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Che peccato non aver avuto professori così

di Francesco Lamendola - 15/06/2019

Fonte: Accademia nuova Italia

La verità storica, da settant’anni e oltre, è stata censurata, oscurata, negata; agli italiani, e specialmente alle nuove generazioni, dal 1945 in poi è stata offerta, o meglio imposta, una verità di comodo, una verità di regime; il dibattito e la critica sono stati soppressi e si è preteso che qualunque discussione intorno al ventennio fascista partisse da una condanna morale, prima ancora che politica, preventiva. In atre parole, agli italiani è stata sottratta la memoria del loro passato e al suo posto è stata data loro una riscrittura ideologica, tendenziosa e mistificante; nello stesso tempo, si è fatto di tutto per spegnere anche il senso storico, per manipolare ogni prospettiva critica, e in definitiva per spegnere le intelligenze, affinché a qualcuno non venisse in mente, un giorno, di fare le domande scomode, di mettere il dito nella piaga e di demistificare il castello di cartapesta che è stato costruito, a posteriori, dalle forze uscite vittoriose dalla guerra civile dl 1943-45, le stesse che nel 1919-21 avevano provocato la paralisi dello Stato, avvelenato la vita nazionale e pugnalato alla schiena quella parte della nazione che avevano combattuto e vinto la guerra, sopportando enormi sacrifici e spesso sacrificando la vita, la salute, gli affetti più cari.

Una delle poche voci oneste che si fecero sentire fin dagli anni del dopoguerra e che non si abbassò mai a seguire il coro del politicamente corretto, ma disse forte e chiaro come in realtà erano andate le cose, fu quella, cosa tanto più notevole, di un coraggioso e coerente intellettuale antifascista che era stato sospeso dall’insegnamento al liceo per il suo irriducibile amore alla libertà: lo storico e scrittore Piero Operti (Bra, Cuneo, 1896-Sestri Levante, 1975). Volontario nella Prima guerra mondiale, ferito tre volte, decorato e uscito mutilato dal conflitto, nel 1920 a Torino fu aggredito da militanti comunisti, che odiavano i reduci, specie se decorati, e arrivavano a uccidere chi osasse gridare Viva l’Italia!, come era già accaduto al giovane Pierino Delpiano nel dicembre 1919, in quella stessa città (cfr. il nostro articolo: Piero Delpiano fu assassinato per aver gridato: “Viva l’Italia!”, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/01/18). Liberale, monarchico, crociano, durante il fascismo non nascose e la sua opposizione; svolse un ruolo importante come comandante delle formazioni partigiane piemontesi, ma venne rimosso non appena fu chiaro che egli considerava nemici sia i nazisti e i fascisti, sia i partigiani comunisti: straordinaria lucidità e lungimiranza in un tempo in cui, dietro il mantello dei CLN, i liberali e i democratici accettavano di cooperare con i social-comunisti, il cui obiettivo non era certo la libertà ma, oltre alla vendetta più selvaggia, l’instaurazione di un regime dittatoriale rosso a somiglianza di quanto avvenuto in Russia nel 1917. Come narratore si era fatto apprezzare per un volume di racconti ispirato all’esperienza del 1915-18, Sacchetti a terra, e un romanzo, Convito della Speranza; come storico, una biografia di Bartolomeo Colleoni, Il Condottiero, e una Storia d’Italia. Subiti dopo la guerra pubblicò una Lettera aperta a Benedetto Croce e una Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giulio Einaudi, nelle quali, onestamente ma anacronisticamente esortava alla concordia nazionale e al superamento della sterile e ormai inutile contrapposizione tra fascismo e antifascismo. Questa sua posizione favorevole alla pacificazione nazionale, il suo non dissimulato antinomismo e alcune espressioni di apprezzamento nei confronti del principe Junio Valo Borghese gli valsero, allora e poi, la scomunica perenne da parte della dominante cultura di sinistra. Nemmeno la sua morte è valsa a placare l’animosità dei marxisti nei suoi confronti; valga per tutti un vergognoso articolo apparso nel 2011 sul Corriere della Sera di Luciano Canfora, uno dei più rigidi paladini della leggenda resistenziale in versione politically correct, nel quale la figura dell’Operti è rimpicciolita alle dimensioni di un giornalista che aveva ampiamente collaborato col fascismo, senza tener conto che moltissimi intellettuali poi passati nel PCI avevano fatto lo stesso, o anche assai peggio e ignorando la franchezza e il coraggio personale con cui aveva sempre criticato il regime; e giunge a definirlo uno scrittore giustamente dimenticato, che imitava Croce e di suo strafalcionava.

