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Dopo Destra e Sinistra

di Giulio Menegoni - 11/12/2023

Dopo Destra e Sinistra

Fonte: La Fionda

“La Pace è finita”  titola un fortunato saggio di L. Caracciolo recentemente pubblicato. La Storia si è rimessa in moto ed è appena il caso di starne al passo, se non si vuole esserne travolti. Ma il passo, per muoversi, ha da superare l’inciampo. La pietra che gli vieta la via. Il laccio che lo trattiene. Nulla si muove da sé, nessun ostacolo si toglie senza resistenza. Un vecchio ordine deve cadere affinché uno nuovo possa apparire.

Nel solco di questa titanica impresa si situa il saggio di Vincenzo Costa (Categorie della Politica. Dopo Destra e Sinistra, Rogas Edizioni, 2023) che qui presentiamo. L’autore, docente di Filosofia Teoretica presso l’Università Vita-Salute di Milano, non nasconde a sé e al lettore l’alta finalità e l’improbo obiettivo del testo. Si tratta, infatti, di «iniziare a sgomberare il campo da un ordine concettuale» (cit.), il pensiero binario, soprattutto quello che irretisce la sovrabbondanza del politico nelle maglie strette della diade Destra/Sinistra, vera e propria superfetazione retorica ad uso e consumo delle classi dominanti, dispositivo di riproduzione del dominio trasversale del mercato contro ogni altro interesse. Nel caso specifico, la Diade Destra/Sinistra va superata, afferma Costa, «perché non rispecchia l’articolazione dell’esperienza, la sovrascrive e le toglie la parola» (cit.). Ma lo scopo del saggio è ben più ampio di questa singola rimozione, ed infatti l’Autore invita con forza a «lasciarsi alle spalle l’organizzazione binaria che caratterizza il pensiero politico della modernità» (cit.) in senso globale. Non si tratta, infatti, di operare per sostituzione, optando per una diade migliore (popolo/elites; basso/alto) – azione a cui peraltro molta letteratura critica si è dedicata negli ultimi anni. La proposta di Costa è diversa: adottare un «modello topologico» (cit.) capace di organizzare le differenze che caratterizzano la complessità della società moderna in modi contestuali e determinati, secondo i problemi specifici che la vita pone davanti alla comunità, rinunciando a ogni pretesa onnicomprensiva e astrattamente universalista, che non può che «stermina[re] le differenze di cultura politica» (cit.), rendendo il politico inadatto di fronte alla sfida più alta: mediare il mondo della vita con il sistema delle istituzioni politico-statuali. Va cioè affrontato e risolto il «problema determinato» (cit.), l’esito esiziale, generato dal pensiero binario: la crisi di legittimazione del potere, data dal disallineamento tra ambito istituente e ambito costituente, cioè tra potere politico e potere sovrano, tra la politica, variamente intesa, e il popolo, nelle sue varie forme.

Il saggio in esame, denso e articolato, si sviluppa attraverso sei capitoli strettamente interrelati in cui l’autore spazia da analisi storico-critiche a osservazioni filosofico-politiche, ripercorrendo l’affermazione, il successo e la crisi delle categorie classiche del pensiero politico novecentesco, tematizzandone le relative “trasformazioni strutturali” (cap.1), esplorando con perizia le variazioni di significato, i ribaltamenti dialettici, le contraddizioni ideologiche di queste categorie, con particolare riferimento – va detto – alla categoria di Sinistra (cap. 2), che spicca maggiormente come oggetto critico del testo, il quale comunque non si risparmia dall’analisi delle antinomie della Destra, la quale risolve la sua supposta alternatività in una mera opposizione verbale, utile solo a tenere in piedi il teatro della “democrazia recitativa”, per usare una fortunata espressione di E. Gentile (capp. 3-4), per concludere poi con l’analisi degli ambiti che offrono maggior resistenza alla comprensione nella diade Destra-Sinistra (cap. 5) e la presentazione di alcune coppie categoriali funzionali al rinnovo della teoria politica futura (cap. 6).

