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Dopo destra e sinistra

di Andrea Zhok - 16/01/2024

Dopo destra e sinistra

Fonte: Andrea Zhok

Il saggio Categorie della Politica. Dopo destra e sinistra (Rogas Edizioni, Roma 2023) rappresenta un esercizio filosofico atipico. L’autore, Vincenzo Costa (d’ora in poi C.), è studioso noto come profondo conoscitore della tradizione fenomenologica, e il fatto di dedicare un lavoro (peraltro non il primo) ad una monografia che, secondo le stantie categorizzazioni dell’accademia, dovrebbe rientrare forse sotto la voce “filosofia politica” potrebbe sembrare un azzardo. In verità questo testo rappresenta un’ottima dimostrazione di come il rispetto pedissequo dei confini scientifico-disciplinari sia nel migliore dei casi un pregiudizio accademico, nel peggiore un modo per isterilire la riflessione e ridurla a gioco intellettuale per pochi intimi. Il testo di C. utilizza ricorrentemente tesi e concetti derivanti dalla formazione fenomenologica (intersoggettività, mondo-della-vita, ecc.) a supporto di un’analisi critica della contemporaneità, concreta e culturalmente graffiante.
Il testo si articola in sei capitoli, con un andamento fortemente unitario e organico.
Nel primo capitolo (“Trasformazioni strutturali delle categorie del politico”), l’autore mette sul tavolo i temi di fondo del volume. L’analisi prende le mosse dalla vicenda politica italiana e specificamente da quella frattura che ha luogo negli anni ’80 e che viene sancita con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica”. Viene immediatamente precisato, a scanso di equivoci, che il discorso sul superamento delle categorie di Destra e Sinistra, annunciato nel sottotitolo, non ha nulla a che fare con l’appello neoliberale alla “deideologizzazione”. Niente è più lontano dall’impianto di questo volume dell’idea che Destra e Sinistra sarebbero da superare perché non ci sarebbe più bisogno di prospettive ideali, ma basterebbe la “concretezza dei progetti”, magari affidabili a selezionati “governi tecnici”. Il testo si muove davvero in direzione di un abbandono di molte astrazioni nella sfera politica, ma non certo nel senso di una “depoliticizzazione”.
Il testo ha un carattere essenzialmente analitico, anche se traspare a tratti un principale oggetto polemico, rappresentato dall’involuzione storica della “sinistra”: per quanto l’analisi critica si rivolga in maniera parimenti severa contro le astrattezze della Destra e della Sinistra, le critiche più articolate sono riservate a quest’ultima (forse per prossimità biografica a quelle posizioni).
La critica alla sinistra sfocia naturalmente in critica all’intellighentsia di sinistra, e dunque come critica al ruolo degli “intellettuali” che, anche quando si propongono, o si sono proposti, come alfieri del popolo, hanno in effetti profuso soprattutto grandi energie a spiegare come e quanto il popolo fosse in errore a non seguire, di volta in volta, i dettami d’avanguardia di questo o quell’intellettuale.
