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A proposito di esterofilia

di Roberto Zavaglia - 31/07/2019

A proposito di esterofilia

Fonte: Roberto Zavaglia

A proposito di esterofilia. Siamo un Paese in cui non pochi genitori benestanti scelgono di iscrivere i propri rampolli a ogni sorta di scuola straniera, nella convinzione che il modello di istruzione italiana sia arretrato e inadatto a quella cultura globale che può garantire future carriere professionali di prestigio. Ambitissime, ovviamente, la scuola statunitense e quella inglese, ma vanno bene pure quella tedesca e quella francese e, adesso, c’è perfino quella canadese che promette, niente meno, il curriculum della provincia dell’Ontario che, evidentemente, deve essere una miniera di sapienza per surclassare il nostro liceo, istituito da quel grigio ometto di Giovanni Gentile…  Filofrancesi al tempo delle caves fumose degli esistenzialisti di Saint-German des Prés, anglofili per esibizione di understatement, entusiasti dell’America sempre e comunque, gli italiani “distinti” sono stati per molti anni i più convinti europeisti di tutta la Ue, anche se adesso in tanti si sono ricreduti. Rimangono numerosi, soprattutto nella grande stampa, i fedeli a quel “vincolo esterno” comunitario il quale, in fondo, stabilisce che noi poveri italianuzzi provinciali non dobbiamo mai essere abbandonati a noi stessi e alla nostra minorità politica e morale.

  Se c’è una prova decisiva di anticonformismo, nel nostro Paese, è il sentirsi e dichiararsi patrioti. Ma è anche una condizione disperata e disperante se solo si pensa che l’anno scorso, nel centenario della fine  della Grande guerra, nelle librerie italiane si potevano trovare numerosi volumi su quel conflitto, ma praticamente tutti erano di autori stranieri i quali considerano quello italiano come un fronte minore, dedicandogli scarsa attenzione, e arrivano vergognosamente ad attribuire la vittoria di Vittorio Veneto al contributo “decisivo” dei nostri alleati, proprio mentre fra i pochi studiosi seri e inascoltati della questione si sta facendo strada la convinzione che la vittoria delle nostre armi sia stata decisiva per l’intera vicenda bellica, non solo per avere causato la distruzione dell’impero austro-ungarico, ma per avere distratto da altri fronti consistenti forze tedesche di prima qualità. Ma per il patriota italiano c’è anche un’altra insidia, ovvero il pericolo di essere confuso con il patriottismo da sagra paesana, quello del sole, mare e monumenti e del “ma dove si mangia meglio che da noi?”. Che non comprende il calcio come molti, superficialmente, indicano, perché anche il calcio è, all’opposto, una dimostrazione di inveterato campanilismo. Chi davvero frequenta gli stadi sa che la nazionale viene sostenuta da un pubblico diverso da quello dei tifosi più accaniti dei vari club i quali, in buona parte, preferiscono “gufare” e si aggregano all’entusiasmo popolare solo quando il profumo della vittoria finale si fa insistente.

  E’ dunque una scelta meritoria e coraggiosa, che certo non fa chic negli ambienti culturali, quella di Adriano Scianca di dedicare il suo libro, “La nazione fatidica” (Altaforte Edizioni), al tentativo di “scardinare dall’inconscio collettivo e dal discorso pubblico questa forma di autorazzismo suicida”. Quello che fa fiorire sulle labbra di molti, senza differenza tra colti e sempliciotti, la definizione “all’italiana” per indicare una cosa fatta approssimativamente, con una furbizia al limite o oltre l’illegalità. Non crediamo che ci sia un altro Paese dove un’espressione del genere venga usata dai cittadini nei propri confronti. Vola quindi alto l’autore, per evitare l’intruppamento nel patriottismo della pastasciutta, con questo suo “elogio politico e metafisico dell’Italia”. Partendo dal mito e dalla letteratura classici per identificare il sostrato spirituale di quella terra che, a turno, venne chiamata Esperia, Enotria, Saturnia, Ausonia. E’ comunque soprattutto nella lingua, la prima compiutamente letteraria, che l’identità italiana manifesta la propria continuità dal Duecento ad oggi.

