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La bufala Marcuse

di Lorenzo Vitelli - 05/01/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Buona parte degli intellettuali sessantottini, abbandonando al suo destino il proletariato, si sono resi alla teoria della società dei consumi. A ben vedere, se questa condizione rappresentasse la realtà, se si potesse consumare ciò che si produce, il sogno marxiano sarebbe avverato. Ma lungi dall'essere un modello socialista il nostro capitalismo agonistico è strutturato secondo una precisa gerarchia di accesso al consumo. Il fenomeno dei Rich Kids e l'ostentazione della ricchezza, con il recesso del pudore e della riservatezza nell'era della mediatizzazione totale, fanno cadere l'utopico e accomodante ugualitarismo della società dei consumi.

  

La grande truffa che Marcuse e la sua progenie intellettuale hanno smerciato in forma “ribelle” al pensiero Occidentale è un semplicismo accomodante. La scuola di Francoforte, con lo slogan “il proletariato si è svenduto per un piatto di lenticchie”, ha abbandonando la causa operaia. Troppo borghese per un certo intellettualismo, la classe diseredata, piuttosto che perseguire la lotto ha preferito emanciparsi compromettendosi col padronato. Anni di rivendicazioni salariali e lotte sindacali per entrare nella società dei consumi senza ribaltare l’ordine costituito. Così Marcuse ha liquidato il proletariato traditore. Ma, se così fosse, chi potrebbe essere più felice di quel borghese di Marx? Non era proprio il filosofo di Treviri a sognare l’abolizione delle classi all’interno di una società garante indistintamente dell’accesso al consumo? Eppure la nostra è una società capitalistica. Come giustifica, Marcuse, questa contraddizione? Il fatto che tutti possano acquistare un Iphone o un’automobile non è sufficiente ad abolire le disuguaglianze.

Fu Michel Clouscard, negli anni Settanta, a sanare l’errore del francofortese, mettendo sugli attenti, tra le pagine dell’Humanité – quando ancora quel giornale valeva qualcosa – i militanti del Pcf: vige una gerarchia di accesso al consumo, perché i beni non si equivalgono. La lavatrice, il frigorifero, l’automobile sono beni di equipaggiamento, dediti a riprodurre la forza lavoro dell’operaio. Così come oggi lo sono l’Iphone, il computer, il nuovo tablet, strumenti che da un lato rinnovano e dall’altro si rendono funzionali al lavoro dell’impiegato. Ma né l’operaio né l’impiegato hanno intenzione di consumare, o almeno non consumano gli oggetti in modo libidinale o ludico. Con ciò, il nostro presente ci obbliga a scrostare questi sedimenti marcusiani per farci confrontare con la realtà: il diverso grado che la società riserva agli individui di consumare senza produrre. Questa scala è recentemente resa pubblica sui social network. Tramite il mondo dei social la struttura verticale e gerarchica di accesso al consumo sembra ristabilirsi svelando l’ipocrita velo di maya che per un trentennio ha illuso chi sperava nella società dell’uguaglianza. Il definitivo collasso della riservatezza puritana, dell’influenza cattolica sulle giovani generazioni, mostrano che la civiltà dei consumi (esente dalla produzione) è una verità per una percentuale bassissima della popolazione, cui è permesso il rito che Clouscard chiama “potlach del plus valore”: lo spreco di valore aggiunto prodotto da altri. Il fenomeno dei Rich Kids su Instagram non è che uno svelamento. Da Beverly Hills fino a Mosca l’ostentazione è una moda anche per le élites dell’ex nomenklatura sovietica che dopo 70 anni di unione hanno liberalizzato lo champagne e le prostitute oltre le quattro mura domestiche e fuori dai vetri oscurati delle Zil. Ovunque – persino a Teheran, prima che, in nome della decenza comune, il link fu bloccato – i figli delle élites promuovono sfacciatamente la vita lussuosa e lo sperpero di denaro.

C’è chi si scandalizza ed “è sempre banale” (direbbe Pasolini), e chi brama una simile ricchezza, ma il risultato dei social come mediatori tra lo stile di vita dei vertici e le ambizioni della base popolare è il nuovo motore della Storia. Insegna a chi non può praticare il potlach incessantemente che la sottomissione in luogo di produzione permette uno spazio temporale limitato di libertà in luogo di consumo. C’è chi lavora ininterrottamente un anno per fare il miliardario cinque giorni ad agosto in un isola dello sballo. La temporalità della vita viene scandita secondo un ritmo preciso che ad oggi è un brano musicale e uno slogan stampato sulle t-shirt all’ultimo grido: “work hard, party harder”. Più ti sottometti, più sei libero.