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Rivoluzione, modernità e progresso

di Eugenio Orso - 29/04/2013


a.      La falsa rivoluzione, la modernità imposta e il progresso distruttivo

A qualcuno potrà sembrare che le tre espressioni, citate nel titolo del presente scritto, identificano in qualche modo un avanzamento complessivo del corso storico, inteso essenzialmente in chiave positiva, che porterà necessariamente miglioramenti nella vita sociale e individuale delle generazioni future. Queste espressioni, per la loro rilevanza ideologico-propagandistica, legittimante del sistema, sono entrate fatalmente nel linguaggio quotidiano, nel parlato di tutti i giorni, assumendo significati diversi da quelli più propri, talora contrastanti, talaltra erronei. Espressioni che identificano qualcosa di buono, o almeno considerato tale dai più, come la “rivoluzione scientifica”, quella informatica, quella biomedica, oppure che lasciano presumere i destini progressivi del genere umano, che per sua natura “modernizza” ad ogni costo per avanzare, strumentalizza il sapere scientifico non tanto per sostituirsi a dio onnipotente, ma per imporre il potere di una classe sull’altra, realizzando così il “progresso”, quell’indietro non si torna che dovrebbe assicurare momenti futuri sempre migliori di quelli passati.

Gli stessi marxisti, figli adottivi della filosofia rivoluzionaria di Karl Marx rivisitata da Engels e Kautsky, hanno unito le tre espressioni, unificate una prima volta dal comunismo del kantiano Engels e dall’ortodossia marxista di fine ottocento, per cui la Rivoluzione sarebbe avvenuta nel solco del progresso e dell’avanzamento del capitalismo, durante l’era moderna, sconfiggendo il dominio capitalistico-borghese e instaurando definitivamente il comunismo, quello scientifico e “progressista”, naturalmente, dopo la parentesi storica socialista. I marxisti ortodossi non desideravano apparire antimoderni e volevano competere con la borghesia sullo stesso terreno, sulla strada obbligata della modernità e del progresso. Antimoderni, ad esempio, non sarebbero soltanto coloro che restano caparbiamente abbarbicati ad antiche tradizioni (precapitalistiche), per difendere l’identità, la comunità o la religione di appartenenza, ma anche i decriscisti, nati in questi anni di devastazioni neocapitalistiche ambientali e sociali, che si oppongono alla dismisura, allo sviluppo illimitato, e quindi al tanto celebrato progresso che fa sempre di più il paio con il mercato. Antimoderni sono sicuramente gli operai che non accettano relazioni industriali nuove di zecca, ultramoderne, come quelle “marchionniste”, tutte centrate sulla riduzione massima di costi e diritti, sulla compressione del fattore-lavoro, per gli operai stessi totalmente penalizzanti, ma sicuramente nel solco del progresso. Antimodernità, nei contesti capitalistici e neocapitalistici, equivale a un’accusa grave, delegittimante, quanto quella di essere reazionari e di opporsi all’inevitabile progresso (allo sviluppo produttivo, alla crescita economica “benefica”) e con questa solitamente fa il paio. La stessa Rivoluzione, ma impropriamente intesa, epurata da comportamenti violenti di massa, privata di ogni contenuto trasformativo sul piano sociale e politico, non più intermodale e genuinamente antagonistica, si sposa con modernità e progresso soltanto se è “civile”, “democratica”, “femminista” o peggio “colorata”, riguardante l’affermazione degli astratti “diritti umani” e dei volutamente fraintesi diritti delle minoranze (nozze fra gay o lesbiche, adozione di bambini da parte di coppie di travestiti e simili bestialità).

Perciò, (1) la rivoluzione edulcorata, come sopra variamente intesa, tale da non scalfire i poteri capitalistici, ma anzi, da rafforzarli, (2) la modernità conclamata, invocata come una catarsi sulla strada del progresso, e (3) il progresso idolatrato, soprattutto nella veste dello sviluppo economico a qualsiasi costo (la famigerata “crescita”), senza badare ai semplici “effetti collaterali” quali disoccupazione di massa, distruzione ambientale, invasività delle grandi opere e diffusione del nucleare insicuro, congiuntamente garantirebbero l’avanzare dell’umano genere nella storia universale. Viaggerebbero insieme sulle strade del futuro, negli spazi unificati dal libero mercato sovrano e dalle salmerie che seguono, con tanto di missili intelligenti, ong compiacenti e contractors security, ben rappresentate dalla fantastica democrazia liberale, del tutto complementare al neocapitalismo. 

