Il dibattito pubblico sulla Palestina
di Sergio Caruso - 30/12/2025

Fonte: Sergio Caruso
Nel dibattito pubblico contemporaneo sulla Palestina si è progressivamente affermata una dinamica preoccupante: la restrizione dello spazio legittimo di parola per chi esprime solidarietà al popolo palestinese o tenta di analizzare il conflitto al di fuori di cornici narrative rigidamente prescrittive. In numerosi contesti politici, mediatici e accademici, il sostegno ai diritti dei palestinesi viene sovente assimilato, in modo improprio e semplificatorio, a un sostegno alla violenza o al terrorismo, producendo un effetto di delegittimazione del dissenso che solleva seri interrogativi sullo stato della libertà di espressione nelle democrazie liberali.
Questa tendenza appare tanto più problematica se collocata nel quadro del diritto internazionale, che da decenni qualifica la presenza israeliana nei Territori Palestinesi come una occupazione militare illegale, accompagnata da pratiche di colonizzazione, annessione de facto e discriminazione sistemica. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, i pareri della Corte Internazionale di Giustizia e i rapporti di numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno più volte richiamato Israele alla violazione di obblighi fondamentali derivanti dal diritto internazionale umanitario e dal diritto dei popoli all’autodeterminazione.
In tale contesto, è giuridicamente e storicamente infondato sostenere che ogni forma di resistenza palestinese debba essere considerata, in quanto tale, illegittima. Il diritto internazionale, pur non codificando in modo esplicito un “diritto generale alla resistenza armata”, riconosce la legittimità della lotta dei popoli sottoposti a dominazione coloniale o occupazione straniera nell’esercizio del diritto all’autodeterminazione, a condizione che tale lotta rispetti le norme imperative del diritto umanitario. Ciò implica un principio chiave, spesso rimosso dal dibattito pubblico: la distinzione tra obiettivi militari e popolazione civile.
La resistenza armata, in questa prospettiva, non è legittimata in modo indiscriminato. Essa trova un limite invalicabile nel divieto assoluto di colpire civili non coinvolti direttamente nell’occupazione o nelle ostilità, così come nel divieto di atti di violenza indiscriminata, punizioni collettive e prese di ostaggi. Tali condotte costituiscono crimini di guerra e restano tali indipendentemente dalla causa invocata. Ma il riconoscimento di questi limiti non può essere strumentalizzato per negare in blocco la dimensione politica e giuridica della resistenza in un contesto di occupazione protratta e priva di reali prospettive di soluzione diplomatica.
È proprio questa rimozione della complessità a caratterizzare molte delle iniziative volte a reprimere o scoraggiare la solidarietà con i palestinesi. Manifestazioni pacifiche, campagne di boicottaggio, prese di posizione accademiche o giornalistiche vengono talvolta trattate come forme di apologia del terrorismo, mentre esse rappresentano, nella maggior parte dei casi, esercizi legittimi di critica politica verso un regime di occupazione che produce, da decenni, violazioni strutturali dei diritti umani.
La questione dei movimenti palestinesi armati, inclusi quelli sostenuti da attori regionali come Qatar e Iran, viene spesso utilizzata per ridurre l’intero conflitto a una logica securitaria o a una guerra per procura. Questa lettura, tuttavia, oscura un dato fondamentale: la resistenza palestinese non nasce da alleanze geopolitiche, ma da una condizione materiale di subordinazione, espropriazione e assenza di sovranità. I sostegni esterni possono influenzarne le forme, ma non ne spiegano l’origine né ne esauriscono il significato politico.
Limitare o criminalizzare la possibilità di esprimere solidarietà ai palestinesi – inclusa la possibilità di riconoscere, in termini analitici e giuridici, l’esistenza di una resistenza anche armata entro i confini del diritto umanitario – non contribuisce alla tutela dei civili, né israeliani né palestinesi. Al contrario, rischia di rafforzare una narrazione che assolve l’occupazione da ogni responsabilità strutturale e sposta l’attenzione esclusivamente sugli effetti, ignorandone le cause.
In definitiva, difendere la libertà di espressione sulla questione palestinese significa difendere un principio più ampio: il diritto di interrogare il potere, di denunciare l’ingiustizia e di riconoscere che la pace non può essere costruita sulla negazione dei diritti fondamentali di un popolo. Riconoscere che la resistenza armata in una situazione come quella di Gaza è giuridicamente concepibile, purché rivolta esclusivamente contro militari o civili coinvolti direttamente nell’occupazione ovvero i coloni, e condotta nel rispetto del diritto internazionale, non equivale a celebrarla; equivale, piuttosto, a sottrarre il dibattito alla propaganda e a ricondurlo nel terreno, più esigente ma più onesto, del diritto e della responsabilità politica.
