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Trecentotrenta anni or sono

di Franco Cardini - 06/02/2013

 

In un tempo come il nostro, nel quale la cultura si fa principalmente per anniversari, un Trecentotrentennale potrebbe aver un suo cabalistico senso, con il suo insistere sui fatidici numeri 100 e 30: si tratta dell’età tradizionale di Gesù moltiplicata per dieci eccetera eccetera. Non è quindi poi tanto strano che ci si volga con intensità e frequenza a quel fatidico 1683 e a quel 12 settembre (quasi un 11 settembre, il giorno delle Twin Towers, ama notare qualcuno: riflessione che ricorda il celebre “Goal!, No, anzi: quasi…” dell’indimenticabile Nicolò Carosio).

Il 12 settembre 1683 le truppe congiunte dell’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, comandate da Carlo V duca di Lorena, e del re di Polonia Giovanni III, meglio conosciuto come Jan Sobieski, sconfissero sotto le mura di Vienna lo sterminato esercito ottomano guidato da Kara Mustafa che da due mesi ormai cingeva la città del Danubio di un terribile assedio. Oggi, sta circolando nelle sale cinematografiche polacche e sta arrivando in Italia il film 1683 di Renzo Martinelli, mentre nelle poche librerie ancora superstiti nelle nostre città ci si può imbattere nella ristampa dei libri a tale evento dedicati da studiosi come lo Stoye e il Wheatcroft e alla più recente monografia Il Turco a Vienna di tal Franco Cardini, sulla quale mi sia consentito personalmente di sospendere il giudizio e mantenere il riserbo.

Perché tanto interesse attorno a quel celebre ma ormai remoto avvenimento? Soprattutto, perché negli ultimi due decenni si è sviluppata la polemica attorno a quel che per alcuni è il tentativo dei fondamentalisti islamici di colpire l’Occidente con una nuova “invasione conquistatrice” (che sarebbe la terza, dopo l’espansione musulmana tra VII e X secolo circa e l’egemonia ottomana sul Mediterranmeo e sull’Europa sudorientale tra Quattro e Settecento), mentre ha fatto discutere la teoria di Samuel P. Huntington sullo “scontro di civiltà” e infine il mondo è stato scosso dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti e dalle due guerre afghana e irakena che gli hanno tenuto dietro, scatenando crisi ancora lontane dalla soluzione. In questo contesto, molti giornalisti e opinion makers hanno diffuso un’angosciosa domanda ucronica ostinatamente circolante a livello della divulgazione storica: non è forse vero che, se i musulmani non fossero stati “fermati” a Poitiers nel 732, a Lepanto nel 1571 e a Vienna nel 1683, oggi l’Occidente sarebbe islamizzato? La risposta degli specialisti, degli storici seri, a tale domanda, non è stata affatto quella della vecchia massima “La storia non si fa con i se e con i ma”, in quanto oggi – al contrario – si pensa fondatamente che essa non solo si possa, ma si debba fare proprio così, se la si vuol comprendere sul serio. Non parliamo tuttavia in questa sede di problemi ucronici o, come si usa dire, “controfattuali”: lo spazio ce lo vieta. Semmai, se volete, ci torneremo sopra.

Limitiamoci ai fatti del 1683. Alla fine dell’anno precedente, uno sterminato esercito ottomano (lo si è stimato di circa 300.000 effettivi, dei quali al metà combattenti e gli altri adibiti a servizi logistici e tecnici vari) mosse da Istanbul al comando del gran vizir e, attraversando Balcani e pianura danubiana, giunse a Vienna nel luglio del 1683 per venirne scacciato due mesi più tardi da una coalizione austro-tedesco-polacca alla formazione della quale aveva contribuito potentemente, con la sua opera religiosa e diplomatica e il denaro della Chiesa e suo personale (era membro della potente famiglia dei banchieri Odescalchi) il papa Innocenzo XI. Molti furono i volontari che a vario titolo e da varie contrade dell’Europa cattolica intervennero in quell’episodio: del resto, quello era un tempo di soldati professionisti, di mercenari, di contractors. E poi, la notizia della marcia dell’esercito ottomano verso nord aveva provocato nella Cristianità un ultimo, per molti versi esaltante e commovente, sussulto del vecchio “spirito di crociata”, che fu mantenuto vivo da mistici e predicatori come il cappuccino Marco d’Aviano, protagonista appunto del film di Martinelli.

Che “il Turco”, cioè il sultanato ottomano, tenesse ormai da circa due secoli e mezzo l’Europa sotto scacco, è vero: per quanto non si trattasse certo di un assedio continuo, bensì di una serie di attacchi e di conflitti alternata o accompagnata da più o meno lunghi periodi di tregua e da una rete fittissima di rapporti diplomatici, economici e culturali. Di solito, gli ottomani (insieme con i loro semisudditi e alleati, i corsari maghrebini) saggiavano alternativamente difese e reazioni dell’Europa cristiana attaccando alternativamente per mare – e minacciando quindi anzitutto la Spagna e Venezia) – e per terra, attraverso la penisola balcanica. Le grandi isole tirreniche e le coste soprattutto andaluse e italomeridionali erano oggetto di razzìe volte soprattutto al prelievo di schiavi, mentre per via di terra si rastrellavano i Balcani anche per trarne ragazzi cristiani che poi, islamizzati, sarebbero stati impiegati nel corpo militare scelto dei giannizzeri e si arrivava talvolta – lo ha ricordato anche Pasolini – sino al Friuli. D’altronde il Sacro Romano Impero, la Monarchia di Spagna e la Repubblica di San marco rispondevano ripagando di ugual moneta: anche i musulmani finivano schiavi dei cristiani, e tutto ciò determinava tra l’altro il diffuso fenomeno delle conversioni più o meno forzati. Molti erano i dignitari del sultano che, in realtà, erano dei “rinnegati” albanesi o calabresi.

