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Dietro le mire di Trump sul Venezuela

di Salvo Ardizzone - 13/11/2025

Dietro le mire di Trump sul Venezuela

Fonte: Italicum

In questi giorni, il Mar dei Caraibi vede la più grande massa di assetti militari dal tempo della crisi dei missili di Cuba nel 1962. Gli Stati Uniti vi hanno concentrato almeno 6 cacciatorpediniere classe Burke, la LHDIwo Jima - nave d’assalto anfibio in gergo militare - e le due LPD classe San Antonio - navi da trasporto anfibio- appartenenti al suo gruppo d’assalto, insieme a forze dei marines che superano di gran lunga una normale Marine Expeditionary Unit, avvicinandosi addirittura alla stazza di un Marine Expeditionary Group. A questi assetti, si è aggiunto il Carrier Strike Group della portaerei Gerald Ford, partito dall’Adriatico e appena arrivato nell’area. Inoltre, F 35 e altri velivoli sono stati trasferiti nelle tre basi aeree di Puerto Rico, oltre a bombardieri B-1 Lancer e un’infinità di personale del Comando Operazioni Speciali, incluso il 160° Reggimento Operazioni Speciali. 
Una simile dimostrazione di forza tende a una sola cosa, a una classica operazione di coercizione a cui gli USA ci hanno abituato da sempre, ovvero, a un cambio di regime a Caracas, magari – nelle intenzioni della Casa Bianca - provando a sostituire Maduro con Corinne Machado, recente premio Nobel per la pace che ha invocato un intervento armato nel suo paese. 
Le motivazioni addotte dagli USA sono peggio che ridicole, ammesso che, dal falso incidente del Golfo del Tonchino alla provetta di Colin Powell sventolata all’ONU, Washington si sia mai curata di giustificare seriamente le sue sistematiche aggressioni. La storiella di oggi è che il Venezuela sia un narco-stato (bufala) e Maduro ispiratore, regista e boss dei trafficanti che inondano gli Stati Uniti di stupefacenti (doppia bufala). In nome di questa favola inconsistente, gli USA hanno preso ad affondare barche di presunti narcos (al momento almeno 17) e uccidendo chi vi sta sopra (a oggi una settantina di persone) senza alcuna contezza di chi sia. A tutti gli effetti esecuzioni extragiudiziarie. 
S’è giunto all’assurdo che i naufraghi superstiti di alcuni attacchi, raccolti dall’US Navy, sono stati rimpatriati. In altre parole, i comandi americani ritengono di avere motivi sufficienti a uccidere quella gente, ma non prove per processarla dinanzi a un tribunale. Una condotta spudoratamente illegale che il mese scorso ha indotto l’Ammiraglio Alvin Holsey, comandante del SouthCom responsabile delle operazioni, a dimettersi.
Parlando di cose più serie, i motivi dell’operazione in corso sono molteplici, da quelli politici ad assai solidi argomenti economici. Da quanto è emerso, nella nuova National Defence Strategy l’enfasi è posta sull’emisfero occidentale, ovvero sulle Americhe, in una riedizione aggiornata della Dottrina Monroe. Insomma, la costruzione di una Fortezza America, una sfera d’esclusiva influenza da cui il fu Egemone, che non si rassegna al declassamento di rango, vorrebbe proiettare i suoi interessi nel mondo. 
Inoltre, sempre rimanendo nella sfera politica, ci sono altre ragioni: Trump ha bisogno di un successo e, dopo aver fallito con la Russia, poi nel tentativo di piegare l’Iran, ha scalato ancora la stazza del bersaglio mettendo nel mirino il Venezuela. Del resto, ci aveva già provato durante la sua prima Amministrazione, sostenendo un improbabile cambio di regime con l’ancor più improbabile Juan Guaidò; tentativo naufragato, dopo tanti insuccessi, prima nel ridicolo e poi nell’oblio. Da sottolineare che allora la Casa Bianca poteva contare anche sull’appoggio di Colombia e Brasile, oggi tutt’altro che consenzienti.