Scrive a questo proposito C.:
“La nascita del PD non fu un incontro tra tradizione socialista e popolarismo cattolico: fu il progetto del loro sterminio. Le due tradizioni dovevano essere cancellate proprio in virtù del loro nesso con le classi popolari e con il loro “conservatorismo temperamentale” (Orwell).” (58)
La menzione di Orwell è legata ai meno noti testi dell’Orwell saggista, recuperati al dibattito contemporaneo da J.C. Michèa. L’idea che nel popolo, o almeno in certe espressioni del popolo, si riesca a preservare una modalità di giudizio di semplice concretezza, più prossima al “mondo-della-vita” è un’idea portante del volume. Come risulterà chiaro al lettore più attento, non si tratta qui di un’idealizzazione di comodo del “popolo”, ma del frutto di qualcosa di difficilmente argomentabile attraverso citazioni o pezze d’appoggio documentali: una reale frequentazione. C’è nelle pagine di C. una consapevolezza non comune tra chi ha dedicato la vita allo studio. Il più normale dei meccanismi psicologici negli studiosi, non da oggi, è quello di trovare una propulsione motivazionale alle proprie fatiche attraverso una, aperta o dissimulata, assunzione di superiorità rispetto a chi non ha varcato i sacri cancelli del proprio sapere. Si tratta di un atteggiamento umano e comprensibile, ma purtroppo potenzialmente latore di numerosi danni. Se la finezza dello studio, che si tratti dei sonetti del Petrarca, dell’architettura gotica o degli scritti precritici di Kant, conferisce qualche vantaggio di giudizio lo fa solo a patto che la cultura non rimpiazzi i saperi del mondo-della-vita, ma vi si innesti come un ampliamento. Sciaguratamente è molto più frequente la prima opzione: l’“alta cultura” crede di poter essere tale librandosi a mezz’aria o scalciando sotto di sé, mentre è “alta” se e solo se monta solidamente sul patrimonio di saperi e giudizi concreti che nutrono l’interazione quotidiana, altrimenti è l’ennesimo nano che si spaccia per gigante.
Il titolo del secondo capitolo (“La sinistra antagonista, o: dell’aristocrazia”) lascia comprendere come questo tema possa venire sviluppato. L’attenzione critica qui passa dalla sinistra progressista alla cosiddetta “sinistra antagonista”. Le analisi di questo capitolo sono a mio avviso tra le più interessanti del volume, a partire dalle considerazioni sulle radici marxiane della sinistra “radicale”. La premessa di questa analisi critica è chiaramente un’ampia condivisione del grande contributo di Karl Marx alla concettualità contemporanea, ma proprio per questa posizione simpatetica la critica è particolarmente acuta. A Marx viene imputata un’essenziale incomprensione del ruolo sociale della tradizione.
Scrive C.:
“Marx non coglie che una cosa è ciò che il potere fa delle tradizioni culturali, un’altra sono le tradizioni culturali in quanto ciò che fa essere le esistenze in esse radicate. Mentre il primo aspetto appartiene alla critica dell’ideologia, il secondo è la vita stessa delle classi popolari: è il loro essere, non la falsa coscienza del loro essere.” (63)
Questo punto è a mio avviso molto interessante, anche se forse estremizzato. Se è vero che nelle pagine marxiane non appare una trattazione della tradizione che ne sottolinei il carattere di radicamento comunitario intertemporale, è anche vero che l’eredità hegeliana in Marx, con il suo concetto di Aufhebung, rende l’idea marxiana di storia qualcosa in cui il passato non viene mai completamente obliterato, ma permane. Sarà più Engels e il socialismo positivista di fine ‘800 ad accentuare nel marxismo il carattere “obliterante” della tradizione.
Sia come sia, se della posizione di Marx si può discutere, non c’è dubbio che l’interpretazione prevalente della tradizione nel marxismo sia di tipo “obliterante”: la tradizione è, illuministicamente, mera zavorra irrazionale da sovrascrivere razionalmente. E qui si trova indubbiamente il punto di innesto dell’accostarsi, paradossale ma chiarissimo, della sinistra radicale al liberalismo. Con il venir meno della priorità della “lotta di classe” negli anni ’70 la sinistra antagonista si ritrovò, senza comprender bene cosa fosse accaduto, a coltivare un libertarismo individualista perfettamente iscritto nella tradizione liberale.
