 e 10 anni di prigione per i reati di "separatismo"e "spionaggio". Il 18 settembre del 1997, il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione in cui si condanna la politica cinese nella R. A. M. I., la repressione degli oppositori ed in cui si chiede la liberazione di Hada. Purtroppo a tutt'oggi la situazione nella Regione Autonoma della Mongolia Interna continua ad essere critica e il controllo coloniale di Pechino ben lungi dall'attenuarsi.

Piero Verni
(giornalista e scrittore)




Turkestan Orientale

Nella nord occidentale regione dello Xinjiang il controllo del governo sulla religione islamica degli Uighuri è molto più stretto, al limite della persecuzione, che per gli islamici di altre etnie. Pechino dice che deve combattere il "separatismo", ma intanto sfrutta le risorse della regione a vantaggio delle ricche province orientali e tiene in condizioni arretrate la popolazione Uighuri. Forum 18 riferisce un controllo capillare, anzitutto verso gli imam e i giovani. Ogni venerdì mattina, giorno sacro musulmano, gli imam vanno al locale Ufficio per gli affari religiosi per spiegare il testo del sermone che terranno e ricevere "indicazioni generali". Ogni gruppo religioso deve essere registrato presso il comitato religioso nazionale e la nomina dei leader va approvata dalle autorità. I leader partecipano a incontri periodici dove funzionari statali indicano la politica religiosa da seguire. Ai fedeli sono in genere interdetti posizioni pubbliche di potere e l'insegnamento scolastico. E'vietato dare un'educazione religiosa ai figli. Ai minori di 18 anni è proibito frequentare i luoghi di culto, perché si vuole che i giovani "completino l'educazione e sviluppino la personalità, per poter fare una scelta informata se essere credente o ateo". Il divieto è molto rigido nei distretti più religiosi come Hotan e Kashgar, dove la polizia vigila che giovani e impiegati pubblici non frequentino le moschee o le madrasse (scuole religiose islamiche). Durante il mese di digiuno del Ramadan, a scuola le autorità forzano gli studenti e i professori musulmani a pranzare. Ci sono espropri e demolizioni di immobili di culto o utilizzati dalla comunità islamica. Circa tre anni fa le autorità, durante la ricostruzione di una zona intorno alla moschea Idha (la principale del Kashgar), hanno demolito molti piccoli ristoranti e sale da the, ritrovo dei musulmani dopo la preghiera. A Urumqi la vecchia moschea è stata demolita e ricostruita come parte di un centro commerciale, tra un locale che vende pollo fritto e un supermercato Carrefour. I fedeli dicono che "talvolta non possono nemmeno udire le preghiere, per la musica e le canzoni dei locali". Sono proibiti movimenti islamici come il Sufismo e il Wahhabismo, per timore che possano prendere connotazioni politiche, e sono pure banditi gli scritti di autori aderenti a queste credenze. Secondo Forum 18 il controllo verso altre etnie islamiche cinesi, per esempio sulle moschee dei Dungan (popolazione originaria dell'Asia centrale), è molto meno rigido. I genitori Uighuri spesso portano i figli in altre regioni, dove possono frequentare le madrasse e ricevere un'educazione islamica. Esperti spiegano che la persecuzione religiosa ha ragioni anzitutto economiche ed è finalizzata a stroncare l'identità della popolazione Uighuri per spogliarla delle ricchezze della zona, ricca di petrolio e gas naturale. Per questo Pechino da anni favorisce la migrazione nella regione di milioni di cinesi Han, che ormai sono almeno il 50% dei 19, 3 milioni di residenti e che hanno preso il controllo dei commerci e dei posti di potere, mentre gli Uighuri (42%) sono soprattutto contadini. Dal gennaio 2000 il governo persegue il "programma per lo Sviluppo dell'ovest", più arretrato rispetto alle ricche regioni orientali, con la creazione di strade e ferrovie, dighe e oleodotti. Ma Zhao Baotong, capo dell'istituto economico dell'Accademia di scienze sociali dello Shaanxi a Xian, dice che il programma "beneficia soprattutto le regioni orientali". "Questi programmi trasportano elettricità, gas naturale e altre risorse dall'ovest all'est per favorire lo sviluppo di quest'ultimo. Nessuno di questi progetti favorisce lo sviluppo della produzione e dell'industria locale nell'ovest".

Piero Verni
(giornalista e scrittore)