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A Gaza è un’ecatombe, ma Israele è sempre più isolato

di Claudio Fontana - 16/12/2023

A Gaza è un’ecatombe, ma Israele è sempre più isolato

Fonte: Oasis

I morti palestinesi hanno superato quota 18.000. «Tale perdita – ha dichiarato al Financial Times Dina Matar (SOAS) – comporta la cancellazione di memorie e identità condivise per coloro che sopravvivono», ciò che «avrà un impatto traumatico» sulle loro vite. Anche perché gli attuali adolescenti che si trovano a Gaza sono già passati attraverso cinque fasi di pesanti bombardamenti: 2008, 2012, 2014, 2021 e 2023. L’impatto sui bambini è devastante: «gli adulti non riescono a creare quel senso di sicurezza che è un bisogno fondamentale per un sano e normale sviluppo del bambino», mentre bisogna tenere a mente che nessun bambino nella Striscia può andare a scuola e, in ogni caso, «più del 50% delle scuole è stato bombardato». Secondo il ministro degli Esteri del Qatar questa situazione e la prosecuzione dei bombardamenti «restringono la finestra» dei negoziati guidati dall’emirato del Golfo per raggiungere un cessate-il-fuoco e la liberazione di altri ostaggi.
A destare preoccupazione non è però (solo) la situazione interna a Gaza. Il rischio di un allargamento del conflitto, infatti, è ancora presente. Recentemente il Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Tzachi Hanegbi ha dichiarato che la situazione nel nord del Paese deve cambiare: «non possiamo più accettare la presenza delle forze Radwan [componente d’élite di Hezbollah, NdR] al confine. La popolazione israeliana comprende che la situazione deve cambiare, e cambierà. Se Hezbollah concorderà nel cambiarla diplomaticamente, bene. Altrimenti dovremo agire», ha detto Hanegbi durante un’intervista a Channel 12. Secondo Anthony Samrani (L’Orient-Le Jour) Washington sembra per ora aver convinto Israele a lasciare uno spazio alla diplomazia almeno al fronte nord e, nonostante il conteggio dei morti da parte di Hezbollah superi i 100, per ora l’approccio del partito-milizia sciita sta pagando: Nasrallah è riuscito a rafforzare la sua posizione ravvivando «la fiamma della Resistenza» senza contestualmente imporre al Libano un prezzo eccessivamente salato. D’altro canto, un altro articolo pubblicato sul quotidiano libanese a firma di Sally Abou Al Joud, evidenzia come i bombardamenti israeliani sul sud del Libano stiano distruggendo le speranze riposte nel sistema agricolo della zona.
Un’ulteriore minaccia giunge dai ribelli houthi yemeniti, i quali negli ultimi giorni hanno alzato la posta delle loro azioni. Gli houthi hanno colpito con un missile una nave norvegese nella zona meridionale del Mar Rosso (è anche intervenuta la nave militare francese Languedoc abbattendo un drone diretto al bastimento scandinavo) e messo in guardia le navi che transitano al largo dello Yemen: tutte quelle collegate a Israele, o dirette nei «territori occupati», rischiano di diventare un bersaglio. Fortunatamente, però, la rinnovata azione degli houthi non sta bloccando gli sforzi di de-escalation per risolvere il conflitto in Yemen, ha spiegato Ibrahim Jalal (Middle East Institute).
Sul piano internazionale, invece, ciò che è avvenuto questa settimana certifica da un lato la tenacia americana nel sostenere l’alleato israeliano, dall’altro l’isolamento a cui Washington è sottoposta proprio a causa di questo sostegno incondizionato allo Stato ebraico. Dopo aver posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiedeva un cessate-il-fuoco, gli Stati Uniti si sono ritrovati in nettissima minoranza anche all’Assemblea Generale, dove una risoluzione proposta dai Paesi della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica è stata approvata con 153 voti favorevoli, 10 contrari (Stati Uniti, Israele e Paesi come Micronesia e Guatemala) e 23 astenuti. Secondo Richard Gowan (International Crisis Group) «la maggior parte degli Stati membri dell’ONU ha perso la pazienza nei confronti della posizione degli Stati Uniti sulla guerra, anche se molti erano inizialmente disgustati dalle atrocità di Hamas». Gli Stati Uniti, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali, sembrano rendersene conto. Joe Biden ha infatti avvertito Netanyahu che i «bombardamenti indiscriminati» di Israele rischiano di isolare lo Stato ebraico sulla scena internazionale. Non è forse un caso che il marchio di abbigliamento sportivo Puma abbia deciso di interrompere la sponsorizzazione della nazionale di calcio israeliana, sebbene ufficialmente si tratti solo di una scelta commerciale. Il fatto stupisce maggiormente se consideriamo che Puma è un marchio tedesco e, per ovvie ragioni storiche, i tedeschi sono sempre molto cauti nelle critiche verso Israele.
Un sondaggio di Arab Barometer condotto in Tunisia nelle settimane a cavallo dell’attacco di Hamas mostra inoltre come la guerra stia scavando un fossato sempre più ampio tra chi si oppone attivamente a Israele e chi no. I risultati, esposti su Foreign Affairs, contengono informazioni su diverse attitudini tra cui segnaliamo il fatto che dopo il 7 ottobre è significativamente migliorata la percezione di figure come Ali Khamenei, mentre è peggiorata quella di leader come Mohammed bin Zayed e Mohammed bin Salman.
Anche gli Emirati Arabi Uniti, firmatari degli Accordi di Abramo e Paese che collabora con lo Stato ebraico su svariati fronti, hanno fatto sapere che il loro contributo alla ricostruzione di Gaza sarà subordinato all’avvio di un percorso credibile per la realizzazione della soluzione a due Stati. Come ha affermato l’ambasciatrice emiratina Lana Nusseibeh (lei stessa discendente di un’importante famiglia palestinese), «la road map è la seguente: gli israeliani, l’Autorità palestinese e un gruppo di Paesi che hanno un’influenza su entrambi si siedono attorno al tavolo e dicono: “Questo è l’obiettivo finale a cui lavoreremo”. Il lavoro inizia qui. Questo è il calendario e inizia ora”». In questa attività dovrebbero essere coinvolti sia alcuni Paesi europei che altri membri della OIC, tra cui sicuramente Egitto e Giordania.
Anche i rapporti di Netanyahu con la Russia di Vladimir Putin sono sempre più difficili. I due si sono parlati al telefono questa settimana e, come mostrato dalle diverse ricostruzioni del colloquio che ciascuno dei protagonisti ha fornito, non sono mancate le divergenze. Mentre Putin ha condannato la situazione umanitaria imposta da Israele su Gaza, Netanyahu si è soffermato sui legami sempre più stretti tra Mosca e Teheran. Nonostante le lamentele del primo ministro israeliano, dopo un colloquio di oltre cinque ore tra Putin ed Ebrahim Raisi a Mosca la settimana scorsa, il ministero degli Esteri russo ha fatto sapere in questi giorni di essere al lavoro per la firma di un nuovo importante accordo di cooperazione tra Russia e Iran.