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Briciole di filosofia per il nostro tempo

di Francesco Lamendola - 28/06/2019

Briciole di filosofia per il nostro tempo

Fonte: Accademia nuova Italia

Probabilmente aveva ragione Søren Kierkegaard quando, all’astrusa complessità dei grandi sistemi speculativi, come quello hegeliano, opponeva la modestia di fare briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole. Aveva compreso più degli altri il grande male della modernità: l‘impossibilità di pensare in grande, di abbracciare tutto il reale in un solo colpo d’occhio; in altre parole l’eccesso di analisi e il difetto di sintesi, il sopravvento dei mezzi sui fini e degli strumenti sugli scopi; e ne aveva tratto le logiche conclusioni. Partendo da Socrate, ma andando oltre Socrate, aveva messo a fuoco il problema dei problemi: fino a che punto si può insegnare la verità? E noi, che ci riteniamo suoi discepoli, per quanto indegni, non esitiamo a seguire il suo esempio e a spingerci ancora più in là, e ci chiediamo: fino a che punto è possibile vedere la verità, di questo tempi? Infatti non si può insegnare quel che non si sa vedere; non si può trasmettere ciò di cui si è in difetto. In altre parole, il grande problema filosofico dell’uomo contemporaneo è quello di educare, o piuttosto ri-educare, se stesso; solo in un secondo tempo si potrà pensare a come e in quale misura trasmettere agli altri la verità.

Fare filosofia significa cercare la verità. Ma a chi interessa più la verità, di questo tempi? Oh, a parole interessa a tutti quanti; ma solamente a parole, appunto. In pratica, chi mai è disposto a sobbarcarsi la minima fatica per cercare la verità? E, inoltre: quanti possiedono l’attrezzatura minima per cercare la verità, e prima ancora per desiderare la verità? Desiderare la verità è la stessa cosa che amare la verità: ma l’uomo contemporaneo è ancora capace di amare qualcosa o qualcuno? Oppure sa amare soltanto se stesso, e male, per giunta; sa amarsi di un falso amore, di un amore malato, narcisista, distruttivo, che non lo aiuta ad essere se stesso e non gli dà i mezzi per vivere bene la sua stessa vita? Come sarebbe bello se l’uomo moderno sapesse e volesse ancora cercare la verità con quel grado di fiducia, con quella umiltà, con quella perseveranza che appartenevano all’uomo pre-moderno! Ma no: egli è troppo viziato, tropo scoraggiato, troppo pretenzioso per disporre di un simile stato d’animo; vorrebbe tutto e subito, altrimenti dichiara che l’oggetto della sua ricerca non esiste, o è al di fuori delle sue possibilità. Per questo gli basta ormai conoscere qualcosa del fenomeno; alla cosa in sé, ha praticamente rinunciato – e con ciò ha rinunciato all’essenziale. Che cos’è la ricerca della verità, una volta che si sia rinunciato all’essenziale? Manierismo, calligrafismo, esercizio retorico: oh, che magnifici retori ha prodotto e continua a produrre la modernità, ad onta del fatto che essa proclami dall’alto dei tetti la sua avversione per la retorica, il suo disprezzo per il calligrafismo e la sua allergia verso tutti quelli che si attardano oziosamente sulle cose secondarie. Pensatori, però, la modernità ne ha prodotti ben pochi; quasi nessuno: li contiamo sulle dita delle mani. Kierkegaard è uno di essi, senza dubbio il più grande. Se fosse nato sei secoli prima, sarebbe stato un altro Tommaso d’Aquino: ne aveva la stoffa, il rigore, la sete bruciante per la verità. Ma era nato nel XIX secolo, in una scialba cittaduzza, come lui la chiamava, dell’Europa settentrionale: cieli grigi, freddi inverni, lunghe notti, e una popolazione curiosa, indiscreta, pettegola, rovinata dalle gazzette, oggi si direbbe dal gossip. Incompreso, isolato, qualche volta sbeffeggiato, egli amava troppo gli uomini per chiudersi nella sua torre d’avorio; tutta la sua vita è stata un’offerta d’amore. E poiché era un forte pensatore, ciò che poteva donare era il suo stesso pensiero. Ma poiché vedeva quanto i suoi contemporanei fossero senza denti e per giunta deboli di stomaco, vedeva anche di non poter offrire loro un cibo solido, come il tomismo; capiva di dover spezzare per essi e sbriciolare la ricerca della verità, di poter offrire solo un pensiero in briciole, adatto a quelle bocche sdentate e a quegli stomachi pigri. Quando cadde sul marciapiede e fu raccolto, per poi morire all’ospedale, tornava dalla banca ove aveva ritirato gli ultimi soldi per finanziare il suo battagliero giornale, L’ora: estrema offerta d’amore agli uomini e a Gesù Cristo, del quale s’era fatto intrepido operaio; ormai era pronto per rimettersi a Lui.

