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Integrare l’Ombra non vuol dire altro che trasfigurare l’io alla luce dell’Essere

di Francesco Lamendola - 01/09/2014

Fonte: Arianna editrice

 


 

L’integrazione della propria Ombra, cioè del lato nascosto e potenzialmente pericoloso e distruttivo della nostra personalità, sembra essere l’aspetto più originale e più durevole della psicanalisi junghiana, così diversa dalla greve, materialistica psicanalisi freudiana, dominata dall’ossessione della libido e persuasa che ogni anelito alla trascendenza da parte dell’uomo non sia che una forma di nevrosi mascherata.

Il concetto di Ombra, peraltro, ha conosciuto una significativa evoluzione nel percorso speculativo di Carl Gustav Jung. Nelle opere della prima fase, fino a «Tipi psicologici», del 1921, essa sembra indicare una realtà puramente individuale e coincide con la parte inferiore della personalità: si tratta, quindi, di un’Ombra che va letta nella chiave dell’inconscio personale. A partire dalle opere della seconda fase, da «Psicologia e alchimia», del 1944, fino a «Mysterium coniunctionis», del 1955, tale concezione si amplia, si modifica e giunge a rappresentare non più qualcosa di interno all’individuo, ma una realtà assoluta ed extra-personale, il negativo che permea l’esistenza e vi si oppone radicalmente, dunque il Male con la “m” maiuscola.

L’idea della psicologia analitica è che ciascuno dovrebbe riconoscere la propria Ombra e integrarla nella propria personalità, ossia sublimarla, accettarla e farla entrare nel circuito della propria coscienza, perché solo da una tale operazione può derivare una vera pacificazione interiore e una vera armonizzazione degli elementi che costituiscono la personalità, conscia e inconscia, sì da condurre all’instaurazione di un Sé maturo e rasserenato, che non teme di confrontarsi con la propria verità interiore e che ha saputo trasformare in elementi di creatività e di forza quelle spinte, potenzialmente dissolventi, che avrebbero potuto destabilizzare, in maniera forse irreparabile, la vita della coscienza.

Tutto questo sembra molto originale e molto saggio; vi sono, però, diciamolo subito, almeno due aspetti che vanno ulteriormente chiariti, sia in ordine all’originalità, sia quanto alla saggezza. In ordine all’originalità, ci si può domandare se davvero quella dell’Ombra, e della sua necessaria integrazione nel complesso della personalità cosciente, sia una scoperta di Jung e della sua scuola; se davvero nella tragedia greca, nelle Scritture ebraiche e cristiane, nella filosofia e nel misticismo medievali, non sia presente lo stesso concetto, espresso in altra maniera e con altro linguaggio, ma non con meno forza o minor pregnanza.

Potremmo fare innumerevoli esempi di ciò, ma ci limiteremo ad uno solo: che altro è la discesa di Giona nella pancia del mostro marino, se non un confronto con la propria Ombra; e il suo ritorno alla luce, se non la restaurazione del Sé, dopo aver integrato in esso quella parte indocile e ribelle che aveva sconvolto le acque tranquille della coscienza? La Bibbia è piena di simili vicende; come lo sono il teatro di Eschilo, di Sofocle e di Euripide; come lo sono i poemi omerici (vedi l’episodio di Ulisse che si fa legare all’albero della nave per udire il canto tentatore delle Sirene); come lo sono le opere di Virgilio, di Dante, di Shakespeare, di Goethe, per citare solo i  maggiori.

E non parliamo, poi, di Dostoevskij, il vero, il grande esploratore dell’inconscio, se mai ve n’è stato uno: in un certo senso. Si potrebbe anche dire –parafrasando il critico Belinskij, che parlava invece  del «Cappotto» di Gogol’ - che tutta la letteratura e tutta la psicologia dell’inconscio sono uscite dai suoi «Ricordi del sottosuolo»; dai suoi tormentati personaggi come Raskol’nikov, dai suoi intellettuali lacerati come Ivàn Karamazov, dai suoi ossessi rancorosi come Smerdiakov; dai suoi terribili dèmoni in forma umana, come Pëtr Verchovenskij e soprattutto Stavrogin; ma anche dai suoi uomini di Dio come lo “starec” Zosima, dai suoi aspiranti alla santità come Alioscia Karamazov, dai suoi meravigliosi e disarmanti puri di cuore, “idioti” agli occhi del mondo, come il principe Myskin.

