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Due ecologie

di Guido Dalla Casa - 08/05/2022

Due ecologie

Fonte: Guido Dalla Casa

   L’idea più frequente che nasce nell’opinione pubblica quando si parla di azione “verde”, è che questa consista essenzialmente nel tenere presente che il “naturale progresso dell’umanità” deve avvenire senza inquinamenti o danni alla salute umana. In sostanza, quella che viene chiamata azione ecologista è la “protezione dell’ambiente”: non inquinare, mantenere pulito il paesaggio, installare filtri e depuratori. Questa è “l’ecologia di superficie”.

   Secondo questa ecologia, in cui si mantiene una profonda distinzione fra l’uomo e l’ambiente, la Terra va tenuta pulita perché è “l’unica che abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi. In definitiva la posizione centrale e del tutto particolare della nostra specie non viene messa in discussione. In questa visione del mondo la Natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta comunque sempre “res”, si tratta di “proprietà”, di patrimonio comune, qualcosa che si può e si deve “utilizzare”.

   Questa posizione assomiglia molto all’idea di un Organismo (la Natura, la Terra) visto come “ambiente” di un suo tipo di cellule (la nostra specie).

  Forse è ora di farsi domande più profonde e di evidenziare qualcosa a cui molti non hanno mai pensato soltanto perché le concezioni che respiriamo fin dalla nascita appaiono ovvie, cioè non appaiono affatto.

   Nell’ecologia detta “profonda”, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.

   Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa. Qui l’idea occidentale sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.

   Nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono valori “in sé” l’equilibrio globale e la varietà e complessità delle specie viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione” sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o negative.

   Con queste premesse la cosiddetta “produzione”, tanto cara alla nostra civiltà, è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti. Lo stesso termine “civiltà” è inutile e pericoloso, perché sottintende un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare, considerata ovvia.

   La cultura occidentale non è riuscita ancora a concepire un’etica della vita e resta ancorata a una morale che si interessa esclusivamente dell’umanità. Per oltre mille anni si è consolidata in Occidente la concezione della Genesi, che vuole la nostra specie “signora e padrona del Creato”, che risulterebbe addirittura “fatto per noi”!

   Questo quadro concettuale, dominante nella cultura europea e medio-orientale da molti secoli, forniva già tutte le premesse per iniziare una sistematica distruzione della Natura, ma mancava qualcosa: il potere tecnico. La spinta decisiva per entrare in possesso di tale potere è venuta dalla diffusione del pensiero di Cartesio, Bacone, Locke ed alcuni altri e dalla sistemazione delle scienze fisiche ad opera di Newton.

   Quando le concezioni di Cartesio, forse anche sull’onda di alcune felici intuizioni matematiche, si sono fatte strada nelle menti dell’Occidente, ecco formarsi il più espansivo e distruttivo modello culturale mai apparso sul Pianeta: la civiltà industriale. E con essa è scoppiato il dramma ecologico.

   Come noto, nel pensiero cartesiano vi è una netta distinzione fra lo “spirito” e la “materia”: l’uomo è l’unico essere dotato di spirito. Tutto il resto, vivente o non vivente, è solo materia bruta, quindi manipolabile senza problemi morali. Così la fisica poteva rivolgersi a sistemare il mondo della materia che diveniva una specie di gigantesca Macchina, retta da rigide leggi meccaniche.

    Il meccanicismo ha guidato la scienza ufficiale fino al ventesimo secolo ed è la base dell’attuale pensiero corrente delle genti di cultura occidentale. Da questo sottofondo è sorta la civiltà industriale e quindi è iniziato lo sviluppo economico: quando arriva questo modo di pensare, scompaiono l’equilibrio dell’animo e l’armonia del mondo.

   Ora passiamo velocemente in rassegna alcune “novità” dell’ultimo secolo, consapevoli che per una modifica profonda della filosofia di base di larghi strati di popolazione c’è bisogno di alcuni secoli, dopo i primi segni di cambiamento. Purtroppo oggi non abbiamo a disposizione neppure qualche decennio per evitare che l’espansione demografica ed economico-industriale trascini il mondo verso eventi gravemente traumatici.

   Con la rivoluzione copernicana il centro dell’Universo passa dalla Terra al Sole: si tratta del primo passo per mettere in discussione la posizione della nostra specie, di un primo spostamento dalla posizione centrale, anche se ci vorranno secoli per percepirne l’effettiva portata. Tuttavia l’esclusiva spirituale della nostra specie non viene ancora minimamente intaccata.

   All’inizio del diciannovesimo secolo, l’evoluzione biologica, espressa per la prima volta in termini occidentali da Jean-Baptiste de Lamarck (1809), ha intaccato decisamente l’idea che l’umanità sia un “frutto di creazione separata”. Tuttavia si è persa un’ottima occasione per una vera svolta culturale, poiché invece di mettere in evidenza il fatto essenziale, cioè l’appartenenza della nostra specie alla Natura e quindi la necessità di seguirne le grandi leggi cicliche, l’evoluzione fu successivamente inquadrata in pieno nel meccanicismo imperante: venne evidenziata soprattutto l’idea di “selezione naturale e sopravvivenza del più adatto”, cioè venne adottata l’interpretazione di Carlo Darwin (1859). Alcuni degli aspetti superficiali della teoria di Darwin sono stati assimilati immediatamente e sfruttati in modo da legittimare ancora di più la visione meccanicistica del mondo.