L’uomo greco credeva che la verità sia intellegibile; ma egli non la concepiva se non come una verità immanente, per cui divenne scettico. L’uomo medievale, irrobustito e quasi rinato per mezzo della fede, seppe coniugare le due strade, quella della ragione e quella della fede, per spingersi audacemente sulle orme dell’uomo greco, ma per andare ben oltre, verso la Verità ultima, la Verità vera, ben conscio che non si tratta d’una verità umana e che l’uomo non se la può dare interamente da se stesso, ma la deve umilmente ricevere. Per il cristiano, la ragione illumina la fede e la fede incoraggia la ragione: è un circuito virtuoso, nel quale l’una e l’altra si potenziano a vicenda, si sostengono, si stimolano ad andare oltre. L’uomo moderno, però, ha perso la fede, e quanto alla ragione è ridiventato scettico: per questo i sofisti son tornati di moda, proprio come ai tempi di Socrate. Però, meno onesti di quelli greci, i sofisti d’oggi non si presentano affatto come tali, anzi, si arrabbiano moltissimo se qualcuno insinua una sia pur vaga parentela fra essi e i loro predecessori del tempo di Gorgia. Eppure che altro sono se non sofisti, la stragrande maggioranza dei cosiddetti filosofi moderni? Inutile far noni; si fa più presto a dire quanti non sono tali e li si conta sulle dita delle mani. Gli altri fanno voli speculavi notevoli; mostrano uno straordinario acume filologico; niente e nessuno potrebbero resistere alla loro critica negativa, demolitrice, sarcastica: però non sarebbero capaci di mettere in fila tre pensieri che formino un ragionamento sensato che sia anche, per avventura, costruttivo. In altre parole, sanno solo giocare con le parole o divertirsi al gioco del nichilismo: li si potrebbe paragonare a degli stranissimi architetti o ingegneri, usciti dalle migliori università e molto richiesti sul mercato (perché non esistono leggi che vietino al pubblico d’impazzire e di correr dietro ai pifferai magici) e specializzati, anzi, esclusivamente capaci di demolire palazzi, chiese, ponti e ogni sorta di edifici pubblici e privati. E ad ogni nuovo crollo, a ogni costruzione che cade a terra e solleva una nuvola di polvere, ecco che si leva un coro di grida ammirate, di vere e proprie ovazioni: Ha distrutto la metafisica, che bravo! Ha mandato in pensione la teologia: stupendo! Ha spazzato via la cosa in sé, il noumeno: finalmente! Forse nemmeno il pubblico dell’antico Colosseo si accalorava e si entusiasmava così tanto, assistendo ai massacri dei gladiatori e ai supplizi spettacolari dei condannati a morte. Non si dica che l’analogia è troppo forte; al contrario, è la più appropriata che si possa immaginare. In entrambi  i casi si tratta di godere, di godere sadicamente, e quindi sessualmente, allo spettacolo del male, della distruzione fisica e materiale di qualcosa che era vivo, che costituiva la speranza e la ragione per vivere di tante persone. Infatti fra distruggere le case o le persone, e distruggere le idee o i concetti, non v’è una differenza di sostanza: è un’operazione sciocca e crudele, e non c’è altro da dire. Anzi si potrebbe aggiungere che distruggere le idee è perfino cosa più grave che distruggere corpi umani e abitazioni (sì, lo sappiano che questa affermazione non è politicamente corretta dato che, a parole, la vita umana è il bene supremo; ma pazienza), perché dove scompaiono le idee, la vita si svuota e si rattrappisce, c’è un crollo morale e quindi anche un calo demografico; mentre se ad essere distrutti sono solo gli uomini e le case, nulla vieta che una società sana e vigorosa rinasca dopo la fine del massacro, e che  ricostruisca le sue città dalle macerie.

Dunque, la situazione è questa: l’uomo contemporaneo ha perso i denti, ha la gastrite e ha smarrito sia l’attitudine che la motivazione a cercare la verità. In queste condizioni, come parlargli della verità? Come riaccenderne in lui il desiderio, e come fornirgli i necessari strumenti? Perché la filosofia è pur sempre una scienza, che richiede mezzi idonei allo scopo; e come il fornaio ha bisogno di acqua, farina e lievito per impastare il pane e di un forno per cuocerlo, mentre l‘archeologo ha bisogno di pale e picconi e squadre di operai per scavare i siti e riportare alla luce le città morte e di carte topografiche per identificarne l’ubicazione, allo stesso modo il filosofo deve possedere una serie di mezzi di ordine logico che gli consentano di procedere verso la verità, altrimenti non è che uno sprovveduto chiacchierone, un millantatore da quattro soldi. Ma soprattutto chi sarà in grado di parlare ancora della verità, in un quadro così desolante? Da quale zolla miracolosa salterà fuori un vero ricercatore della verità, cioè un vero filosofo, nel campo riarso ed esausto che non produce più un germoglio da anni e decenni? Altrimenti cadremmo nel curioso paradosso in cui cadde messer Niccolò Machiavelli, il quale, dopo aver affermato che l’uomo per sua natura è tristo, egoista, pusillanime, incline assai più al male che al bene, e inoltre che per studiare la politica bisogna guardare alla verità effettuale della cosa e quindi agli Stati come sono, e non come si vorrebbe che fossero o come dovrebbero essere, a un certo punto, per governare gli Stati e far sì che gli uomini vivano in maniera ordinata e pacifica, tira fuori dal cappello del prestigiatore, o magari fa venir giù dal pianeta Marte (non è possibile dire altrimenti del capitolo finale del suo capolavoro) un Principe semplicemente meraviglioso, intrepido, geniale, generoso, disposto a rischiare il tutto per tutto pur di cacciare i barbari dall’Italia e ripristinare non già lo Stato reale, ma lo Stato ideale.