Ricordava, dunque, Piero Operti a proposito delle circostanze che videro affermarsi la dittatura fascista, in un ampio scritto in due parti, apparso sulla rivista Historia  dell’editore Cino Del Duca e intitolato Difendo Vittorio Emanuele, di cui riportiamo un passaggio della prima parte (Milano, n. 64, marzo 1963, p. 25):

 

Sulla crisi del delitto Matteotti si continua a fare discorsi vani, perché il Paese non si mosse e l’opposizione, che alla Camera contava ancora 170 deputati, non diede al Re il “fatto costituzionale” da questi chiesto all’on. Amendola recatisi da lui, né invocò, come avrebbe potuto, l’art. 47 dello Statuto ponendo Mussolini in stato d’accusa sulla “questione morale”. In quella crisi, come nella successiva, del 3 gennaio 1925, Giolitti, Salandra e Orlando espressero al Re l’opinione che Mussolini dovesse restare al governo. Alla seduta del 3 gennaio i deputati presenti che votarono contro furono CINQUE, e non si può pensare che, se tutta l’opposizione avesse allora compiuto il proprio dovere nella propria sede, la Corona non sarebbe rimasta isolata dinanzi alla prorompente marea. Certo occorreva coraggio, e Matteotti aveva pagato con la vita il proprio, ma è da don Abbondio credere che il sacerdozio non esiga prove di coraggio. La verità è che, dinanzi all’indifferenza della popolazione e dato il discredito gettato dalle recenti vicende sul sistema parlamentare, pochissimi erano in Italia sicuri di sé e delle proprie idee.

L’intera classe politica della “successione” ha fatto propria senza cambiare una virgola l’interpretazione del fascismo data dai social comunisti, come della sopraffazione esercitata sul popolo da una banda di criminali assoldata dal “padronato” allo scopo di conservare il “privilegio” e di perpetuare lo “sfruttamento” della “classe lavoratrice”: padronato, privilegio, sfruttamento, classe lavoratrice essendo per i marxisti le magiche parole che aprono tutti i serrami della Storia, tutto spiegano dimostrano esauriscono.

Per opportunismo e viltà morale questa interpretazione grottescamente antistorica, nonché ingiuriosa per il popolo italiano, viene avallata da una schiera di politici e politicanti che in buona parte furono fascisti, e non semplici tesserati, ma “camerati” occupanti in quel regime posizioni di rilievo o designati a occuparle. A questa interpretazione, coniata da faziosità, si è conferito il suggello della legge, onde chi si discosta dalla prescritta falsariga sappia di vivere pericolosamente. Le leggi dell’”apologia” e del “vilipendio” indicano che su questo punto la libertà è in Italia libertà di coprire di contumelie gli uni e di panegirici gli altri – dove le antiche monarchie assolute non avevano mai chiamato il giudice a decidere su problemi di valutazione storica – e praticamente esse dimostrano che l’antifascismo accetta il contraddittorio solo con un avversario imbavagliato. Vergata inappellabilmente la condanna, è stata messa in moto la strapotente macchina della moderna tecnica propagandistica, a cominciare dal cinematografo, per divulgarla, universalizzarla, impregnarne i cervelli, filtrarla nella scuola, renderla ovvia e totalitariamente acquisita, generando un conformismo che fa puntuale riscontro al conformismo fascista: il tutto a beneficio e gloria dei marxisti.

Ma dinanzi ad un onesto impegno di comprensione e di memoria le cose stanno diversamente. Riguardo alle origini bisogna ricordare in quali circostanze della nostra vita nazionale sorse quella dittatura: sorse, come ogni dittatura sorge, quando la classe politica, paralizzata dalle sue opposizioni interne, fu praticamente inoperante e, mentre il Paese aveva necessità di un governo efficiente, i politici si mostravano impotenti a darglielo. Ettore Janni, che molti ricorderanno eccellente giornalista e scrittore, oltre che galantuomo esemplare e fermo oppositore del fascismo, fu del gruppo liberale nella XXV legislatura e scrisse un libro, “Memorie di deputato”, che dà un’idea di ciò che fosse allora Montecitorio.

In siffatti frangenti diviene inevitabile che si parli di divario fra “Paese legale” e “Paese reale”, e se si trova sulla scena un uomo adatto alla funzione sorge il governo personale; il parlamento, che si era da sé stesso avvilito nelle risse, e nelle stucchevoli logomachie, viene “esautorato”; il potere esecutivo, sino al giorno innanzi servo ammanettato del legislativo, ne diviene il padrone burbero e spicciativo. Tutto ciò può venir deplorato, ma è come deplorare il vento dove si forma una depressione barometrica. La Storia, come la natura, odia il vuoto.