Ma venendo a più concrete motivazioni, gli USA hanno bisogno di materie prime: nel tentativo di fermare le dinamiche mondiali, ovvero, di contenere le nazioni che reclamano il loro posto nel mondo, con sanzioni e dazi hanno spezzato le catene di approvvigionamento che si erano consolidate finendo però per autoemarginarsi, ovvio destino di chi si pensa onnipotente. Di qui il tentativo di controllare in altro modo materie prime e minerali critici del mondo. Quantomeno, quelli della parte di pianeta che ritiene di propria esclusiva pertinenza. 
Il Venezuela ha le più grandi riserve di greggio conosciute (oltre 300 miliardi di barili). Non solo. Particolare che viene raramente evidenziato è che quel petrolio è del tutto compatibile con le raffinerie americane perché, giova ricordarlo, il greggio non è affatto tutto uguale e ogni raffinerie è tarata a processarne un tipo. Inoltre, il Venezuela è ricco d’oro, essenziale nella instabilità odierna, e di una grande varietà di minerali critici, terre rare incluse, che non ha potuto valorizzare a causa della scarsità di capitali conseguente alle sanzioni americane. Un cambio di regime che privatizzasse quelle risorse, ovvero, le svendesse alle Mayor americane, permetterebbe loro un business colossale. 
Inoltre, disporre a piacimento di quelle riserve, permetterebbe agli USA di danneggiare sia la Cina, maggior cliente del petrolio venezuelano, sia la Russia, depotenziando il suo peso, oggi decisivo, sul mercato dell’Oil. E, per dirla tutta, le minacce di intervento in Nigeria (altro grande produttore petrolifero) e l’irriducibile contrapposizione all’Iran (tradizionale fornitore della Cina), unite alle pressioni sull’Arabia Saudita (grande venditore di greggio a Pechino) vanno in questo senso. Infine, gli enormi giacimenti trovati di recente nella Guyana Esequiba, al confine orientale del Venezuela e di cui esso rivendica da sempre la sovranità, hanno attirato un via vai di vertici delle Mayor americane e dell’Amministrazione USA nella Guyana. 
E per inciso: per le medesime ragioni, nel mirino di Washington c’è pure la Colombia, e non certo per la questione della droga, di cui la CIA è da sempre attore primario del mercato, ma per la ricchezza di minerali critici come coltan, litio o nichel. E perché essa è al centro degli interessi commerciali, industriali e infrastrutturali cinesi. Per tutti valga il progetto di collegamento via treno fra Mar dei Caraibi e Pacifico, l’IntraoceanicCorridor, conseguente alla recente adesione della Colombia alla Belt and Road Initiative, che ha fatto infuriare Washington. 
E qui veniamo a un’altra considerazione di fondo che fa propendere il fu Egemone all’azione, ovvero, alla penetrazione di Pechino e Mosca in Sud America; collaborazione ritenuta essenziale dagli stati dell’area, ma considerata irricevibile dalle Amministrazioni USA di qualsiasi segno, use a giudicare quelle nazioni al pari di colonie da manovrare a piacimento per i propri interessi, giungendo a sanzionare il legittimo Presidente colombiano Gustavo Petro, perché s’è mostrato critico verso alcune iniziative degli Stati Uniti e al loro incondizionato appoggio a Israele. Ma tant’è, gli USA ci hanno abituati alla loro arroganza.
Tornando al Venezuela, Washington punta al regime-change ma non riesce a trovare la persona adatta su cui puntare; non lo era Juan Guaidò, non può esserlo Corina Machado, al di là della propaganda occidentale conosciuta solo da pochi e ancora da meno sostenuta. Hanno provato in tutti i modi di trovare il loro uomo all’interno della cerchia bolivariana, per dirla alla loro maniera, a scovare il loro “bastardo”, ma inutilmente. Sono arrivati a promettere – inutilmente - una barca di milioni al pilota personale di Maduro perché dirottasse l’aereo presidenziale portandolo in una base USA dei Caraibi. E c’è un perché di questa coesione.