  In un capitolo del libro dedicato a Dante, Scianca sottolinea giustamente che una delle caratteristiche, e delle questioni sempre aperte si direbbe, della nostra storia sia la tensione tra particolarismo e universalismo, espressa dal poeta fiorentino nella propria triplice identificazione di cittadino comunale che però è consapevole del dato culturale nazionale e, insieme, si fa cantore della restaurazione imperiale. Se, aggiungiamo noi, volessimo indicare, con un certo  grado di approssimazione, tre grandi personalità in cui si sintetizza questa dinamica identitaria, potremmo parlare dell’Alighieri che, proiettato nella sua visione imperiale, pur riconoscendo un’ineludibile identità nazionale, non ne ricava ancora la necessità di un’unificazione politica, di un Petrarca che, come ha scritto lo storico della letteratura Fabio Finotti, procede a una nazionalizzazione del classicismo, annettendo la storia romana a quella italiana, ma ancora pensa, come nella celebre canzone “All’Italia”, a una sorta di alleanza fra i vari principi italiani e, infine, di  Machiavelli che in chiusura del “Principe” riconosce la necessità di un solo “redemptore” per mettersi sullo stesso piano delle potenze straniere e sconfiggerne le mire sulla penisola.

  La lacerazione dell’identità italiana, nel secondo dopoguerra, viene addebitata da Scianca al fatto, di per sé incontrovertibile, che le due maggiori culture politiche affermatesi, quella cattolica-popolare e quella comunista, erano estranee, quando non ostili, ai tre più grandi eventi della nostra storia moderna: il Risorgimento, la Prima guerra mondiale e il fascismo. Oggi, il “momento populista” offre, in nuce, la possibilità di riprovare a tessere la trama di una nuova identificazione degli italiani nella propria patria. Il populismo, spesso incline al ruffianesco “gentismo” non è però, come avverte Scianca, il popolo, perché una serie comune di lamentazioni, spesso assai giustificate, e di idiosincrasie, pur abbondantemente motivate, non bastano a costruire la consapevolezza di essere una comunità con una storia e una cultura condivise che implicano un destino condiviso. Del populismo va quindi apprezzata innanzitutto l’istintiva ostilità verso il globalismo con tutta la varietà di nuove forme di sfruttamento economico e di distruzione delle tutele sociali che esso porta con sé. Occorre pero non adagiarsi sulle sue parole d’ordine, ma  attraversarlo per provare a indirizzarlo verso mete più ambiziose che, dal punto di vista metapolitico, comportano un cambiamento della mentalità e della cultura collettive perché il popolo –come già a suo modo aveva capito, per esempio, il fascismo oltrepassando in ciò il precedente nazionalismo- non è un mero dato naturale, ma è una costruzione continua e dinamica che si realizza attraverso un processo di autocoscienza collettiva.

  Ciò non comporta, allo stato attuale dell’arte, che si debbano però ignorare i conflitti in corso. E se ha ragione Scianca a volgere lo sguardo verso l’Europa, muovendosi lontano da una becera e volgare xenofobia, non ci pare però che, attualmente,  additare, come fa l’autore, l’orizzonte, pur comprensibile dal punto di vista storico e culturale, di un’Europa ghibellina, romano-germanica, sia una strada praticabile. Purtroppo, la classe dirigente tedesca, oggi, è un implacabile nemico del nostra nazione, del suo sviluppo e delle sue speranze future. Non per cadere nella prosaicità e tanto per fare un solo esempio, come si fa a pensare di poter dialogare serenamente con un Paese che, surrettiziamente, ha stanziato 200 miliardi di denaro pubblico per salvare il proprio sistema bancario e ci impone, con tracotanza, ogni sorta di tagliola per tutelare risparmiatori e azionisti di alcune piccole banche di provincia dissestate? Ma queste sono argomentazioni che esulano dal tema principale di questo libro che ci pare importante per la composta passione da cui è animato, in cui riluce un severo ed esigente amore per la patria privo di ogni traccia di retorica.