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Pulcinella, rivoluzionario inconsapevole

di Lorenzo Vitelli - 12/10/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


“Abbiamo fatto l’Europa, ora dobbiamo fare gli europei!”. Forse qualcuno, a Bruxelles, parafrasando Massimo D’Azeglio, esclamò così dopo la firma del Trattato di Maastricht. E se ancora quel qualcuno si domandò da che parte cominciare in questa impresa, non poté che guardare alla Germania. è già feudale la Germania, sono già medievali, i tedeschi! L’Europa fa al caso loro. E l’Italia? Doppio lavoro, in terra italica, dove ancora s’hanno da fare gli italiani. E poi si sa, le aspirazioni germaniche, qui da noi, dai tempi dei Visigoti, degli Ostrogoti e dei Longobardi, poi ancora del Sacro Romano Impero, hanno avuto vita breve. Si direbbe che la trascendenza tedesca, quell’idealismo che permette di delegare allo Stato la vita del singolo, non attecchisca nella nostra penisola. Non è narcisismo geografico, come è il caso degli inglesi, né avarizia identitaria (pretesa francese), quanto piuttosto una innata propensione a fregarcene dell’immateriale, dell’ideale, del futuro, anche a breve termine, che ci trattiene dall’appaltare la nostra sovranità all’Europa.

E infatti sono 73 gli eurodeputati italiani che siedono a Bruxelles, divisi tra democratici, liberali, riformisti, euroscettici e socialisti pronti a farsi la guerra e forti del primato di assenteismo e inefficienza. Come farà l’Italia a farsi Europa? Neanche quel commissariamento mascherato da Governo Tecnico e guidato da Mario Monti, riuscì a stabilizzare il Paese, pur agitando lo spauracchio dello spread. Ma cos’era lo spread? Niente di più che una banale superstizione straniera. Così il menefreghismo per ciò che riguarda questioni altre rispetto alle necessità quotidiane che si riassumono, per l’italiano, nel motto “tengo famiglia”, non ci rende certo dei rivoluzionari, ma almeno degli indisciplinati seccatori dalle attitudini un po’ trash. Come il Berlusca che diede del kapò a Schultz, in aula a Strasburgo. Ma molestie a parte, se da 150 anni ad oggi il nostro Stato, sia pure con quel picco erotico che fu il Fascimo, non è riuscito a fare gli italiani, figuriamoci se un’entità astratta come la Commissione europea a Bruxelles, che si manifesta sotto forma di normativa, per altro inopportuna – è il caso del divieto di pesca delle vongole di dimensioni inferiori a 25 millimetri (sic!) – risolverà questa impasse. Non ci stupiamo, quindi, di essere in cima alla lista per le procedure d’infrazione aperte (rifiuti, carceri, disabilità, agricoltura, diritti lgbt). E se questo probabilmente non è un merito, dimostra soltanto che l’italiano non è in grado di rispondere ad un potere trascendente, poiché refrattario ad ogni istituzione che non sia concreta e vicina, restio ad adattarsi in nome di un non ben definito “sogno europeo” negli angusti spazi di questo modello burocratico varato dove non si parla neanche la nostra lingua.

Mentre la realtà si condensa in centri di potere sempre più univoci, si riduce ad un unicum, noi siamo ancora una società pluralista, che fa di ogni campanile l’emanazione di un’autorità territoriale. Di qui il grande conflitto – il vero scontro di civiltà! – che domina il secolo venturo: seguire i partigiani dell’Uno, e perciò rinunciare ai simbolismi, alle pratiche e alle convenzioni, al nostro welfare domestico e ai nostri modi di produzione semi-capitalistici e familiari, oppure reificare il potere in cellule più piccole e disparate e riaprire quella dialettica tra centro e periferia, rivalorizzando quello che, nella storia dell’umanità, ci ha reso un’eccezione, seppure con tutti i suoi lati negativi? Rispettare gli obblighi comunitari scelti a monte, o ribaltare questo rapporto di forza presentato come inemendabile? Diventare europei, o recuperare – se non inventare – grazie a questa sfida, una definizione, seppure aperta e contrastata, di italianità?