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L’«Ora» è il momento della verità, in cui si compie ciò a cui siamo stati destinati

di Francesco Lamendola - 18/08/2013


Arriva per tutti il momento della verità: l’Ora in cui si compie ciò per cui siamo stati destinati, e che noi possiamo accogliere o rifiutare – perché l’Ora, di solito, si presenta come un passaggio difficile, non privo di sofferenza, che rompe drasticamente con il nostro essere di prima – anche se ne è, in un senso più profondo, il reale compimento e perfezionamento.

Tutto questo presuppone che si creda nella profonda serietà della vita; che si creda in un destino, in una vocazione, in un compito da svolgere e per il quale valga la pena d’impegnarsi con la propria parte migliore, la più generosa, la più energica, la più leale.

Certo, per le persone opportuniste, ambigue, doppiogiochiste, l’Ora non arriva mai, per il semplice fatto che esse non hanno alcuna missione da compiere, alcun destino da realizzare; o, se pure l’avrebbero, non lo hanno mai ascoltato, non lo hanno mai compreso, né si sono mai poste con serietà davanti all’orizzonte della propria vita.

La chiamata, senza dubbio, è per tutti, ma in pratica non tutti hanno orecchi per udirla e occhi per vederla; la maggioranza degli uomini preferisce fare finta di niente  e, se per caso la scorgono o ne odono il debole richiamo, preferiscono pensare che si sia trattato di una illusione, di un inganno, e girarsi dall’altra parte con un’alzata di spalle.

La chiamata è fatta di segni, di segni che vanno riconosciuti e decodificati; ma, per entrare in possesso della chiave giusta, bisogna essersi allenati con se stessi, bisogna aver imparato a camminare da soli e a cadere, a rialzarsi, a proseguire la strada, sempre cercando la verità, senza indulgere a compromessi e senza cadere nell’autocommiserazione, quando si è stanchi e il velo dello scoraggiamento scende come un sudario sulle speranze più care.

Se si pensa che la vita sia il frutto del caso; che il mondo non abbia alcun senso; che sia indifferente quel che facciamo e come lo facciamo, allora è inutile parlare di segni e pensare alla chiamata: è come se si fosse murati in se stessi, come se si avesse deciso di lasciarsi vivere per forza d’inerzia: senza entusiasmo, senza bellezza, senza luce.

Solo se si pensa che ogni cosa abbia un significato e che tutto sia ordinato al Bene, solo allora ci si può aprire alla dimensione della Grazia e rendersi disponibili ad accogliere il senso della propria missione; senso che si chiarisce mano a mano che si impara a leggere in se stessi e a divenire ciò per cui si è stati chiamati, cioè persone libere e consapevoli e non semplici dati biologici.

Tale chiarificazione può giungere anche in maniera drammatica, nella forma di un drastico aut-aut: come quando, in sogno, si giunge ad un bivio e bisogna decidere quale strada imboccare, intuendo in un attimo, misteriosamente, che quella scelta sarà carica di conseguenze e che, se si farà quella sbagliata, porvi rimedio potrebbe rivelarsi la cosa più difficile.

Il prototipo dell’Ora è quella vissuta da Gesù Cristo nell’Orto degli ulivi la notte in cui fu arrestato, dopo aver celebrato l’ultima cena con i suoi apostoli.

Contro il riverbero rosso del tramonto, circondato dai tronchi contorti come anime in pena, egli si trovò solo, solo come mai si era sentito: perfino i tre discepoli più fidati - Pietro, Giacomo e Giovanni -, che aveva pregato di vegliare in preghiera con lui, si erano addormentati, vinti da una indicibile tristezza. In quel momento il suo animo era stato quasi sopraffatto da un senso di orrore e, mentre sudava gocce di sangue, aveva supplicato il Padre di allontanare da lui il calice della sofferenza, se possibile; tuttavia, aveva soggiunto, egli era pronto a fare non la propria volontà, ma la sua. Allora un Angelo era sceso dal Cielo a confortarlo, così come degli Angeli erano scesi a servirlo quando, ritiratosi nel deserto a digiunare prima dell’inizio della sua missione pubblica, era stato tentato dal Demonio e aveva respinto vittoriosamente le sue seduzioni.