Nell’ambito del pensiero filosofico, poi, c’è stato un altro grande, grandissimo esploratore dell’inconscio, dei suoi recessi oscuri, delle sue inquietanti potenzialità: Kierkegaard, il cavaliere solitario per eccellenza, vera e propria voce che gridava nel deserto stralunato della cultura idealistica del XIX secolo, con una tale precisione di analisi, con una tale sicurezza d’intuito, con una tale folgorante chiarezza di visione complessiva, che non possono non lasciare sbalorditi anche noi, figli e nipoti di una posteriore e più “scientifica” e smaliziata, ma non più potentemente chiarificatrice, consapevolezza psicologica.

Non si venga a dire, dunque, che la psicanalisi ha scoperto l’inconscio o che Jung ha scoperto l’Ombra: sarebbe, più o meno, come magnificare la scoperta dell’acqua calda

La seconda ragione di perplessità è più profonda e riguarda la saggezza del processo di integrazione dell’Ombra. Se quest’ultima è soltanto un elemento inconscio della psiche personale, la cosa, benché difficile, si presenta come assai seducente e potrebbe anche essere fattibile, pur restando lo scoglio costituito dalla difficoltà di integrare nella personalità cosciente qualcosa di cui non si è affatto consapevoli; ma se si tratta, come Jung finisce per convincersi che sia, di una realtà meta-individuale, addirittura atemporale; se l’Ombra è una realtà afferente la sfera dell’Inconscio collettivo, un archetipo del Male in quanto tale: ebbene, in tal caso bisogna ben dire che nessuno, neppure Ercole in persona, potrebbe riuscire nell’impresa, benché armato di tutta la sua forza e di tutto il suo coraggio.

Gira e rigira, si torna sempre lì: in una visione del mondo che parte dall’assunto che l’uomo si possa salvare da solo, che si possa redimere con le sue sole forze, che sia capace di innalzarsi al di sopra delle proprie debolezze e contraddizioni, non rimane spazio per una impresa che presuppone, appunto, la necessità di scoprire, accogliere, trasformare in sostanza vitale quegli elementi inquietanti, disordinati, potenzialmente distruttivi, che albergano in fondo all’anima umana. Su che cosa appoggiarsi, su che cosa fare perno per realizzare un simile processo, potendo contare unicamente sulle proprie risorse individuali? Il limitato e il contingente possono forse contenente e risolvere l’illimitato e il necessario? Può la creatura farsi norma a se stessa, poggiare il piede su se stessa per uscire dal buio della palude, verso la luce di una consapevolezza vittoriosa? A parole, sì: è quello che predicava lo Zarathustra di Nietzsche, allorché diceva che l’uomo deve innalzarsi al di sopra di se stesso. Bella espressione, poeticamente affascinante: ma quale contenuto di verità si può trovare in essa? Nessuno: sono frasi ad effetto, buone per la poesia, ma assolutamente prive di valore in ambito speculativo.

Resta il fatto che il problema è reale: l’Ombra esiste, si annida in ciascuno di noi; essa chiede, pertanto, di essere illuminata di essere liberata, di essere esorcizzata, trasfigurata, integrata, restituita – una volta resa accettabile e pacificata – alla piena cittadinanza interiore. Finché essa vive di una esistenza clandestina, come un passeggero salito a bordo di soppiatto e che si acquatta nella sentina della nave, nessuno, dal capitano all’ultimo mozzo, potranno essere del tutto al sicuro dai suoi eventuali colpi di testa, da una sua possibile, improvvisa irruzione in coperta, con conseguenze che potrebbero anche rivelarsi irreparabili.

Ma come fare, dunque, se una tale operazione di trasformazione alchemica trascende, per definizione e di gran lunga, le possibilità umane individuali? Restano due sole possibilità: dare la propria anima al Diavolo, oppure offrirla a Dio. La prima strada è quella di Faust, quella dell’uomo moderno, che, attraverso un uso totalitario della scienza e della tecnica, pensa di esser capace di redimersi da solo, mentre non sta facendo altro che consegnarsi, inerme e inconsapevole, in balia di forze malefiche delle quali non ha neppure la minima idea (a differenza di Faust, il capostipite, che, almeno, sapeva con chi stesse giocando la partita). La seconda strada è quella che si apre a ogni uomo onesto, una volta che abbia preso atto del vicolo cieco in cui viene a trovarsi ogni qualvolta intraprende il cammino verso la redenzione, e si trova faccia a faccia con la propria finitezza, con la propria fragilità costituzionale, con la propria impotenza dolorosa, ma anche con il proprio anelito verso la pace dell’Assoluto. È il cammino di Dante a partire dalla Selva oscura, allorché si trova il passo impedito dalle tre fiere: il cammino dell’uomo che, come Giona, riconosce il proprio errore, ammette di aver peccato d’orgoglio e chiede a Dio una seconda possibilità. Da solo, Dante sa che non può farcela; meglio: lo constata, ne fa l’amarissima esperienza; vede, anzi, di essere in pericolo mortale, e in pericolo immediato. Allora smette di contare su se stesso, deplora il proprio folle orgoglio e si affida fiduciosamente a chi solo può guidarlo a salvamento.