Ma era davvero “scontro di civiltà”? Si direbbe di no, a giudicare dal fatto che, tra Cinque e Settecento, la principale potenza politica e militare d’Europa, la Francia, mantenne costantemente con il sultano d’Istanbul rapporti diplomatici e perfino militari improntati all’amicizia se non addirittura alla criptoalleanza, mentre dal canto loro gli Asburgo d’Austria e di Spagna erano amici e alleati dello shah di Persia, musulmano sciita e nemico del sultano sunnita ottomano; e la diplomazia portoghese, che stendeva i suoi rami fino all’Etiopia e all’India, era riuscita a interessare alla “crociata” antiottomana perfino i negus abissini i quali controllavano le sorgenti del Nilo e si sentivano minacciati dagli emiri somalo-eritreo-yemeniti vassalli di Istanbul.

Questo complesso quadro geopolitico, che va tenuto sempre presente, determinava la “scacchiera” delle alleanze e delle ostilità. I papi non avevano mai rinunziato all’idea e allo strumento della crociata: ma dovevano tener presente che molti erano i cristiani soggetti al sultano, e d’altronde erano avversati dalle potenze europee protestanti, le quali perciò guardavano a Istanbul con occhio non ostile. Venezia si sentiva sì minacciata dal Turco, ma in sul confine friulano e in Adriatico anche dagli Asburgo d’Austria e dai loro alleati, i pirati uscocchi: d’altronde, la Serenissima era titolare di massicci interessi economico-commerciali in Levante e non intendeva certo comprometterli definitivamente abbracciando con coerenza la causa crociata (anche perché i suoi stessi rapporti con la curia pontificia erano problematici, Paolo Sarpi insegni). Parigi e Istanbul si trovavano inoltre a dover fronteggiare esattamente gli stessi nemici euromediterranei, la Spagna e il sacro Romano Impero, entrambi asburgici: ciò bastava a spingere francesi e ottomani all’alleanza.

Questa complessa situazione si rifletté puntualmente sotto le mura di Vienna. Agli ordini del gran vizir erano schierate anche le truppe degli stati-vassalli cristiani della Sublime Porta: i moldavi e i valacchi ortodossi, gli ungheresi calvinisti, i luterani di Transilvania. Dall’altra parte, re Giovanni di Polonia si era portato all’assedio un contingente di tartari di Crimea ostili al loro khan, ch’era alleato-vassallo del sultano. Non c’è dubbio che nella feroce battaglia del 12 settembre, in cui la mischia era sovrastata dai due opposti slogan guerrieri “Gesù e Maria!” e “Allah akbar!”, spirasse il vento impetuoso della crociata e del jihad. Ma ciò non dipendeva dal fatto che quella fosse una “guerra di religione”: bensì dal fatto ch’era uno scontro da genti profondamente religiose, e per le quali il fatto religioso era primario e centrale. Genti che alla fede religiosa, della quale erano eprmeati, ispiravano e consacravano sempre tutti i loro atti della loro vita: anche il pane che s’informava quotidianamente, anche il lavoro agricolo e artigiano. Figurarsi la guerra, qualcosa di così alto e terribile da non potersi intraprendere se non nel nome di Dio. E’ questo elemento, oggi scomparso nella Modernità occidentale e sopravvissuto nello stesso mondo islamico molto meno di quanto di solito si dica e si creda, che noi siamo incapaci di correttamente valutare e che c’induce a grossolani errori.

Niente scontro di civiltà, dunque, sotto Vienna. Le civiltà cristiano-occidentale e musulmano-sunnita, diverse certo ma provviste delle medesime radici (il monoteismo abramitico e la cultura ellenistica) e strettamente intrecciate tra loro (la diplomazia, il commercio, i rapporti culturali, la frequentazione del medesimo mare, i centri urbani d’incontro e di convivenza siti lungo le coste e le frontiere) avevano contribuito a configurare un complesso e delicato ma anche robusto equilibrio, che consentiva continui scambi e reciproci vantaggi. L’affermarsi della tecnologia occidentale di élite a Istanbul, a Isfahan e perfino a Delhi (dov’erano apprezzati l’ingegneria soprattutto navale, la tecnologia delle armi da fuoco, con maggiori resistenze la stessa arte della stampa) e lo svilupparsi nel nostro Occidente di quelle cultura orientalistica ch’è parte integrante e irrinunziabile della Modernità e della sua Weltanschauung sono prove di questa integrazione e di questa convivenza solidissima.

Questo equilibrio è stato spazzato via dal turbine della prima guerra mondiale, che lo ha distrutto per sempre (basti pensare agli errori e alle scelte criminose dei vincitori del 1918 nella gestione delle terre dell’ex impero ottomano), e dagli sviluppi del complesso movimento di decolonizzazione-neocolonizzazione, che ha sottoposto il mondo allo sfruttamento cinico e sistematico delle lobbies multinazionali, delle quali i governi occidentali sono ordinariamente dei “comitati d’affari” e alle quali le forze militari internazionali troppo spesso si prestano a fra da ascari e da gurka. E’ troppo facile imporre, come spiegazione del diffuso malessere contemporaneo – quello che si riiscontra nel mondo musulmano e che ormai sta incendiando da tempo l’Africa – il “fanatismo” dei fondamentalisti musulmani. Ieri nel mondo premoderno e protomoderno, come mutatis mutandis oggi nel mondo postmoderno, non esistono gli “scontri di civiltà”. Esistono gli scontri fra opposte volontà di potenza, i conflitti tra imperi. Così è, se vi pare. E anche se non vi pare.