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Democrazia e diritti umani: tra Minneapolis e Hong Kong, il mirabile modello statunitense

di David Nieri - 01/06/2020

Democrazia e diritti umani: tra Minneapolis e Hong Kong, il mirabile modello statunitense

Fonte: David Nieri

È notizia di qualche ora fa. Un ragazzo di 19 anni è stato ucciso a Detroit, Michigan, da alcuni colpi d’arma da fuoco provenienti da un Suv. Spari indirizzati contro la folla di manifestanti che stava protestando per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd, avvenuta qualche giorno fa a Minneapolis, Minnesota.
Quelle foto, quelle immagini le abbiamo viste tutti: il quarantaseienne George Floyd è stato costretto a terra per circa nove minuti con un ginocchio sul collo da un poliziotto bianco, Derek Chauvin, successivamente arrestato. Un’altra notizia di queste ore ci dice che Chauvin ha già ucciso in passato e che nel suo curriculum di servizio non mancano ripetuti episodi di violenza. Al momento, l’autopsia sulla vittima esclude “una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”. Ma Floyd soffriva di ipertensione arteriosa e problemi coronarici; dunque, senz’altro, la brusca e prolungata costrizione a terra è stata determinante a causarne il decesso. Alcuni passanti che hanno scattato le foto e ripreso la drammatica scena hanno sentito Floyd implorare l’agente di allentare la presa perché non riusciva a respirare. Certo è che non è stata una morte accidentale.
Le proteste contro i metodi violenti delle forze dell’ordine statunitensi si stanno estendendo in tutto il paese, tanto che il lockdown è scattato anche alla Casa Bianca, assediata dai manifestanti. Il Pentagono ha chiesto all’esercito di allertare diverse unità militari per essere dispiegate a Minneapolis. Insomma, il finimondo. Ma non si tratta di una questione “razziale” – o meglio, non solo –, come possiamo ben immaginare: in piazza ci sono ragazzi di ogni colore; e ci sono istanze tra le più diverse che stanno riemergendo dopo l’apnea cui le ha costrette il coronavirus, che magari ha contribuito ad amplificarle: povertà, perdita di lavoro, enormi diseguaglianze sociali. Forse addirittura un obiettivo più “concreto”, con nome e cognome: il presidente Donald Trump.
Gli aspetti che più stupiscono, tra i contorni della drammatica vicenda, sono principalmente due. Perché in effetti una normale coscienza inquadrerebbe l’episodio di Floyd in modo indiscutibile: orrore e violenza gratuita.
Prima di tutto, sconcerta la tendenza di molti media – ben supportati dai loro “destinatari”, che certe cose vogliono (anche) sentirsele dire –, tra cui parecchi di “casa nostra”, nel considerare la tragedia una sorta di strumentalizzazione per avvalorare la tesi del “razzismo al contrario”: in poche parole, si sarebbe esasperata la portata mediatica di un bruttissimo fatto di cronaca – selezionato tra i tanti – solo perché l’agente è bianco e la vittima è nera. A parte il fatto che, nel paese esportatore di democrazia, non è la prima volta che tali episodi accadono – anzi, succede molto spesso –, le tante manifestazioni alle quali stiamo assistendo stigmatizzano anzitutto i metodi brutali della polizia e i gravi disagi sociali, non il colore della pelle. Personalmente, considero questo discutibile atteggiamento una sorta di strumentalizzazione “inversa”, decisamente poco onesta da parte di chi sostiene che i video sono stati taroccati, che le persone “bianche” uccise dalla polizia nell’arco di un anno sono più numerose – certo, è pur vero che quella bianca rappresenta oltre il 60% dell’intera popolazione statunitense – e chi ne ha più ne metta pur di corroborare la tesi che “l’uomo nero” non deve migrare in Europa, soprattutto in Italia. Che l’integrazione tra diverse etnie non può esistere, perché porta inevitabilmente a tensioni sociali (avete visto a Minneapolis?). Il fatto è che lì, alla fine, in quel gorgo di sovranismo de noantri e di patriottismo da tre centesimi e mezzo che si va a finire. In questi casi, l’uomo nero viaggia solo nella nostra testa. E non è africano, bensì autoctono. Il silenzio, di fronte a eventi come questo, sarebbe cosa buona e giusta.
Il cortocircuito, poi, si rafforza nel constatare l’atteggiamento di Donald Trump nei confronti della Cina, principale antagonista per quanto riguarda la posizione dominante sullo scacchiere geopolitico ed economico mondiale dei prossimi decenni. Uno dei pomi della discordia è Hong Kong: durante l’ultima conferenza stampa tenuta all’interno della Casa Bianca assediata, il tycoon ha alzato un nuovo muro tra gli Stati Uniti e la Cina. A farne le spese sarà anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già accusata da Chiomarancio di essere filo-cinese: “Gli Usa metteranno fine alla loro relazione con l’Oms”, ha annunciato. Ma nel mirino di Trump è finita soprattutto la nuova legge approvata da Pechino sulla sicurezza nazionale a Hong Kong che, di fatto, elimina il dissenso interno penalizzando i reati di sedizione, separatismo, ingerenza straniera e tradimento, aprendo al dispiegamento di emissari di Pechino responsabili della difesa della sicurezza nazionale nell’ex colonia britannica. La Repubblica Popolare intende così arginare i movimenti di protesta scatenatisi negli ultimi mesi, che hanno subìto un arresto solo a causa della pandemia. Si parla di eliminare le esenzioni che conferiscono alla città un trattamento speciale, con conseguenti sanzioni economiche, perché l’“autonomia” dell’ex colonia è stata minata.
Dunque, in definitiva, per le cause democratiche del paese delle libertà esistono manifestazioni che sono più manifestazioni delle altre. Alcune da sedare, altre da incoraggiare, secondo il principio dei due pesi e delle due misure. Perché Hong Kong, anche se non più sotto il dominio britannico dal 1997, è il fulcro occidentale dell’Oriente: sette milioni di persone, un profondo porto naturale, un cuore economico straordinariamente pulsante. Va però ricordato che il ciclo di proteste tuttora in corso è iniziato nel 2019 in seguito al tentativo dell’amministrazione filo-cinese di Hong Kong di introdurre una nuova legge che prevederebbe la possibilità di estradare nella Cina continentale tutte le persone accusate di gravi reati, ovvero crimini punibili con una pena superiore ai sette anni di detenzione. Non si tratta, propriamente, di “limitazioni delle libertà”.
È pur ipotizzabile che alcune trame oscure strategicamente orientate si celino tra le pieghe di queste manifestazioni di “dissenso”, soprattutto per quanto riguarda il versante cinese (si ricordino le recenti primavere arabe). Difficile comprendere adesso, ma sono sicuro che il tempo ci racconterà molte cose.
Ad oggi possiamo solo prendere atto degli eventi e osservare. Con la consapevolezza che la storia non è affatto finita. Fukuyama se ne faccia una ragione.