Ha scritto Carlo De Ambrogio a questo proposito (da: C. De Ambrogio, «Teologia del Vangelo di S. Giovanni», Rosta, Centro Mater Divinae Gratiae, 1971, pp. 89-91):

 

«Nel quarto Vangelo “l’Ora di qualcuno” è il tempo in cui quel qualcuno compie l’opera a cui era particolarmente destinato. L’ora della donna che sta per diventare madre, è quella del suo dare alla luce (16,21). L’ora dei Giudei increduli è il tempo in cui Dio lascia loro la possibilità di perpetrare il loro delitto (16, 3-4). L’Ora di Gesù è il momento in cui si realizza definitivamente l’opera per cui Gesù è stato inviato in questo mondo, cioè la vittoria su Satana, sul peccato, sulla morte ( cfr. 12, 23-24; 27, 31-32).

Il fatto di quest’ora rappresenta agli occhi dell’evangelista un dato di prim’ordine: “È venuta l’ora in ci il Figlio dell’uomo deve essere glorificato… Adesso l’anima mia è turbata. E che devo dire? Padre, salvami da quest’ora?  A proprio per questo sono venuta a quest’Ora! Padre, glorifica il tuo Nome (12, 23, 27). “Prima della festa di Pasqua – leggiamo ancora – Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino all’estremo (13,1). E, all’inizio della preghiera sacerdotale: “Padre, l’Ora è venuta: glorifica tuo Figlio, perché tuo Figlio glorifichi te” (17,1). A questo punto incomincia la Passione e finisce la vita pubblica.

L’Ora inevitabile, per la quale Gesù era venuto, gli era costantemente presente. Finché la sua Ora non è giunta, i suoi avversari non hanno alcun potere su di lui. Quando cercano di afferrarlo, nessuno osa arrestarlo (7,30; 8,20); e tuttavia ogni volta che i Giudei rivelano le loro intenzioni omicide (5,18; 7,1;19, 25; 7, 37-40; 11,53) si ha l’impressione di trovarsi di fronte a brevi ritardi.

Ma proprio perché si confonde con quella della sua elevazione, l’Ora di Gesù segna in anticipo, come se già vi si fosse, il momento in cui tutte le sue opere saranno definitivamente compiute e realizzate: “In verità, in verità vi dico – l’Ora viene e già ci siamo – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno udita vivranno “ (5,25). “L’Ora viene in cui tutti quelli che giacciono nella tomba usciranno all’appello della sua voce; coloro che hanno fatto il bene risorgeranno per la vita; coloro che hanno fatto il male per la dannazione” (5,28 ss.). Si può accostare a 4,23: “Ma viene l’ora – ed è già adesso – in cui i genuini adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità”.

Rimane l’episodio di Cana, dove Gesù, alla madre che gli chiede un miracolo, risponde: “La mia ora non è ancora venuta”. Secondo Sant’Agostino, l’Ora di Cana indica la “grande Ora”da cui Cristo non distoglieva mai il pensiero. […]

A dir la verità, il momento della sua grande manifestazione di fronte al mondo verrà alla sua Ora.  Prima, corre il tempo in cui deve limitarsi alla sua opera, nelle condizioni determinate dal Padre. Nulla è lasciato al caso: sulla via che gli è tracciata il Cristo non deve bruciare le tappe per raggiungere lo scopo, all’Ora prevista. Giungerà così in fretta che non mettendo a profitto la sua presenza quando è ancor tempo, i Giudei corono il rischio di cercarlo senza trovarlo: “La luce è ancora per poco tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre” (12,35). Quanto a lui, adesso che la sua Ora è venuta (12,23), la sua anima è turbata (12,27), non tanto per il timore della sofferenza, quanto per la specie di sacro terrore di fronte allo scatenarsi del male satanico che sta per affrontare. È un’agonia simile a quella del Getsemani. Ma mentre la preghiera dell’Orto degli ulivi lascia aperta la possibilità che l’Ora temibile gli venga risparmiata, in Giovanni 12,27, essendo l’Ora arrivata, la supplica “Salvami da questa Ora” non può avere come oggetto che il risultato del terribile combattimento nel quale il Salvatore è impegnato: per quest’Ora è venuto. Non chiede che passi lontano da lui; ma sebbene la sua anima ne sia turbata – come davanti alla tomba di Lazzaro (13,33), come all’ultima cena, davanti al tradimento di Giuda (13,21) – accetta alla fine che il nome del Padre sia glorificato (12,28). Il turbamento di Gesù fa parte del calice che il Padre gli dà da bere (18,11); è inerente all’Ora per la quale il Figlio dell’uomo deve essere glorificato (12,23).

