E se il cinema camminasse con le sue gambe?
di Marcello Veneziani - 16/05/2025
Fonte: Marcello Veneziani
Ma dove sta scritto che lo Stato debba finanziare il cinema? Da dove nasce quest’obbligo di adozione riguardo alcuni ambiti della cultura anziché altri? In base a quale automatismo etico, ideologico, industriale si deve imporre questo assistenzialismo, questo protezionismo, questo statalismo in altri campi rigettati come una lebbra o una vecchia tara?
Non entrerò nel merito della polemica insorta in questi giorni sul cinema, e non mi occuperò dei singoli protagonisti, dei firmatari e dei manifestanti contro il governo che toglie i soldi al cinema ed è per questo considerato autoritario, reazionario e liberticida, cioè in una parola fascista. Porrò invece una questione di fondo. Lo Stato deve garantire a tutti i cittadini e alla cultura, la libertà di esprimersi; i suoi unici limiti sono quelli stabiliti dai codici, civile e penale. Per il resto ognuno ha il diritto di esprimere le sue idee e nel caso specifico di fare i film come meglio o peggio crede, dal suo punto di vista. Per la stessa ragione, di quei film che produce, che dirige, che interpreta, ne ha la piena responsabilità e se ne assume costi e benefici. È un discorso elementare, che in altri settori, anche culturali, della nostra vita, viene accettato come pacifico; e invece nel cinema e in pochi altri campi no, è d’obbligo l’Aiuto di Stato, e bisogna renderlo automatico, magari scritto nella Costituzione. So bene che per scrivere un libro non c’è bisogno di metter su un’impresa industriale come fare un film; non si coinvolgono maestranze e capitali, anche se qualcosa del genere – anche se più in piccolo – accade nella grande editoria, che per pochi è industria editoriale e per tanti è artigianato. Per realizzare un film ci vogliono invece capitali e si coinvolgono un sacco di persone: però è un’attività imprenditoriale, e comporta un rischio d’impresa. Perché mai lo Stato deve farsene carico, e a prescindere dalla qualità, il livello e il gradimento del pubblico? Non è un residuo tossico del tanto vituperato Stato etico?
E se la crisi cinematografica di cui parliamo da decenni, non dipendesse soprattutto dai soldi che non ha ma da quelli che riceve? E se il rimedio non fosse aumentare gli aiuti ma dire: “impara a stare a galla da solo, impara a nuotare in mare aperto”? Ovvero fai i conti con la realtà, non solo del mercato ma le condizioni generali del paese, i gusti del pubblico, le aspettative e il livello d’istruzione, gli orientamenti prevalenti della gente, e rapporta a tutto questo le pretese degli autori, dei registi, degli attori. Insomma prova a camminare con le tue gambe. Il sottinteso non detto dei cineasti di Stato è una sfiducia nel pubblico, un intimo disprezzo per la gente: il popolo non capisce, perciò lo stato deve aiutarci, per supplire a questo deficit del pubblico, ignorante e rozzo.
Lo Stato deve garantire la libertà di espressione con i relativi diritti; ma non deve garantirne soldi e sostegni. Ma come, obbietterete, lo Stato non deve avere a cuore la crescita civile e culturale del Paese, anzi secondo alcuni addirittura la crescita democratica del Paese? Ma chi lo dice che automaticamente il cinema promuova tutto questo e in una direzione oggettivamente e universalmente riconosciuta come tale? Quanti film, quanti video concorrono a peggiorare la qualità civile, morale e culturale del Paese, a deviarla su percorsi ideologici quantomeno parziali e discutibili, a rappresentare la storia, la realtà, la vita con lenti deformanti e a volte false?
Badate che lo stesso discorso varrebbe se ci fosse una produzione di film orientati in senso opposto (E il fatto che non ci sia, vuol dire che “quelli di destra” sono una razza inferiore, o c’è dell’altro? Ponetevi almeno la domanda).
