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Ampi e lunghi tempi di esposizione

di Pierluigi Fagan - 04/07/2019

Ampi e lunghi tempi di esposizione

Fonte: Pierluigi Fagan

Un nuovo oggetto storico, il “globale”, proprio dagli anni ’90, comincia a sviluppare una sua auto comprensione nel movimento della Storia globale, analizzata ad esempio dal tedesco Sebastian Conrad in Storia globale, Carocci editore, 2019. La “storia globale” (Global History) si somma alla Storia mondiale (World History), alla Storia grande (Big History), alla Storia del’Umanità (Human History) ed a quello del tempo profondo (Deep history). Il movimento è evidentemente ad allargare le inquadrature, sia lo spazio (World, Global), sia il tempo (Big, Deep), sia il soggetto che non è più centrato in questa o quella civiltà o popolo o tempo specifico ma prende una dimensione di specie evolutivo-adattiva (Human).

Come tutti i processi al loro inizio, il movimento non è esente da contraddizioni. Partito con l’abiura dell’eurocentrismo modernista con finalità di progresso come punto di vista unico, nei fatti, l’arco di tempo storico della formazione del globale (dal XIX secolo) finisce con l’essere spesso una rilettura dell’evoluzione quasi teleologica della Modernità. Il mettere a fuoco concetti come la mobilità migratoria o l’attitudine secolare al commercio o l’inarrestabile ampliarsi del dominio moderno-capitalistico, anche volendo sottolineare la pluralità di modi nei quali lo si è interpretato nelle varie culture, può finire con il diventare una sorta di fiancheggiamento concettuale alle sorti a quel punto “inevitabili”, di sempre maggiore globalizzazione.

Altresì, per vocazione imperiale anglosassone e per l’oggettiva dominanza della lingua inglese anche nelle élite accademiche mondiali, le pratiche culturali connesse sono ancora dominate dagli occidentali. Si pone quindi un ulteriore problema di “geopolitica della conoscenza”, non esente da critiche di neo-colonialismo culturale. Va altresì notato che per ragioni di finanziamento di lunghi e complessi progetti di ricerca, frequentazioni di ambiti culturali sparsi per il mondo, vasta acquisizione di materiali, acquisizione linguistica necessaria a frequentare fonti esotiche, il lavoro dello storico globale o mondiale, è possibile laddove ci sia una rete di fondazioni ed accademie che lo supportano, fatto che riporta alla centralità anglosassone, assieme alla natura cosmopolita del potenziale pubblico dell’anglosfera a cui vendere i libri tanto quanto la ristretta cerchia della stessa comunità epistemica consumatrice di paper e riviste.

Altre obiezioni vanno dai paradigmi di ricerca ad esempio marxisti o meno (ad esempio la Teoria del sistema-mondo di I. Wallertsein e la sua scuola), se e quanto centrati sullo scivoloso ma inevitabile concetto di civiltà, sul nazionalismo metodologico (palese o travestito), sull’incommensurabilità culturale. Un esempio interessate di aggiramento del nazionalismo metodologico che Conrad riporta (p.63) è quello di un tentativo asiatico di manuale di storia moderna che riporta parallele tra versioni: una coreana, una cinese ed una giapponese. L’esempio vale non solo per quel contesto, chissà quante questioni oggi dibattute con una certa passione che a volte sfocia nella rissa culturale nel dibattito pubblico, anche in Occidente, si avvantaggerebbero di una franca esposizione plurale direttamente al pubblico.

Come nota giustamente Conrad, dal punto di vista metodologico, tutte queste storie forzano il precedente presupposto internalista, come se il movimento storico avesse cause solo interne ai soggetti presi in esame. Le storie positiviste, le filosofie sulla spirale accrescitiva della Spirito o dell’emancipazione umana, le impostazioni econocentrate liberali (e marxiste), sono tutte internaliste e come tali stabiliscono una indipendenza dal contesto arbitraria. E’ un po’ come in biologia dove molti hanno creduto che il DNA fosse un programma apriori da svolgere da dentro a fuori quando oggi, l’epigenetica porta in ballo una relazione tra codice e sua interpretazione ambientale. La grande novità concettuale che impone il concetto di storia globale è portare in esame l’altra componente fondamentale di ogni sistema, le interrelazioni esterne ai sistemi, tra i sistemi tra loro e tra sistema/i ed il contesto. Da queste aperture/dipendenze esterne, giungono forze, influenze, imput, pressioni, semi di novità, tante quante ne escono e la storia è sempre ciò che risulta dalla relazione tra interno ed esterno dei soggetti esaminati lungo l’arco temporale ovvero quell’asse di passato-presente che è proprio dello sguardo storico in sé.

Altresì, l’intero movimento descritto, tende anche ad amalgamare diverse competenze disciplinari. Se la Big History convoca di necessità competenze propriamente scientifiche e la Deep History archeologiche, paleoantropologiche, bio-genetiche, eco-climatologiche, linguistiche, e financo neurobiologiche così tanto la World che la Global che soprattutto la più vasta Humanity, amalgamano di necessità competenze nei campi dell’economia, la finanza, la storia delle religioni, la geografia, l’etno-antropologia, la storia delle idee, della tecnica e financo le concezioni immagini di mondo formalizzate o meno in filosofie o ideologie o nella più ampia nozione di “culture”. Tutte variabili che a loro volta hanno una storia.

Come si vede con chiarezza, il forte richiamo all’esterno in termini di interrelazioni e contesti porta dritto alla nozione metodologica di sistema mentre gli approcci epistemologici inter-multi-trans disciplinari aiutano il tutto a convergere verso il paradigma di complessità. In più, la storia ha il tempo come suo riferimento. Varietà, interrelazioni, sistemi, contesti, tempo, l’intero movimento quindi si potrebbe chiosare in “complessità che pensa se stessa”. Il che fa di questo fronte avanzato della ricerca storica, la punta più avanzata della comprensione del "mondo". Sicuramente migliorabile ma solo nella misura in cui si partecipa al suo sviluppo.