Da qualunque lato si consideri la questione, appare evidente che aveva ragione Kierkegaard: nessun uomo può insegnare la Verità; in compenso, Dio si è fatto uomo, e da uomo ha insegnato la Verità divina: dunque, quel che si chiede agli uomini non è di fidarsi di quel che insegna uno di loro, ma di rimettersi a un maestro che non può ingannarsi, né mentire, perché non è un maestro fra i tanti ma è il solo Maestro che di Sé può dire: Io sono. E tuttavia, gli uomini moderni hanno sviluppato, nello stesso tempo, una tale sfiducia nella verità e una tale superbia verso chi la proclama, da non essere assolutamente disposti a riconoscere la veridicità di quel Maestro. In un certo senso, si sentono obbligati a fare professione di ateismo, perché la sola ipotesi dell’esistenza di Dio appare loro come una provocazione e un insulto. Loro non sono più capaci della verità, però non sopportano che qualcun altro lo sia; figuriamoci poi Qualcuno che dice di Se stesso: Io sono la via, la verità e la vita. Le radici dell’ateismo moderno sono qui, in un misto inestricabile di depressione e superbia, di tristezza e orgoglio. L’uomo moderno è simile a uno che, impazzito per la sete, proclami che non c’è più una sola goccia d’acqua su tutta la superficie della terra, perché, se venisse a sapere che l’acqua, dopotutto, c’è, per lui sarebbe insopportabile il pensiero di essere impazzito per nulla. Insomma egli odia ciò di cui ha più bisogno: è divenuto, come il cane idrofobo, il peggior nemico di se stesso. Per uscire dal suo male avrebbe bisogno d’un bagno d’umiltà; dovrebbe essere abbastanza umile da capire quel che gli manca, e da accettare il fatto che non riuscirà mai a procurarselo con le sue sole forze. Ma l’umiltà è appunto la cosa di cui è più sprovvisto, mentre l’orgoglio è divenuto il suo tratto più caratteristico, la sua patologia. Non è più amor di sé, per quanto deviato e ipertrofico; è qualcosa di diverso, perché lo conduce a ignorare sistematicamente tutte le occasioni di trovar sollievo alla sua angoscia. L’orgoglio dell’uomo moderno è una diabolica negazione dell’altro, una sistematica svalutazione e un radicale disprezzo di tutto ciò che non è lui o non è opera sua; ma essendo l’uomo un animale socievole, ne deriva che il suo disprezzo e la sua negazione dell’altro si trasformano in una vera e propria nemesi, nella negazione di sé. L’uomo moderno è divenuto impossibile a se stesso, dunque un problema insolubile per il suo stesso esistere: non sa o non vuole entrare, ma non sopporta che qualcun altro entri. Se almeno fosse abbastanza disperato da realizzare che il suo tormento val bene una puntata ai dadi: peggio di così non potrebbe vivere, tanto vale che provi a seguire l’altra strada! Ma no: è ancora troppo orgoglioso per essere disperato del tutto; è un povero essere semidisperato, che si prende troppo sul serio per imparare l’umiltà, ma non abbastanza da essere realmente coraggioso. Così, preferisce navigare a vista lungo le rive della sua disperazione: tenendosi in acque basse, evitando il mare aperto, gli sembra ancora di posseder qualcosa, di non essere povero del tutto. E invece, ciò di cui ha bisogno è proprio questo: di afferrare in pieno la sua condizione di naufrago, di disperato e d’indigente sprovvisto di qualsiasi mezzo, sia della fierezza per sopportare il suo destino, sia della ragionevolezza per ammettere che è insopportabile. Si è preso in trappola da solo, con le sue stesse mani, a forza di sofismi e promesse mancate: la ragione, il progresso, da ultimo le macchine… Promesse a vuoto, cambiali andate in protesto; e ogni volta è tornato a se stesso un po’ più povero, più svuotato, più deluso. Eppure, non è ancora sufficientemente affranto; se lo fosse, capirebbe che non è possibile vivere a codesto modo; che la sua non è più vita, ma un’interminabile agonia. D’altro lato, egli sente, intuisce, di non esser fatto per la morte, ma per la vita; di non essere destinato alla disperazione, ma alla speranza. Chi potrà strapparlo al suo destino, alla sua impotenza sterile e rabbiosa? Nessun uomo lo può fare; e chi dice di esserne capace è un mentitore o un malvagio. Al mondo non vi sono che falsi maestri; nessun maestro autentico, neppure uno. La storia lo ha mostrato mille volte, ma non lo vuol capire. E tuttavia l’uscita c’è: ascoltare Colui che dice: se vuoi venirmi dietro prendi la tua croce e seguimi.