Ma oltre al tema della tradizione, c’è una seconda osservazione critica, a mio avviso ancora più profonda, che investe la riflessione marxiana, una critica che chiarisce bene le ragioni di un’involuzione politica altrimenti enigmatica: l’eredità marxista non difetta semplicemente sul piano della comprensione del senso della tradizione popolare, ma, più radicalmente, non comprende che la tematizzazione economica, per quanto cruciale e per quanto possa essere intesa nel senso radicale della “struttura” marxiana, non è in grado (diversamente dalla tradizione) di creare alcun profondo senso di comunanza:
“Dalla mera posizione comune rispetto ai mezzi di produzione non si origina alcun ‘noi’. Una comunanza di interessi economici non genera un ‘noi’, ed è questo limite profondo che ha reso alla lunga il marxismo inutile e disfunzionale dal punto di vista storico.” (64)
È a partire da questa doppia incomprensione che l’intellighentsia di sinistra, e parliamo qui di quella che si voleva “sinistra autentica”, “radicale”, ha finito per alienarsi nel modo più spettacolare la sfera popolare. Alle classi subalterne si è continuato a rimproverare di non adeguarsi al compito storico che gli intellettuali avevano loro assegnato, e dunque di “imborghesirsi”, laddove l’alternativa all’“imborghesimento” prendeva sempre più la forma di un ribellismo adolescenziale travestito da sofisticatezza culturale.
Un esempio eccellente di quest’ultima istanza è rintracciata da C. in Foucault, la cui lotta senza quartiere ai “dispositivi di potere”, essendo tali dispositivi ubiqui, diviene un modo per assolverne o oscurarne alcuni (p. 67). Per Foucault “l’uomo è il risultato di una tradizione, che vive in ognuno di noi come stratificazione che si è sedimentata, e ciò che Foucault ha di mira è la distruzione di ogni “tradizione”, poiché il potere alla fine non è altro che questa.” (p. 79)
Se tutto è dispositivo di potere che mira al controllo della persona, allora “non si tratta più di emanciparsi da forme di legame oppressivo, ma di cercare la dissoluzione del legame, perché è il legame in quanto tale a essere oppressivo”. (p. 68) In questo modo il potere non è più rappresentato né da una classe, né da un sistema produttivo, ma dalla società in quanto tale. Questo percorso conduce spontaneamente all’aristocratismo e libertarismo individualista in cui la sinistra radicale si è accoccolata a partire dagli anni ‘70. In questo contesto il “discorso sull’inclusione”, rimuovendo dal discorso pubblico il principale generatore di esclusione e di sfruttamento, cioè il mercato, finisce per isitituire tacitamente la più radicale delle esclusioni, quella delle classi popolari tout court. (p. 71).
In questo contesto C. sottolinea come dinamiche paradossalmente affini a quelle della vecchia “sinistra radicale” possono albergare anche nel “ribellismo antisistema” che tenta di superare destra e sinistra, nella misura in cui non porsi mai come obiettivo niente di meno del “crollo del sistema” finisce spesso per impedire di “portare alla luce il possibile nel reale” (72).
Nel terzo capitolo (“Destra/Sinistra: schema concettuale o realtà?”) C. osserva come la diade Destra-Sinistra sia divenuta un modo per organizzare nominalisticamente e retoricamente gli interessi in forme irrigidite, funzionali alla visione del mondo liberale. Destra e Sinistra si dispongono in una rappresentazione spaziale unidimensionale che per sua stessa natura blocca e castra ogni tentativo di seguire le esigenze e i bisogni emergenti dal “mondo-della-vita”. Presentando come naturale una sola articolazione questa strutturazione concettuale produce “una serie di ingiunzioni: se sei per l’uguaglianza devi anche essere progressista e nemico della tradizione, della religione, ecc. D/S prescrivono allora delle serie associative che vanno prese in blocco e non sono articolabili in maniera diversa. In questo modo la diade svolge la sua funzione ideologica, sovrascrive l’articolazione del mondo della vita, lo colonizza e cerca di imporgli una griglia di concetti a esso estranea.” (106)