Ebbene, oggi comprendiamo che non è così come la raccontano, che la falsa rivoluzione, la modernità imposta e il progresso distruttivo ci stanno spingendo, sempre di più, in un vincolo cieco dal quale sarà difficile uscire.

E’ la storia che si è incaricata ancora una volta di smentire le fiducie malriposte, di svelare gli inganni, di aprire gli occhi all’uomo, separando le espressioni Rivoluzione, modernità, progresso e consentendoci di vederle nella giusta luce, di attribuirgli oggi il significato più proprio. Il loro significato più sanguinoso, o socialmente e antropologicamente distruttivo, verrebbe da dire, se il risultato è quello che abbiamo osservato in Afghanistan, in Iraq, in Libia, e che stiamo osservando in Siria, ma anche in Grecia e in Spagna, o persino da noi, in Italia.

Si rende necessaria, giunti a questo punto, una breve disamina delle tre espressioni chiave, riportate nel titolo del saggio popolare, senza cadere nelle trappole dell’accademismo fuorviante e della citazione bibliografica logorroica.

b.      La modernità imposta

Cos’è veramente la modernità?

Possiamo pensarla come un grande spazio storico e culturale, come un evo – quello moderno, appunto – contrapposto ai precedenti: l’evo medio e il mondo antico. Il lungo trapasso dal feudalesimo a un modo di produzione protocapitalistico e tardo aristocratico ha comportato trasformazioni rilevantissime su molti piani, da quello economico a quello filosofico.

La prima globalizzazione l’hanno fatta i navigatori, gli scopritori di nuove rotte, nuove strade e nuovi continenti ricchi di risorse, fino ad allora dimenticati o impossibili da raggiungere e colonizzare. Apripista degli imperi coloniali europei e dell’accumulazione originaria che avrebbe consentito il sorgere e l’affermarsi del capitalismo, questi pionieri hanno allargato lo spazio geografico, regalando all’Europa terre da occupare, ricchezze da saccheggiare, mano d’opera schiava e opportunità impreviste. La trasformazione culturale e nel pensiero ha implicato il congedo definitivo dalla metafisica medioevale e la nascita dell’illuminismo, dello scetticismo, del contrattualismo, del positivismo, dell’idealismo filosofico. Sul piano squisitamente economico, nello spazio protocapitalistico della modernità ha imperversato il cosiddetto mercantilismo (in Germania), o cameralismo (da consigliere di camera del re), o colbertismo (da Jean Baptiste Colbert, potente consigliere di camera e ministro, nel mille e seicento, di Luigi XIV), fondato su una concezione dinamica della ricchezza legata agli scambi commerciali e basata sulla pratica del protezionismo, per trattenere risorse umane, professionali e materiali sul proprio territorio a scapito delle potenze concorrenti. All’unificazione del mercato nazionale, con l’abbattimento delle barriere interne, agevolando il sorgere e il consolidarsi di potenti monarchie nazionali, ha corrisposto verso l’esterno la protezione delle produzioni nazionali nell’esaltazione degli attivi delle bilance commerciali. J. B. Colbert in Francia e Oliviero Cromwell in Inghilterra, in quanto mercantilisti e protezionisti, erano grossomodo sulla stessa “lunghezza d’onda”. Poi è arrivato il modo di produzione capitalistico, ma non come un fulmine a ciel sereno negli ultimi secoli del secondo millennio, bensì come conseguenza del lungo passaggio dal feudalesimo a qualcos’altro, simboleggiato in prima battuta dal mondo protoborghese e tardo aristocratico che è durato oltre due secoli e mezzo.

La modernità capitalistica, di conseguenza, affonda le sue radici, economiche, sociali, culturali, nel ricordato interregno, e consolidandosi il capitalismo come modo di produzione dominate sono scomparsi a uno a uno i residui aristocratico-medioevali sopravvissuti nell’epoca mercantilista. Al protezionismo originario, inoltre, si è sostituita nei decenni la dismisura capitalistica, che fin dall’inizio a teso al massimo allargamento dei mercati, varcando confini materiali e psicologici. Con l’avvento del primo capitalismo, emendato nel corso dei due secoli successivi nelle trasformazioni di fase dovute alle grandi crisi depressive di fine ottocento e del ventinove, la modernità è diventata irreversibile, come un dato ormai acquisito che può essere rimosso soltanto rimuovendo il capitalismo. Infatti, la vera e più profonda natura della tanto celebrata modernità – che altrimenti rischierebbe di restare indefinita – è intimamente connessa al capitalismo stesso.