Tutta la vita terrena del Salvatore è retta dall’Ora che non è ancora venuta, che si avvicina, che gli è presente. L’Ora verso la quale Gesù è in cammino nella consapevolezza di avere un programma da eseguire, un fine da raggiungere, una cima da scalare, è solidale con l’opera che il Padre gli ha dato da compiere (4,34; 17,4).  L’Ora del Cristo significa che la sua specifica opera deve compiersi nel tempo, che è chiamata a inserirsi nella durata storica, sulla linea tracciata dall’Incarnazione.»

 

La similitudine con la donna partoriente è molto significativa; anche se farà arrabbiare le femministe (ma a torto, perché non implica che la donna DEBBA trovare il senso della propria vita nel dare alla luce un bambino), rende bene l’idea di un destino che si compie mediante la messa a frutto delle migliori potenzialità insite nella persona umana. E rende bene anche l’idea che ciò non avviene mai in maniera indolore: la donna soffre e urla nelle doglie del parto, ma poi la sua sofferenza è dimenticata, cancellata dalla gioia ineffabile della nuova vita che è nata da lei, attraverso di lei, per mezzo di lei.

Oltre che il momento della sofferenza, l’Ora è anche il momento della solitudine: in quel momento speciale della propria vita, ciascuno è solo davanti a se stesso e nessuna presenza amica, neanche la più cara, sarà mai capace di comprendere e di lenire quella solitudine: come è accaduto, appunto, a Gesù Cristo nell’Orto degli ulivi. Si è soli davanti a se stessi perché si è messi a nudo dalla forza di ciò che sta per compiersi: il manifestarsi del proprio destino lascia cadere ogni elemento superfluo, ogni fattore secondario, ogni scoria e ogni orpello: non è più possibile barare al gioco, non è più possibile raccontarsi delle storie. È come se si fosse davanti ad uno specchio e come se, in quello specchio, ci si potesse infine riconoscere per come si è veramente: senza inganni, senza maschere, fino al centro più segreto della propria anima.

Appunto per tali caratteristiche l’Ora rappresenta il momento della verità: perché nella solitudine e nella sofferenza cadono le maschere e la nostra verità interiore emerge in tutta la sua evidenza: nella solitudine, infatti, nulla ci può distrarre da noi stessi, e nella sofferenza nulla ci può impedire di rivelarci a noi stessi per quello che siamo davvero. Se non fossimo interamente soli – soli, anche se materialmente circondati da altre persone – e se non dovessimo passare attraverso il vaglio della sofferenza, potremmo anche seguitare a recitare una parte, potremmo anche mentire ed eludere il momento della verità. E, di fatto, questo è precisamente ciò che molte persone si sforzano di fare lungo l’intero corso della loro esistenza: si preoccupano di non restare mai sole e di evitare ogni occasione di sofferenza, quasi intuissero che, in presenza di tali condizioni, la maschera cadrebbe loro dal volto e il momento della verità non potrebbe essere procrastinato ulteriormente.

Si tratta di un comportamento superficiale e infantile, perché il dilazionare all’infinito il momento della verità, il momento in cui noi ci riveliamo a noi stessi e comprendiamo se siamo pronti ad assumere su di noi il nostro destino, non serve ad altro che a rinviare il momento in cui si attua il senso della nostra vita; e non è cosa saggia né prudente rinviarlo all’infinito, perché, poi, potrebbero mancarci il tempo ed il coraggio per affrontare il passo decisivo.

Fino a quando non ci si è confrontati con la propria Ora, non si è diventati persone nel senso più perfetto della parola: si è solo degli individui che si industriano di scansare la responsabilità di essere quello che si deve essere.

Certo, in quanto creature umane, che nascono nel tempo e vivono nel tempo, la nostra Ora si compirà interamente solo nell’atto del morire; perché solo quell’atto illumina di senso la prospettiva dell’eterno, che, altrimenti, resterebbe solo un vago timore o un vago desiderio. In questo senso, una persona diviene “perfetta” passando per la porta stretta della morte: perfetta come “compiuta” e, quindi, anche come liberata dalle incertezze della contingenza.

Tuttavia, per chi abbia assunto su di sé la profonda serietà della vita e abbia dato ascolto alla voce della chiamata, l’Ora si presenta come il momento della decisione volontaria, mentre la morte non dipende da noi. Della morte, però, l’Ora ha talune caratteristiche – solitudine, sofferenza, senso di agonia -, così come, al tempo stesso, possiede talune caratteristiche della nascita: il sollievo per la decisione irrevocabilmente presa e la gioiosa consapevolezza che qualcosa di vivo sta emergendo: l’uomo nuovo, ardimentoso e sereno, che sostituisce l’uomo vecchio, pieno di dubbi e di paure…