Nel quarto capitolo (“La diade D/S come sistema di esclusioni”) C. mostra analiticamente come la tendenza a ribadire l’intrascendibilità delle categorie di Destra e Sinistra si esplichi in un fattivo ostacolo ad altre possibili organizzazioni, concettuali e pratiche, del sistema politico. (p. 111)
“La funzione della diade è creare una polarizzazione che articola un campo liberale omogeneo che esclude come irrazionalità ed estremismo tutto ciò che si presenta come sua alternativa.” (p. 114)
L’opposizione unidimensionale tra Destra e Sinistra ha dunque una funzione prescrittiva e non descrittiva. Tutto ciò che mira a trasformare l’ordine sociale esistente (non necessariamente per via rivoluzionaria) finisce per ricadere al di fuori della sfera del legittimamente politico (p. 119-120)
Nel quinto capitolo (“Sfide: irriducibili a D/S”) fa capolino il fantasma del “populismo” come possibile nome per un approccio politico irriducibile alla dicotomia unidimensionale Dx/Sx. Qui è particolarmente interessante come C. identifichi un rischio fondamentale nel populismo teorizzato dai suoi interpreti più affermati (Laclau, Mouffe). Questo populismo finisce per ricadere inavvertitamente ma fatalmente in una nuova versione della diade Dx/Sx. Ci si ritrova a trattare con un “populismo di destra” e un “populismo di sinistra”, dove “populismo” è semplicemente il nome di una strategia di conquista e amministrazione del potere. Populismo qui significa verticismo (leaderismo) fondato su significanti vuoti. Ma l’unico populismo accreditabile come effettivamente alternativo alla dicotomia Dx/Sx è l’opposto dell’astrattezza parolaia che caratterizza i populismi di destra o di sinistra; un “populismo nel mondo della vita” ha solo tattiche e non strategie, in quanto si muove nell’immanenza dei problemi e della ricerca delle soluzioni, rifuggendo da schematismi e ideologismi astratti.
Ma qui C. si scontra con un problema strutturale, di cui è ben consapevole, ma la cui soluzione è tutt’altro che ovvia. Un simile “populismo del mondo della vita” è in effetti un esercizio di democrazia reale e per poter esprimersi ha bisogno di condizioni di contorno ben definite, ovvero della costituzione di una sfera pubblica, con un’opinione pubblica formata e informata. Crearla doveva essere il compito dei corpi intermedi (partiti, associazioni, sindacati, ecc.), il cui fallimento nel fare ciò ha condotto all’odierno collasso della sfera pubblica. La degenerazione dei partiti in partitocrazia ha partorito la “mediacrazia”, il governo dei media.
“I media non si limitano a rappresentare l’evento o a nasconderlo: la loro funzione è di farlo accadere. La TV non rappresenta la realtà, la produce, e non perché la falsifica, ma perché trasforma in realtà un modello. (…) Gli eventi non esistono fuori dai media: come tutte le costruzioni mediatiche ogni evento può essere dissolto dai media. Una guerra finisce quando sparisce dai video. (…) I media non costruiscono una storia, ma spezzettano l’esperienza in una serie di istanti frammentati.” (133)
Rispetto all’orizzonte spudoratamente manipolativo dell’odierno apparato mediatico i social media hanno (o forse avevano) un potenziale correttivo. I social media sono in effetti efficaci a generare aggregazioni contro, dal basso contro l’alto. Essi, tuttavia, se permettono una decodifica dei messaggi, non pervengono mai ad un codifica egemonica oppositiva. Nel funzionamento dei social media la pars destruens ha strutturalmente la meglio sulla pars construens.