Costa, aprendo il saggio, si concentra soprattutto sull’analisi storico-politica dei cosiddetti “Trenta penosi”  (W. Streeck, Tempo guadagnato, 2013), cioè gli anni Ottanta, Novanta e Duemila, animati dall’ideologia della “Fine della Storia” (F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), , in cui «nulla può più accadere» (cit.). Egli mette in evidenza come in questo contesto Destra e Sinistra si siano poste quali categorie interne al neoliberismo, animate entrambe dalla volontà di gestire razionalmente l’esistente, deponendo ogni virtù trasformativa (progressiva o regressiva) e dedicandosi completamente alla cura del funzionamento statale in ottica mercatista, aventi come unico scopo la cura del mercato e la difesa dei suoi interessi, di contro agli interessi del popolo, vero nemico di questa mutazione tecnicistica del politico. Il popolo, osserva Costa, compare solo quando è chiamato alla funzione del tutto passivizzata del voto. L’estromissione delle classi subalterne dal governo (e dal politico in generale) è per il resto totale. Esiti naturali di questa nuova disposizione macchiettistica del popolo sono l’astensionismo, forma passiva di manifestazione del dissenso, e il populismo, forma attiva di depoliticizzazione del panorama nazionale.
In questo contesto, Destra e Sinistra, ormai prive di identità autonome, non possono che significarsi nella vicendevole reazione, con la prima impegnata a proporre una gamma di valori del tutto contraddittori rispetto alla propria base economica (l’appello ai valori della tradizione piccolo-borghese mentre il neoliberismo lavora per la loro stessa dissoluzione), laddove la seconda si trincera dietro una pretesa superiorità morale pelosa e imbelle, conservando solo nel linguaggio i temi della giustizia sociale che intanto contribuisce nettamente a negare. Sono gli anni del berlusconismo, in cui «le classi subalterne cessano di essere soggetto storico» (cit.), costrette e ridotte dentro l’universalismo astratto e astorico liberale. Il successo di questa trasformazione pone il sistema “Destra e Sinistra” come alternanza senza alternativa, in cui all’analisi delle contraddizioni storico-materiali si sostituisce l’appello ai buoni sentimenti, che sono buoni solo quando confermano il mercato come cespite unico della verità. Il responso dei mercati diventa, infatti, l’unica bussola dell’azione politica. Il concetto di emancipazione è sostituito dal concetto di crescita. Il progresso risolto nello sviluppo.

Tutto il politico è mutato, l’elemento trasformativo è muto. Il concetto di lotta viene dimesso e a sua volta sostituito dal concetto di giustizia. Costa riflette con cura sulle implicazioni politiche di questo passaggio, evidenziando come non si tratti di un affinamento della comprensività del concetto originario, bensì di una sua perversione: la lotta, elemento situato in un punto di vista designante una soggettività particolare (la classe) viene abbandonata in nome dell’universalismo astratto, uno «sguardo da nessun luogo» (cit.) che tende alla «dissoluzione di ogni differenza collettiva» (cit.), a disinnescare ogni conflittualità particolare in nome della valorizzazione esclusiva delle differenze individuali, dichiarando di fatto regressive le differenze collettive (comunità, tradizioni, appartenenze di classe).

Questa totale depoliticizzazione delle masse, osserva Costa, si accompagna alla destoricizzazione della distinzione Destra-Sinistra. Assieme ai popoli viene rimossa la storia stessa. Di conseguenza la giustizia non si afferma più come «rimozione di un privilegio o rifiuto di un dominio» (cit.), che sono storicamente determinati e vanno storicamente conquistati – bensì come dono, elargizione spontanea, alogica, eventuale (nel senso di evento, epifania, manifestazione assoluta), del tutto scorrelata a una qualsivoglia forma di prassi politica. La giustizia è dunque ottriata e non esito positivo di un conflitto.