Volendo porgere una definizione sintetica ma corretta di modernità, non ci si può che riferire all’elemento strutturale cardine del capitalismo, che è rappresentato, secondo l’insuperata analisi marxiana, dai rapporti di produzione instaurati fra gli uomini, soggetti al dominio del capitale.

Se il capitale è in primo luogo un rapporto sociale caratterizzante un’era della storia universale dell’uomo, la modernità scaturisce direttamente da questo rapporto sociale, e con lui si afferma. Quindi la modernità non è che un altro nome, forse più fascinoso, più capzioso, sicuramente mimetico e più “digeribile”, che si da al rapporto sociale (di produzione) capitalistico indagato una prima volta da Marx. La modernità è il capitalismo, si potrebbe affermare in base alla definizione proposta, e senza l’imposizione di quel particolare rapporto sociale, storicamente determinato e delimitato, non può sopravvivere. La conseguenza logica da trarre è che gli anticapitalisti veri sono necessariamente antimoderni.

In coda a questo specifico discorso, potremmo porci un’altra domanda: cos’è la postmodernità?

Coerentemente con la definizione di modernità proposta, la postmodernità non è una chimera nata con il superamento dialettico delle due principali contraddizioni capitalistiche – la lotta di classe proletaria, la coscienza infelice e critica borghese – ma l’altro nome che si da al rapporto sociale neocapitalistico, identificando nel nuovo capitalismo finanziarizzato del terzo millennio, oggi dominante, non già una semplice fase del capitalismo che si trasforma per riprodursi, ma un nuovo e peculiare modo storico di produzione. Un modo di produzione ultimo che va oltre la produzione del capitale di Marx  e che è dotato di una sua specifica classe dominante postborghese, quella globale. Un nuovo capitalismo con elementi strutturali diversi da quelli originari marxiani (ideologia legittimante, costruzione dell’uomo precario, creazione finanziaria del valore, crisi strutturale perpetua), eccezion fatta per i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive.

c.      Il progresso ideologico, messianico e distruttivo

Se non ci fosse stata l’unificazione della storia umana nella storia universale di tutto il genere umano, non avrebbe potuto diffondersi la fiducia nel progresso dell’umanità, o meglio, l’ideologia borghese-capitalistica del progresso. Quando il progresso diventa ideologia, originando dall’affermazione della scienza modernamente intesa, assume una funzione ben precisa, che è quella di legittimare il sistema di potere vigente, di assicurare la ripetizione all’infinito dei cicli di accumulazione/ realizzazione capitalistici, di sostenere l’ordine sociale capitalistico, di includere negli immaginari sistemici masse sempre più grandi di popolazione, per imbrigliarle definitivamente e assicurare la riproduzione allargata. Quindi il progresso ha rappresentato un elemento ideologico importante, nato dalla cultura borghese, ma anche una distorsione dell’idea della scienza, anch’essa borghese, con la diffusione dello scientismo. Lo scientismo è l’esatto contrario della razionalità scientifica tanto osannata, trattandosi di pura fede messianica nello sviluppo scientifico, che diventa così l’unica divinità (per quanto laica, trasposta su un piano orizzontale) in grado di assicurare un costante progresso all’umanità. Aspetti ideologici e messianici, oltreché freddamente scientifici, e un’origine squisitamente borghese, hanno caratterizzato la fiducia nel progresso di masse sempre più grandi di popolazione, nei contesti culturali e sociali del capitalismo del secondo millennio.

Ma il progresso capitalistico sottende necessariamente la tensione verso uno sviluppo economico illimitato, la dismisura produttiva nel consumo frenetico delle risorse naturali, l’inquinamento giustificato dalle necessità della produzione, rivelandosi concretamente distruttivo, dal punto di vista ambientale ed ecosistemico, al punto di costituire un pericolo per la sopravvivenza umana e per quella d'innumere specie viventi. Il progresso capitalistico, data la mancanza di misura insita nel capitalismo che l'ha generato come ideologia e addirittura come fede acritica, non può che accentuare l’impronta antropica sul pianeta e mettere in discussione le possibilità future di sopravvivenza della specie. Dismisura, illimitatezza, frenesia espansiva delle produzioni e commercio sulle lunghe distanze, si sposano con il peggior cartesianesimo, che trasforma l’ecosistema in “capitale naturale”, propaganda truffaldinamente uno “sviluppo sostenibile”, diffonde la credenza che sarà lo stesso avanzamento scientifico a risolvere il problema della ricostituzione delle risorse naturali, purificando l’aria e le acque. Le potenzialità distruttive presenti nell’idea di progresso, modernamente e capitalisticamente affermatasi nei passati due secoli, sono ormai evidenti a tutti.