È bene a questo punto che si lasci la libertà di fare, salvo i limiti di legge che prima dicevamo. In questa chiave anche il tema dell’egemonia culturale della sinistra perde interesse: se i tuoi film si affermano al cinema e riescono di fatto a influenzare la società, ti sei meritato l’attenzione che ricevi; viceversa hai meritato la sconfitta. È inutile litigare sulla verità o menzogna dell’egemonia culturale. E accantono in questo discorso il tema che gli ingredienti d’obbligo per dare sostegno ai film (anche privato) sono i soliti quattro: femminismo, lgbtq, antirazzismo, antifascismo; non deve mancare mai uno o più di questi ingredienti, altrimenti sei fuori.
E poi capiamo bene che vuol dire considerare il cinema come cultura. Il cinema è sì in senso lato un’espressione di cultura popolare, e ci sono film che sono opere d’arte e di vera cultura; ma in generale è un’attività a cavallo tra la cultura e l’intrattenimento; il cinema è spettacolo, divertimento e ricreazione, come lo sport, il circo e la sala giochi. Lo dico da amante del cinema. Larga parte del suo effetto è quello, intrattiene, diverte, distrae, ricrea ma può perfino peggiorare i costumi, i linguaggi, le relazioni, la civiltà: pensate ai modelli che spesso propone, agli esempi che indica, alle violenze e agli orrori che mostra. Complessivamente, dunque, il cinema non genera automaticamente crescita civile e culturale, se non in senso indiretto o generico: anche viaggiare, incontrare persone, frequentare associazioni, insomma fare esperienze, serve in senso lato alla crescita civile e culturale, all’istruzione e al confronto. Ma lo stato non finanzia viaggi, tornei, incontri ed escursioni…
Forse un discorso a parte si può fare per le opere di alto, oggettivo e riconosciuto valore culturale ma sul serio (con quelle categorie in passato sono stati aiutati film che erano la negazione della cultura e della civiltà. In quel campo potrebbe avere un senso l’intervento pubblico e il sostegno col denaro nostro: ma devono essere opere di riconosciuto valore, su cui non ci sono divergenze in merito.
Ora torniamo al frangente polemico. Sta passando una doppia idea aberrante: che i cineasti abbiano diritti mentre i governi in carica hanno solo doveri nei loro confronti; i cineasti possono attaccare ministri e governi ma non possono essere criticati dai ministri e dai premier attaccati. La prima sarebbe libertà di opinione, la risposta sarebbe abuso di potere. Traduco: ministro paga, fatti coglionare o criticare e stai zitto. La scusa è che tu rappresenti un potere, mentre io sono un povero, disarmato singolo attore; poi vedi la realtà e ti accorgi del contrario: il ministro è isolato e disarmato mentre gli attori sono un collettivo, una setta, una consorteria, col favore dei media. Lo stesso discorso vale per i comici che possono coglionare i ministri anche in presenza (solo ministri di quel versante politico, s’intende) ma non possono poi essere criticati; dico criticati, non cacciati, silenziati, censurati. Ma criticati. L’unica seria obiezione di opportunità potrebbe essere che un ministro non deve scendere a polemizzare ad personam e nel dettaglio con comici e affini, deve mantenere un profilo più alto, istituzionale. Ma quella è una questione che riguarda il rispetto del suo ruolo, non il rispetto del comico, che non è stato messo in discussione.
Aggiungo infine una notazione aneddotica: l’idea di rovesciare il discorso del ministro per renderlo migliore risale agli anni trenta: fu Leo Longanesi a dire ai suoi redattori di rovesciare un racconto di Alberto Moravia per il rotocalco Omnibus, perché sarebbe diventato più avvincente, come certe stoffe che sono più belle a rovescio. Ma qui parliamo di Longanesi e Moravia, mica di Geppi contro Giuli. Altra stoffa.