Di fatto, puntualizza l’Autore, la diade Destra-Sinistra crea una «neorealtà» (cit.) in cui la politica sembra autonoma mentre diviene in realtà «mera funzione del sistema economico e del mercato» (cit.). Sul piano filosofico le conseguenze sono ancora più radicali e dirompenti: Costa mostra come la Sinistra abbia occultato il poter-essere, risultante dall’analisi concreta del reale, in nome di un astratto dover-essere, con un passaggio dal piano politico al piano deontologico così radicale da causare una vera e propria delegittimazione della «esperienza effettiva di vita» (cit.) del popolo, il quale si è trovato ultimamente a vedere descritta ogni sua peculiarità come tendenza latente, quando non diretta espressione, di regresso reazionario-fascista. Questo elemento, secondo l’Autore, qualifica l’intera cultura progressista, che, nei fatti, si manifesta come «eterno bullismo» (cit.) verso i modi di esistere e sentire delle classi subalterne. L’esito finale di questa perversione dell’universalismo astratto (genitivo soggettivo) è l’inversione della logica politica democratica: non sono più i popoli a scegliersi i governi, ma il governo a scegliersi il popolo. Quest’ultimo, evidenzia l’Autore, diventa oggetto di una ortopedia politica che mira a ridefinirne la prassi e la coscienza. Esempio tipo è l’affermazione bipartisan del concetto di meritocrazia, sulla quale convergono esplicitamente Destra e Sinistra: i problemi sociali non vengono affrontati attraverso la trasformazione delle strutture che li causano, ma attraverso la rieducazione di coloro che li subiscono. È il trionfo delle politiche attive del lavoro basate sulla  formazione anodina delle soft skills dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, i quali dovrebbero essere resi capaci di competere nuovamente sul mercato della forza-lavoro. In tal modo diffondendo e radicando nella società quello spirito competitivo e che sta alla base della traduzione post-moderna del tema dell’eguaglianza nel tema delle pari opportunità e della distruzione delle strutture relazionali mutualistico-solidaristiche in nome di una continua e infinita performatività antagonistica.

In questo contesto la Sinistra assume le vesti di una avanguardia morale «che deve emendare il popolo dalla proprie patologie» (cit.), tutta impegnata in questo sforzo di negazione dell’identità del popolo e della sua cultura specifica, in nome di una missione civilizzatrice di cui si è autoinvestita. In sostanza, afferma Costa, il mondo tecnico invade e ristruttura il concetto di politico, dismettendo le dicotomie classiche (borghesia/proletariato, amico/nemico, sacro/profano, tradizione/emancipazione) e dando enfasi assoluta alla governabilità e alla stabilità, infettando con la malattia amministrativa l’ambito politico.


Egualmente critica è la posizione dell’Autore nei confronti della cosiddetta “Sinistra antagonista”, la quale a suo modo partecipa alla distruzione della tradizione socialista europea affrancandosi sempre più chiaramente dall’esperienza di classe dello sfruttamento per accedere a una visione in cui l’essenza del potere non sta più nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, bensì nei dispositivi disciplinari, i quali non rimandano a un dominio di classe, bensì a un meccanismo anonimo ma onnipervasivo: la sorveglianza. Nella paranoia antidisciplinarista il potere invade ogni attività umana, permea ogni relazione. Sicché ogni forma classica di relazione (comunità, tradizione, classe) diventa nemica in quanto riproduttrice di dispositivi disciplinari. L’emancipazione proposta dalla Sinistra antagonista si configura allora come «dissoluzione del legame» (cit.)  comunitario. Non può quindi che essere nemica del popolo, il quale vuole conservare, poiché vitale, proprio quel legame che la Sinistra intende invece sciogliere. Emerge, evidenzia Costa, la tendenza anarchica e individualista della Sinistra, la quale  in questa furia del dileguare travolge il popolo e si pone in posizione aristocratica, esprimendo un’idea di società affine a quella della Destra, fondata sull’esclusione del popolo dalla dignità politica. Il popolo, fino a poco prima soggetto emancipatore per eccellenza, centro assiologico della politica attiva, ora diventa classe ignobile, non più degna di essere difesa. La perversione operata è totale: la Sinistra antagonista si mostra non più interessata a mediare le necessità della sopravvivenza delle classi popolari, passando da demistificatrice del potere a demistificatrice della cultura popolare, gretta e regressiva – vero obiettivo critico, in puro spirito aristocratico. Le classi subalterne non solo smettono di essere soggetti emancipatori, ma cessano anche di essere soggetti da emancipare: diventano, puntualizza l’Autore, ricettacolo di ogni male (razzismo, sessismo, repressione). Il conflitto diventa un conflitto di identità individuali (normali vs anormali), che non mette più in discussione il mercato come soggetto dello sfruttamento.