Se poi si trasferisce l’espressione progresso su un piano squisitamente politico, si nota che le cosiddette “forze progressiste” – canonicamente identificate con la sinistra – sono i migliori e più accaniti “sponsor” del rapporto sociale capitalistico, e lavorano incessantemente (ma non potrebbe essere diversamente) per la riproduzione sistemica e la difesa del modo di produzione imperante, nonostante i costi sociali e ambientali che tutti dobbiamo pagare. E’ persino scontato che un autentico anticapitalista non può che essere antiprogressista, implacabile nemico di una sinistra, come l’attuale – liberal, social-liberale, libertaria, riformatrice, falsamente ecologista, occidentale, europeista – che rappresenta il miglior servitore politico delle Aristocrazie neocapitalistiche.

A differenza del capitalismo del secondo millennio – che ha dispiegato le sue ali da Ricardo fino a Keynes e oltre, attraverso la critica rivoluzionaria di Marx, che è passato dallo sfruttamento intensivo dei lavoratori della prima rivoluzione industriale ai trenta gloriosi anni d’emancipazione di massa, nel secondo dopoguerra – il neocapitalismo finanziarizzato non ha più una gran necessità del supporto ideologico (o messianico) assicurato dal progresso di origine borghese. Questo capitalismo ha mostrato di funzionare benissimo senza la borghesia, producendo una classe dirigente spietata, senza patria, senza etica e senza scrupoli: la Global class. Inoltre, non ha più bisogno, per sostenersi e regnare, di includere il maggior numero possibile di produttori/ consumatori nei suoi immaginari e nelle sue fabbriche, o di un numeroso ceto medio in funzione di “cuscinetto di classe”. Il nuovo capitalismo si basa sul terribile binomio precarietà/ esclusione che in alcun modo può prospettare, alle masse flessibilizzate, precarizzate e addirittura rischiavizzate, momenti futuri sempre e comunque migliori di quelli passati. L’idolo del progresso è ancora in vita, talora qualcuno lo rispolvera, ma alle “aspettative crescenti” di massa dello scorso secolo si sono ormai sostituite quelle decrescenti, che implicano l’attesa nella paura di continui peggioramenti futuri (nonostante l’avanzamento scientifico). La funzione ideologica del progresso, di supporto al modo di produzione prevalente, riguarda minoranze sempre più ristrette, non ancora depauperate, ancora utili alla creazione del valore finanziario, azionario e borsistico, non più le consistenti maggioranze, oggi culturalmente e socialmente disintegrate, che subiscono in pieno le dinamiche neocapitalistiche.

d.      La falsa rivoluzione e la Rivoluzione

Prescindendo dalle rivoluzioni di natura scientifica, o semplicemente nel campo della moda, della voga, del costume superficialmente inteso, le false rivoluzioni, come quelle “colorate” che hanno riguardato molti paesi, dall’Ucraina alla Tailandia, sotto l’apparenza trasformativa, liberatoria, “democratica”, favoriscono la penetrazione neocapitalista e globalista in aree del mondo ancora completamente da soggiogare. I loro potenti sostenitori sono le Aristocrazie finanziarie interessate a controllare popoli, terre e materie prime. I colori che le contraddistinguono (giallo, verde, viola, eccetera) sono l’odioso multicromatismo dell’imbroglio neocapitalistico, che spinge parte delle masse a lottare, in ultima istanza, non certo per la loro libertà e autodeterminazione come forse sono indotte a credere, ma per il grande capitale finanziario, per il mercato, per la moltiplicazione delle opportunità offerte agli investitori. Si lotta ovunque, cadendo in queste trappole, per la “società aperta di mercato”, per la “democratizzazione” su modello occidentale, evocando tragiche sciocchezze e astrazioni come i “diritti umani”, o i diritti intangibili di gay e lesbiche in ossequio alla disgregante eccezione familiare, o le “pari opportunità” formali (spesso esclusivamente formali) per le donne, o addirittura contro le banche, come i patetici indignados, scagliandosi contro le strutture fisiche, gli sportelli, le porte blindate, i muri, e non contro il potere effettivo che le utilizza a sua discrezione, restando in ombra e ridendosela. La falsa rivoluzione, non di rado pacifica nel solco del pacifismo strumentale che fa bene solo al potere, si armonizza con la modernità imposta e il progresso distruttivo, chiudendo il cerchio della dominazione neocapitalistica.