In ogni caso, è necessario aver coscienza del problema: rendesi conto, cioè, che l’Ombra esiste in fondo a ciascuno di noi; e che, in un mondo che tende a solleticare le forze oscure e maligne che giacciono semiaddormentate, che tende a civettare con esse, proclamando senza vergogna e senza timori che l’unica legge della vita è la ricerca del proprio piacere, e l’unico peccato il rinunciarvi, tale mancata presa di coscienza equivale alla condizione di un uomo che, indossando un vestito letteralmente imbottito di esplosivo, se ne vada in giro come niente fosse, scherzando con il fuoco e muovendosi senza prudenza e agitandosi senza controllo.

Un caso emblematico di mancata integrazione della propria Ombra è quello delineato con geniale intuizione dallo scrittore Robert Louis Stevenson nel celeberrimo racconto «Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde», apparso nel 1886 (cioè appena tre anni dopo quello che è generalmente ritenuto uno dei capolavori assoluti della letteratura giovanile, «L’isola del tesoro») e subito salutato come una delle testimonianze più significative del mistero che si cela nell’anima dell’uomo, e specialmente in quella dell’uomo moderno, a dispetto delle positivistiche certezze di cui il secolo andava tanto orgoglioso.

Riportiamo le riflessioni svolte da uno studioso della psicologia junghiana, Mario Trevi, a proposito dell’ipotesi di un Jekyll felice, in quanto liberato dall’”errore” di non aver saputo integrare la propria Ombra, dopo averla riconosciuta (dalla «Introduzione» a R. L. Stevenson, «Il dottor Jekyll e Mr. Hyde», traduzione dall’inglese di Barbara Lanati, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 13-16):

 

«Se la psicologia allegorica di Jung è la più adatta – ma non per questo la sola – a interpretare l’allegoria letteraria di Stevenson è perché – come l’autore lascia intendere – ognuno di noi è un Dr. Jekyll e come tale esposto all’eventualità della tragedia dello stimato scienziato londinese. È giunto anche il momento di chiederci per quale ragione la maggior parte degli uomini non finisce sul patibolo oppure suicida.

Sarebbe stato invero un autentico suicidio letterario quello di un “Dr. Jekyll” a lieto fine, e il buon gusto di Stevenson non lo avrebbe mai permesso. Ma a noi spetta in ogni caso chiederci se i rapporti con l’Ombra possano avere un destino diverso da quello – a suo modo legittimo – narrato nel racconto vittoriano più letto nel mondo. Jung risponderebbe positivamente anche se affiderebbe la soluzione felice a un compito intrapsichico  così arduo e laborioso che solo a pochi riesce in modo  completo e perfetto.

La prima operazione (psichica e non ancora chimica) di Jekyll è giusta: l’agnizione dell’Ombra, il riconoscimento delle proprie parti moralmente negative, forse tanto infantili quanto perverse. La seconda operazione di Jekyll è tragicamente erronea: “[…] disgiunse in me quelle due zone del bene e del male la cui fusione costituisce l’aspetto duplice della natura umana”. È questa operazione (ancor essa psichica ancor prima che chimica) che Jung avrebbe chiamato in vario modo ma che noi possiamo denominare SEPARAZIONE E RIFIUTO DELL’OMBRA. L’Ombra non va rifiutata perché ogni ripudio di essa comporta un impoverimento della personalità che potrebbe poi dover esser  amaramente pagato per tutta la vita. Ma l’Ombra, in quanto personalità secondaria, non neppure resa autonoma,, scissa dall’Io che ne sopporta il peso. (Ed è proprio che finisce per fare il Dr. Jekyll, mandando in giro Mr. Hyde in cerca di quei piaceri e di quelle efferatezze che la sua rispettabilità borghese non gli permetterebbe.)

L’Ombra deve rimanere legata all’Io mediante un sottile e inarrestabile rapporto dialogico. Soltanto questo dialogo ininterrotto può fare dell’Io e della “sua” Ombra un’unità dialettica nuova. Solo questa relazione – che dà spessore alla personalità – è in grado di spingere l’individuo verso la sua meta destinale profonda.  Il rapporto con l’Ombra è il nucleo germinale di quel processo  - peraltro mai terminabile ò per cui tutte le parti della personalità si collegano e si armonizzano in una totalità organica dotata di senso.  Così come si armonizzano tutte le parti temporalmente disgiunte di un destino altrimenti confuso e contraddittorio.