Costa però non si limita a stigmatizzare gli esiti antipopolari dello sviluppo della Sinistra occidentale, ma mostra come lo schema Destra-Sinistra sia del tutto incapace di restituire una concettualizzazione della realtà effettiva. Tale schema infatti non coglie un’opposizione all’opera nella realtà, bensì maschera retoricamente l’articolazione della grande borghesia, squalificando come irrazionale ogni forma di vita che non si inquadri dentro lo schema medesimo. E lo schema Destra-Sinistra non riesce nemmeno a configurarsi, secondo l’Autore, come compito, realizzazione di qualcosa non-ancora-effettuale. Esso infatti non si pone la questione materiale fondamentale, e cioè il fatto che «la ricchezza [venga] prodotta socialmente e che la sua distribuzione sia quindi un fatto sociale» (cit.). Una volta rimosso questo fatto fondamentale, argomenta Costa, la questione dell’eguaglianza viene disaccoppiata dal tema dello sfruttamento, e con ciò la nozione di giustizia perde ogni capacità operativa, divenendo mero appello alla bontà d’animo, inetta e imbelle, del tutto incapace di dettare limiti al mercato, che diviene «distributore unico della giustizia» (cit.). Proprio da questa consapevolezza emerge nell’Autore la necessità di abbandonare l’opposizione lineare semplice e accedere a una articolazione topologica delle categorie politiche in cui il significato dei termini non sia definito prima e fuori della relazione stessa. Ciò permetterebbe di comprendere come le coppie oppositive si articolino differentemente in epoche diverse, restituendo dignità politica alla sfera dell’esperienza e della vita.

Ma le sfide dell’oggi fino a che punto riescono ad essere addomesticate nello schema ideologico della diade Destra/Sinistra? Nonostante la sua schematicità, la diade Destra-Sinistra sembra essere in grado, finora, di riassorbire le principali sfide. Su tutte, nota l’Autore, emerge quella lanciatale dal populismo. La diade Destra/Sinistra è infatti riuscita, distinguendo un populismo di destra da uno di sinistra, ad arginare il fenomeno del populismo dal basso attraverso il ricorso alla mimesi della strategia discorsiva populista, operando cioè un populismo delle élites (populismo dall’alto). Attraverso questa strategia il potere è riuscito a raccogliere e disciplinare il consenso attorno a una serie di significanti vuoti, disattivando così la forza dello spirito di rivendicazione attivato dal populismo. Il vero problema di quest’ultimo, sottolinea Costa, è che esso, nonostante intenzioni, auspici e tentativi, non è il modo in cui il popolo entra nei sistemi politici, né può esserlo, in quanto si limita a raccogliere consenso negativo, senza riuscire ad attivare il popolo attorno ad un programma positivo di cambiamento. Ciò che invece, del populismo, non è stato assorbito dalla diade Destra-Sinistra è, scrive Costa, il «populismo nel mondo della vita» (cit.): la disaffezione verso la politica è generalizzata, il disconoscimento del sistema di potere è ampio e diffuso. Ciononostante il popolo, nel mondo della vita, «non ha strategie, solo tattiche» (cit.). Senza guida e struttura politica non riesce a darsi prospettive di medio-lungo periodo, soprattutto se trasformative, e si limita all’adattamento e alla sopravvivenza. Ma queste possibilità sono tenute a bada dal sistema informativo mass mediatico, che continua a rendere egemonica la diade Destra-Sinistra, rovesciando il funzionamento della circolazione democratica. Infatti, come i governi ormai si scelgono i popoli, così nella narrazione massmediatica non è più il mondo della vita a diventare visibile, bensì è la visibilità massmediatica a costruire il mondo della vita. I media, afferma Costa, non rappresentano (più?) la realtà, bensì la producono. Ma anche nell’ambito della comunicazione massmediatica si è aperta una sfida che mette in discussione il dominio dello schema Destra-Sinistra, osserva l’Autore. È il mondo dei social media, in cui la comunicazione assume la forma di un reticolo informativo, nel quale si moltiplicano i canali espressivi, in una continua creazione e distruzione di aggregazioni strutturate attorno a singoli temi. I social media, afferma l’Autore, hanno quindi svolto un lavoro di delegittimazione dei massmedia, arrestando così il «processo di colonizzazione mediatica» (cit.)  del mondo della vita a partire dalla diade Destra-Sinistra. Ciononostante i social media, potenti in chiave oppositiva, sembrano ancora incapaci di produrre forme di aggregazione positiva, unica forma poi capace di tradursi in ambito politico e quindi di contestare efficacemente il potere costituito.