La Rivoluzione, invece, è ben altra faccenda.

In termini molto semplici, riferita a quell’unità di resistenza anticapitalista che è l’uomo, la Rivoluzione rappresenta la più alta assunzione di responsabilità storica e politica del singolo, che riconosce il nemico principale da combattere, riconosce la società – non armonica, non unificata, non coesa (secondo la fola della “coesione sociale”), ma irrimediabilmente spaccata al suo interno – quale sede del Conflitto sociale e di classe, e animato da un’ideologia di legittimazione antagonista partecipa alla Guerra Sociale di Liberazione, per l’instaurazione del nuovo ordine. Il Rivoluzionario sa bene che non sono possibili vere mediazioni con il potere vigente, che nessun riformismo possibile potrà consentirgli di conseguire gli obiettivi che si è posto, e che la controviolenza rivoluzionaria spesso rappresenta l’unica strada praticabile per la liberazione. Se compromessi o rinunce sono possibili, ciò avviene per scambiare prigionieri, salvandola vita a compagni di lotta, per evitare troppe sofferenze a una popolazione provata, per limitare le distruzioni materiali in previsione di dover ricostruire o davanti a forze nemiche ancora salde e in grado di combattere. La frattura fra presente e passato, in un clima rivoluzionario, è netta, una linea di faglia oltre la quale c’è il futuro, simboleggiato da una terra ancora incognita ma finalmente raggiungibile, così come è netta la frattura fra Il Rivoluzionario e il sostenitore dell’“ancien régime“, o il mercenario che difende i poteri costituiti per il soldo e i privilegi.

In termini più generali, posso soltanto ripetere con qualche variazione sul tema la definizione che ho dato della Rivoluzione, quale fenomeno politico e sociale di primaria importanza, in altri saggi e scritti. Tre sono gli elementi essenziali che la caratterizzano. a) La maturazione dei tempi e la profondità storica del percorso di cambiamento radicale che sfocia nell’evento rivoluzionario. b) La coscienza dei Rivoluzionari e soprattutto delle élite che li guidano, aspetto coscienziale forte che distingue nettamente I Rivoluzionari dalle masse dominate. c) L’ideologia di legittimazione rivoluzionaria (i movimenti spontanei, a-ideologici e simili sono da considerarsi, al più, protorivoluzionari), che deve poggiare su solide basi teorico-filosofiche e permettere la formazione sul campo di programmi politici immediatamente applicabili. A ciò aggiungo, leninisticamente, un lavoro organizzativo incessante che consente di basare l’azione rivoluzionaria non su fortunosi eventi imprevisti, di grande impatto politico e sociale, che possono improvvisamente far scattare la scintilla e facilitare la mobilitazione contro il sistema, ma su una lunga preparazione teorica e pratica (anche di natura militare), tale da consentire alle forze rivoluzionarie di non farsi cogliere impreparate all’appuntamento con la storia.

e.      Nota di chiusura

Se quanto affermato nel presente saggio è vero – e lo è sicuramente – se valgono le definizioni fin qui presentate e il conseguente disvelamento dell’uso distorto e propagandistico che il sistema fa delle espressioni modernità, progresso, Rivoluzione, allora gli anticapitalisti non possono che essere rivoluzionari antimoderni e antiprogressisti. Saranno così I Rivoluzionari del futuro, in Italia, in Europa e in tutto l’occidente? La Rivoluzione andrà nel senso del superamento definitivo del capitalismo – giunto al suo ultimo stadio evolutivo e al massimo dispiegamento della sua potenza – e segnerà la fine della modernità, prodotto del capitalismo stesso e suo mascheramento, nonché la morte del progresso illimitato, ideologico, messianico, distruttivo, figlio primogenito delle dinamiche del capitale?

Come sempre, alla storia spetta la risposta.