   L’evoluzione poteva soppiantare ben più a fondo la concezione precedente, ma questo non è avvenuto: si è soltanto sostituito il “diritto divino” con una specie di “merito selettivo”.

   Passiamo alla fisica. Il massimo del meccanicismo, dove l’Universo è come un gigantesco Orologio e tutte le sue parti dei “meccanismi” separabili in pezzi sempre più piccoli, è stato raggiunto alla fine del diciannovesimo secolo. Anche gli esseri viventi erano considerati “macchine” straordinariamente complicate.

   C’erano i 92 atomi, specie di palline indivisibili, che costituivano tutta la realtà fisica, in cui agivano anche i “campi”. Lo spazio e il tempo erano realtà assolute e in essi si svolgevano tutti i processi. I fenomeni psichici venivano tenuti completamente separati o considerati “immaginari” e negati.

   Il pensiero corrente si basa in generale ancora su queste posizioni.

   Con la relatività speciale (1905), la fisica meccanicista o classica comincia a vacillare: spazio e tempo perdono ogni connotazione assoluta, materia ed energia diventano la stessa cosa. Con la relatività generale (1916), la gravitazione diventa geometria dello spaziotempo.

    Ma già nei primi anni del secolo ventesimo si prepara un’altra rivoluzione ancora più profonda, quella portata dalla fisica quantistica, che si esplicita nel 1927 con il principio di indeterminazione formulato da Werner Heisenberg e con gli studi successivi sull’argomento. La cosiddetta interpretazione di Copenhagen, sostenuta soprattutto da Niels Bohr e confermata nei decenni successivi, nega l’idea di “realtà oggettiva” e la possibilità di separare, anche solo concettualmente, il fenomeno dalla sua osservazione, ovvero la materia-energia dalla mente.

  E’ impossibile distinguere lo spirito dalla materia. Ciò significa che lo psichismo deve essere universale. Altrimenti, quali sono i sistemi con lo status di “osservatore”? Recentemente il fisico italiano Rovelli ha chiarito che questo significa che non esistono oggetti, ma solo relazioni (“l’osservatore può essere anche un fotone”).

Passiamo alla biologia. Negli anni Sessanta del ventesimo secolo, Jacques Monod così concludeva il suo pensiero:

L’antica alleanza è rotta. L’uomo sa finalmente di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo, da cui è emerso per caso. Il suo dovere e il suo destino non sono scritti in nessun luogo. (J. Monod, Il caso e la necessità). Niente ha un senso.

  Ma venti anni dopo usciva “La Nuova Alleanza” di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers: studiando le “strutture dissipative” o lontane dall’equilibrio, come sono anche i sistemi viventi, si trova una tendenza a strutturarsi, ad auto-organizzarsi. C’è una spinta interiore, con un immanente “desiderio” di creare strutture, in sostanza una creazione continua. Con la visione del biologo-filosofo inglese Rupert Sheldrake (La rinascita della Natura, La mente estesa, Le illusioni della scienza) l’immanenza del mentale-spirituale nel mondo acquista connotazioni ancora più definite.

   Nel campo dell’antropologia, si sta tentando ancora di superare, con molte difficoltà, la concezione ottocentesca dell’europeo “civile” che va a studiare i “selvaggi” e ad aiutare i “primitivi”. E’ noto, ad esempio, che Levy-Strauss non ha lesinato critiche a questa superbia culturale dell’Occidente. Ma con la corrente di Marcel Griaule e Jean Servier il quadro di parità fra i modelli culturali umani acquista una connotazione ancora più definita. Secondo Servier:

   Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.

                                                                       (Jean Servier, L’uomo e l’Invisibile, 1967)

   Da questo quadro rinasce una concezione antichissima e un tempo assai diffusa: l’animismo. Una forma di “mente” deve essere ovunque, è insita nell’universale: la distinzione fra spirito e materia cade completamente. Tornano alla memoria il Grande Spirito e lo spirito dell’albero, della Terra, del fiume, della foresta.

Facciamo un breve richiamo a qualche visione che proviene dall’antico Oriente: “Non danneggiare alcun essere senziente” è un’espressione tipica del Buddhismo. Con essere senziente non si intende necessariamente solo un essere individuale cosciente, come nel concetto restrittivo proprio del pensiero occidentale attuale. L’entità mentale può coincidere con l’entità soggetto/oggetto del karma: non si tratta soltanto dell’individuo in senso fisico o meccanicista. I Complessi di Viventi costituiscono, con le loro interrelazioni, fenomeni e soggetti mentali.

Quindi l’invito a “Non danneggiare alcun essere senziente” può essere inteso come una prescrizione sommamente ecologica e non come un semplice invito a diventare vegetariani; a parte che naturalmente anche i vegetali e i complessi ecosistemici di vegetali e animali sono da intendersi come “senzienti”.

   In conclusione, invece del Dio-Persona distinto dal mondo e giudice delle azioni umane, abbiamo trovato il Dio-Natura immanente in tutte le cose, e quindi anche in noi stessi. La Divinità osserva sé stessa anche attraverso gli occhi di una marmotta, o di una formica, o l’affascinante e misteriosa sensibilità di un albero.