Ulteriore sfida irriducibile a Destra-Sinistra è la sfida del mondo multipolare. L’Autore sottolinea con vigore che, nel contesto della fine della globalizzazione, l’Occidente non può limitarsi a rappresentare l’altro da sé con «le sembianze del mostruoso, dell’irrazionale, del patologico, dell’anomale, dell’arretrato» (cit.). Ciononostante, l’Occidente non sembra saper far altro che questo, in nome della prospettiva etnocentrica sviluppata dall’universalismo astratto dello schema Destra-Sinistra, che porta giocoforza alla negazione del pluralismo delle culture. Si prospetta un compito politico radicale – se solo ne fossimo capaci, sembra dire l’Autore –, cioè quello di liberare l’Europa dall’europeismo e tornare ad abitare questa terra-cultura secondo il suo carattere fondamentale: «la capacità di assumere il punto di vista dell’altro senza diventare l’altro» (cit.), accedendo a una razionalità dinamica e concreta che si contrapponga a quella statica dell’universalismo astratto.

Dunque, che fare?

Si apre davanti a noi uno «scontro epocale tra chi è radicato in una storia e chi ha perso ogni radicamento» (cit.), tra «cultura delle differenze e cultura dell’indifferenziato» (cit.), tra una cultura delle identità intese come strutture di relazione costituentesi nella differenza, e una cultura dell’indifferenziato in cui non vi sono identità e tantomeno differenze. All’interno di questo spazio politico si tratta dunque, afferma l’Autore, di riprendere in mano le categorie della realtà (identità/differenza, tradizione/emancipazione, inclusione/esclusione, ospitalità/ostilità) e liberarle dalla sovrascrittura ideologica liberale, che attraverso la manipolazione attuata dalla diade Destra-Sinistra, ha impedito loro di essere declinate in nuovi sensi, secondo schemi topologici e non lineari. In sostanza, sembra di capire da alcuni importanti passaggi del saggio, è prioritario richiamarsi alla storia del popolarismo-socialismo italiano precedente alla perversione neoliberale e ritrovare in queste tradizioni politiche gli spunti necessari a rimodulare nel mondo contemporaneo la complessità del mondo della vita e delle identità popolari con le sfide inedite che il mondo multipolare ci pone davanti, tessendo nuove trame di significato, travalicando le concrezioni storiche naturalizzate , dando seguito e respiro a quella sovrabbondanza semantica che l’esperienza di vita dei popoli ci offre, ricordando sempre che la politica efficace e in grado di rispondere al suo intimo compito – rendere i popoli soggetti della propria storia – implica il riconoscere «il possibile nel reale» (cit.), contro ogni infantilismo utopico e contro ogni variazione cosmetica del potere costituito. Vasto programma.