Quando Chavez divenne presidente del Venezuela, nel 1998, troncò i rapporti militari con gli USA, non permettendo più che i quadri delle Forze Armate venezuelane venissero formate – e condizionate – dagli americani. Allo stesso modo, le sue politiche smantellarono in larga parte l’oligarchia simbiotica agli interessi USA, favorendo la creazione di un establishment alternativo. Con ciò tagliando operatività e radici alle leve del potere statunitense. Questo, sommato a una popolazione sensibile a temi nazionali e in buona parte politicizzata, ha creato un ambiente resistente ai continui tentativi di sovversione e di rivoluzioni colorate, che pure sono stati provati in ogni modo. 
Inoltre, i governi di Chavez e poi di Maduro hanno cercato sistematicamente sponde internazionali avverse a Washington, che hanno avuto – e hanno – tutto l’interesse a sostenerli: l’Iran, che ha da sempre uno stretto rapporto con il Venezuela bolivariano; la Cina e la Russia, che vedono in quel paese un partner prezioso. 
Cosa accadrà? Stando così le cose, è improbabile un cambio di regime per via politica, a causa di mancanza d’alternative appena credibili, come pure lo è immaginare una capitolazione del governo a seguito delle sanzioni che, Storia insegna, semmai consolidano un regime non lo abbattono. Resta la soluzione militare: più facile a dirsi che a farsi. 
Il Venezuela non è Panama: è vasto circa tre volte l’Italia, in gran parte coperto da jungla e con uno strumento militare magari non eccelso ma tutt’altro che disprezzabile, e il ponte aereo in atto con la Russia di certo non trasporta vodka. Inoltre, a complicare le cose per un invasore, c’è la presenza di una fitta rete di milizie governative abituate a muoversi in quel contesto difficile. In uno scenario simile, mettere scarponi a terra sarebbe un suicidio, non solo militare ma politico: come reagirebbe l’opinione pubblica americana dinanzi alle inevitabili perdite? 
Resta la consueta dinamica a Stelle e Strisce: attacchi aerei e lancio di cruise nel tentativo di decapitare i vertici del governo venezuelano. Azione più che possibile ma dall’assai incerta riuscita, che imporrebbe comunque agli USA – già in drastica crisi di credibilità - un prezzo politico altissimo. Dopo l’appoggio a oltranza dato al genocidio perpetrato da Israele, sanzioni e dazi imposti a casaccio e una condotta delle relazioni internazionali quanto meno ondivaga, un attacco equivarrebbe a certificare l’aggressività e l’inaffidabilità americana, ovvero, ad avallare dinanzi al Sud del Mondo la narrazione di Cina e Russia. E accreditarle ancor di più quali affidabili interlocutrici, esatto opposto degli USA.
Sia come sia, il dispositivo militare americano non può stare dinanzi alle coste venezuelane in eterno, costa un’enormità e logora uomini e mezzi. Magari aspetterà per qualche tempo che la CIA, già ufficialmente autorizzata da Trump, tenti qualche operazione coperta per destabilizzare Maduro ma, alla fine, dovrà prendere una decisione.
A mio parere, per quel che conta, finirà per prendere di mira infrastrutture e porti, raccontando d’aver polverizzato le basi dei narcos, e celebrando, a uso interno, un’inesistente vittoria per quelli che ci vorranno credere. Comunque vada, il mondo è ormai cambiato e ciò che è stato non tornerà più, egemonia americana inclusa. Inutile tentare di farlo capire a Washington.  
L’articolo è stato tratto dalla rubrica Il Filo Rosso, tenuta dall’autore sulla testata web Il Vaso di Pandora.