 

Come sarebbe stato bello e utile se i ragazzi italiani, chiamati a studiare la storia sui banchi di scuola dopo il 1945, avessero avuto più professori come Piero Operti e un po’ meno professori marxisti, imbevuti di materialismo storico, i quali pretendevano di spiegare tutto con le parole magiche: padronato, privilegio, sfruttamento, classe lavoratrice; e per i quali i fascisti erano stati solo una banda di criminali assoldata dal “padronato”. Invece, la stragrande maggioranza dei professori apparteneva proprio a questa categoria; i libri di testo erano stati scritti e confezionati da autori che seguivano la vulgata; intellettuali, politici, giuristi, tutti quanti giuravano e spergiuravano che il fascismo era stato un fenomeno delinquenziale sorto inspiegabilmente, pressoché dal nulla, che aveva brutalmente spezzato il pacifico e ordinato cammino della società italiana verso la piena democrazia, aveva congelato e svuotato la dialettica parlamentare, ingabbiato l’informazione e l’educazione pubblica; ma che poi aveva pagato il filo dei suoi delitti, il popolo era insorto contro i suoi carnefici, vassalli di uno spietato occupante straniero, e aveva ripreso in mano il proprio destino, riscattando l’onore nazionale. Il tutto sostanzialmente per merito proprio e con un marginale contributo degli eserciti riuniti di mezzo mondo, i quali, sempre causalmente, si trovavano allora a calpestare il suolo della Patria, non però in veste di nemici, bensì di amici e liberatori, cosa che creava un vincolo di eterna stima e gratitudine fra noi e loro. Si vede che le decine di migliaia di uomini, donne e bambini seppelliti sotto le macerie delle loro case non erano morti a causa dei gangster dell’aria, ma per qualche morbo misterioso; e quanto alle vittime delle foibe e alla tragedia dell’esodo giuliano, chi ne sapeva nulla?, proibito parlarne. Proibito anche parlare della mattanza di vittime inermi dopo il 25 aprile del ‘45 per mano dei partigiani comunisti: sarebbe stato un attentato al mito della Resistenza, un bieco tentativo d’infangare la memoria limpidissima Volontari della Libertà e, in maniera subdola, di riabilitare gl’infami criminali fascisti. Proibito anche ricordare che il Parlamento, nel primo dopoguerra, aveva smesso di funzionare; che i partiti erano impegnati a combattersi con ogni mezzo e che il partito di maggioranza relativa, quello socialista, non che a governare nell’interesse della Patria, accarezzava il sogno di fare la rivoluzione nell’interesse dell’Internazionale; che la folla socialista e comunista prendeva a sputi e schiaffi i reduci dal fronte, i decorati, i mutilati di guerra, strappava loro le medaglie e le mostrine, cantava Bandiera rossa e insultava il nome della Patria. Proibito ricordare che, nella valle del Po, le leghe rosse esercitavano una tirannia de facto, decidevano chi poteva trovare lavoro e chi restar disoccupato, facevano il bello e il cattivo tempo per tutta la popolazione, senza minimamente curarsi dei veri sentimenti della maggioranza; proibito ricordare che il loro modello e il loro mito era il bolscevismo, non certo la democrazia parlamentare; che gli scioperi paralizzavano il Paese ogni giorno, e che qualsiasi categoria di lavoratori poteva pretendere un aumento di stipendio, minacciando l’immediata sospensione dei servizi pubblici, anche i più essenziali, per esempio minacciando di aprire le porte delle carceri e lasciar uscire tutti i delinquenti.

Per tutti noi che abbiano avuto, alle medie e al liceo, dei professori di storia e filosofia di sinistra, i quali ci hanno raccontato la storia alla maniera di Togliatti e di Luciano Canfora, e non certo alla maniera di Piero Operti; i quali non ci hanno insegnato a ragionare con la nostra testa, ma solo a ripetere le loro filastrocche preconfezionate, le loro frasi stereotipate, insomma che ci hanno fatto, o tentato di fare, il lavaggio del cervello; a noi che abbiamo anche subito i danni colossali del ’68, la demenza del sei politico, delle lauree regalate, degli scioperi al posto delle lezioni, dei collettivi e dei cortei al posto dello studio serio e della riflessione onesta: che fatica è stata cominciare a capire, da soli, come erano andate le cose; che fatica è stata rendersi conto che eravamo stati plagiati e instupiditi da una grande menzogna collettiva e recuperare, un centimetro alla volta, la nostra autonomia di giudizio, la nostra libertà di pensiero. Eppure la battaglia non è affatto terminata; al contrario. Quei professori di sinistra hanno continuato a occupare la maggioranza delle cattedre; i libri di testo hanno continuato a tramandare la vulgata di comodo dei vincitori; ed entrambi seguitano a fare il lavaggio del cervello agli studenti, anche se ora non hanno più come modelli Lenin e Stalin, ma Obama e perfino Macron. In una cosa non son cambiati affatto: nel servilismo verso i più forti. Ieri sfilavano dietro le bandiere rosse; oggi dietro quelle arcobaleno dei Gay Pride...