L’integrazione dell’Ombra (e “integrare” vuol dire prima di tutto ospitare un’entità parzialmente autonoma – e necessariamente trasformabile per naturale processo adattativo – in una totalità composita ma a suo modo unitaria) è la massima preoccupazione di Jung, almeno dalla metà della sua errabonda e divagante ricerca scientifica in poi. Ogni psicologo si OCCUPA in fondo soltanto del problema che lo PREOCCUPA di più. Possiamo – senza malignità alcuna – supporre che l’Ombra di Jung possa essere stata, almeno all’inizio del cammino scientifico e spirituale dello psicologo svizzero, tanto corposa e orrori fica quanto Mr. Hyde.

In ogni caso si trattò di una “felix culpa” perché spinse un oscuro psichiatra zurighese a concepire la metafora più promettente e inquietante circa la dinamica della vita psichica sul versante inevitabilmente etico che la riguarda: l’uomo che colloca al suo giusto posto, nel cosmo della personalità totale, la sua Ombra, non solo evita il rischio dell’autonomizzazione delle parti inferiori del suo essere, ma trasforma un peso altrimenti insopportabile in pungolo efficacissimo che sospinge la personalità stessa verso il suo compimento, unico fine terreno dell’uomo. Spunti tanto abbaglianti quanto criptici di questo processo sono rintracciabili in Kierkegaard.

Il maestro mai rinnegato di Jung, il medico viennese che più ha influenzato con le sue idee il nostro secolo, diede del problema dell’Ombra una soluzione nello stesso tempo biblica e vittoriana. L’Ombra va “bonificata” come uno Zuiderzee interiore. In tal modo deve scomparire senza equivoci e senza residui. “Là dov’era l’Es dovrà subentrare l’Io”. Indubbiamente questa “bonifica” può condurre a essere perfetti come angeli (e forse, come essi, senza spessore), ma può condurre anche in direzione della tragedia del Dr. Jekyll.

Jung, nutrito di problematicismo jamesiano e di duttili arzigogoli ermetici, è più ottimista del suo maestro. Certo, l’integrazione dell’Ombra è difficile, ma non impossibile. È un compito personale per cui non si danno regole. Ognuno di noi deve scoprire qual è quel luogo della sua anima dove l’Ombra (in ogni caso mai espunta o “bonificata”) può convertirsi da peso in stimolo, da ostacolo in motore segreto di tutta la vita psichica, da prigione immobilizzante in varco liberatorio.»

 

D’accordo: l’idea di “bonificare” l’Ombra era un’idea tipicamente vittoriana (nel senso non positivo del termine), degna di quel teista apostata di Freud, che volle sostituire il Super-Io al vecchio Dio mosaico, da lui proclamato frutto d’illusione e di malattia; ma anche l’idea della sua “integrazione” è seducente solo in teoria, visto che essa richiede forze superiori alle umane, e tuttavia Jung sembra convinto che la si possa intraprendere con ragionevoli prospettive di successo.

Mario Trevi, almeno – come abbiamo visto - riconosce l’estrema difficoltà di una simile impresa; riconosce che non è cosa alla portata di chiunque, e che solo un’aristocrazia di superuomini – questo è il concetto, anche se non viene da lui adoperato – potrebbe accingersi ad una così titanica operazione.

Possibile che si ritorni sempre al vecchio Zarathustra, come se il suo fallimento non fosse ormai apparso evidente, e non da ieri, a chiunque abbia la voglia e l’onestà di guardarlo dritto in faccia, senza tanto girarci attorno con sofisticherie dialettiche e con ricami e merletti verbali? Se Dio è morto, Zarathustra è imploso nel proprio corto circuito mentale – lo aveva già notato, circa mezzo secolo fa, il buon vecchio Julius Evola -: il corto circuito della mente finita che vuole slanciarsi a catturare l’infinito, della volontà tesa come una corda per sottomettere se stessa e nello stesso tempo per trascendersi, ma potendo e volendo contare unicamente su se stessa.

Non sarebbe ora di prenderne atto?

Non sarebbe ora di ripartire da una tale, onesta constatazione, invece di spacciare ricette ormai logore e fallimentari per gli ultimi ritrovati dell’intelligenza umana?

Integrare l’Ombra non vuol dire altro, se vogliamo dir le cose come stanno, che trasfigurare l’Io alla luce dell’Essere: il che si può fare solo a patto che la creatura si riconosca tale; solo a patto che l’uomo la smetta di delirare sulla propria autosufficienza e si riconosca piccolo e bisognoso di aiuto.