La chiusa del quinto capitolo presenta le fondamentali tesi positive del testo, tesi che hanno a che fare essenzialmente con il tema dell’identità collettiva (politica, culturale, storica, sociale). L’atto di nascita della ragione liberale fu il rigetto strutturale delle guerre di religione. In quell’atto inaugurale ogni identità collettiva sostanziale venne respinta come pericolo, come potenziale latore di un conflitto. Nel testo si mostra come in forme diverse Destra e Sinistra ereditino quell’impianto, operando per una distruzione di ogni identità, in maniera più esplicita l’universalismo progressista della sinistra, in maniera dissimulata la destra, che fa dell’identità un vuoto mito retrò, una tradizione morta liberamente strumentalizzabile. La direzione in cui si muove l’analisi è invece quella di una rivalutazione dell’identità e perciò della differenza. Questa polarità non è infatti in alcun modo contraddittoria sul piano storico e collettivo. L’identità è relazione e apertura all’altri, il dialogo esiste solo tra identità. Quest’idea portante si dispiega all’interno di ciascun corpo politico sul piano della storia e della tradizione, e si esplica nei rapporti tra corpi politici diversi come rispetto e attenzione alle identità altre. L’affacciarsi odierno della prospettiva multipolare è visto da C. come un primo autentico ingresso nella “storia universale”, l’hegeliana Weltgeschichte, che non è la storia occidentale: “Ogni cultura si appropria della modernizzazione e della tecnica innestandola nella propria tradizione”. (144)
Secondo C. questo non significa affatto disdegnare i pregi della grande tradizione europea, ma al contrario recuperarne un elemento caratterizzante sin dal socratico “sapere di non sapere”: il “pensare la storia come una molteplicità o pluralità di storie.” (149)
Nel sesto e ultimo capitolo (“Verso il futuro: categorie della politica dopo Destra e Sinistra”) l’autore si mette alla prova con una serie di dicotomie trasversali a quella di Dx/Sx in uno sforzo di ampliare lo sguardo teorico e di esercitarlo su prospettive politiche non stantie. Tra le varie opposizioni dicotomiche che vengono prese in considerazione la prima, tra differenze e indifferenziato, è però forse quella che meglio riassume il senso complessivo del volume:
“Forse il grande scontro epocale verso cui ci avviamo non è tra Destra e Sinistra, ma uno scontro quasi antropologico tra chi è radicato in una storia, e cerca di attualizzarla, rinnovarla – perché riprendere e lasciare le consegne delle generazioni passate a quelle futura sono atti della libertà quanto il rifiutarle – e chi ha perso ogni radicamento, memoria, e ha in odio ogni cultura, ogni differenza, perché non avendo radici non le comprende. (…) Il conflitto che si sta aprendo è tra due tipi di esistenza, tra una cultura delle differenze e una cultura dell’indifferenziato. Una cultura delle identità, che proprio perché identità sono strutture di relazione e si costituiscono nella differenza, e una cultura dell’indifferenziato in cui non vi sono identità e dunque neanche differenze. L’identità non è infatti una chiusura, ma l’assunzione di una finitezza e di un’incompiutezza.” (153-154)
A lettura conclusa il volume di C. dà l’impressione di essere un lavoro nato per affrontare un nodo particolare del panorama politico (la dicotomia Dx/Sx)  e ritrovatosi, per lo sviluppo interno dei problemi, a trattare di temi speculativamente cruciali. A tratti il testo sembra ancorarsi in questioni particolari di politica italiana, per poi portare d’un tratto il lettore di fronte a temi globali e di rilievo storico. Il testo riesce in effetti a togliere la quotidianità spesso abbrutente della politica dalla sua dimensione spicciola, mostrandone il carattere decisivo ed epocale. I temi della storia, dell’identità, della tradizione, dell’intersoggettività, del contrasto tra sustruzione teorica e mondo-della-vita si intersecano nel testo dando un respiro filosofico inusitato per un’analisi politica. Naturalmente questa collocazione di mediazione tra la sfera dell’attualità (o semi-attualità) politica e la sfera dell’approfondimento speculativo espone il testo a un doppio rischio, da un lato di risultare speculativamente sottoargomentato in alcuni passaggi di particolare peso e dall’altro di risultare in altri passaggi di non semplice fruizione per il lettore filosoficamente ignaro. Ma questo è un destino inevitabile a chiunque cerchi di mediare tra livelli che, purtroppo, mai nel dibattito pubblico vengono fatti interagire.