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Economia reale ed economia finanziaria

di Andrea Zhok - 19/08/2022

Economia reale ed economia finanziaria

Fonte: Andrea Zhok

Capitalismo e lotta di classe sono espressioni che suonano obsolete. Come tutte le parole ripetute troppe volte, per troppo tempo, ad un certo punto esse stentano ad evocare il significato che originariamente intendevano. Quando un certo strumento viene utilizzato troppo a lungo, esso tende a smussarsi e diventare inefficace.
Tuttavia quando rievochiamo i temi del “capitalismo” e della “lotta di classe” noi dobbiamo riacquisire una prospettiva storica e una capacità di guardarne il cuore concettuale, al di là delle associazioni mentali immediate.
In primo luogo, dobbiamo tenere bene in mente che quando parliamo di "capitalismo" non ci stiamo confrontando con una semplice “opinione politica”, ma con un mutamento storico epocale, che da un lato ha avuto successo perché rispondeva ad esigenze reali, e dall’altro ha anche mostrato in maniera chiarissima la propria natura distruttiva (e parzialmente autodistruttiva). Non siamo sul piano delle opinioni, ma delle pratiche sociali storiche, con la relativa inerzia e tempi che si misurano in generazioni.
In secondo luogo, dobbiamo vedere quale sia il modo migliore per intendere oggi la critica al “capitalismo” e il senso attribuito alla “lotta di classe”.
Il fronte fondamentale nell’elaborazione marxiana non è quello tra “borghesia” e “proletariato”, come talvolta si crede, ma quello tra “capitale” e “lavoro”. Le categorie “borghesia” e “proletariato” rispondevano nella seconda metà dell’800 all’esigenza di dare sostanza all’opposizione tra capitale e lavoro. Ma borghesia e proletariato non sono categorie stabili, né identificano un’opposizione generalizzabile. Nel tempo la natura della borghesia è cambiata, così come quella del proletariato, fino a rendere le due categorie difficilmente applicabili o comunque non esaustive.
Invece l’opposizione tra capitale e lavoro è cruciale, perché risponde a due distinte forme di intendere la relazione sociale.
Il lavoro è, in un senso volutamente ampio, ogni attività umana, creativa o di servizio, autonoma o subordinata, che porti alla luce qualcosa di utile o funzionale al prossimo. Nel lavoro la specie umana modifica il proprio ambiente e si rapporta ad altri cospecifici. Il lavoro è una funzione sociale in cui ciascuno può contribuire alle vita altrui e può ottenere per ciò un riconoscimento personale.   
Il capitale è il prodotto di una tecnica sociale particolare (la pratica monetaria), che ha portato ad un rivolgimento nei rapporti interumani e nei rapporti tra uomo e natura. Il denaro nasce con la funzione di medio di scambio, ma finisce per acquisire un potere autonomo. Come l’analisi marxiana mostra per prima, ad un certo punto l’ordine delle priorità tra mezzo e fine, tra denaro e beni, tra capitale e società si inverte: non è più il denaro ad essere funzionale allo scambio, al commercio, alla società, ma è la società, l’umanità e le sue relazioni a divenire funzioni dell’accrescimento del capitale, che si autonomizza.
Tutto ciò può sembrare molto astratto, ma non è mai stato così chiaro e concreto come oggi. La fase storica cui abbiamo il dubbio piacere di assistere è la più potente espressione ad oggi di questa dinamica.
Essa si esplica nella forma di una subordinazione radicale dell’economia reale all’economia finanziaria.
Se per economia reale intendiamo la componente che gravita essenzialmente intorno al lavoro e al consumo, ad essa si oppone l’economia finanziaria come ciò che gravita intorno alle funzioni di autonomo accrescimento del denaro (che non corrisponde a nessuna entità materiale, ma è una potente convenzione sociale).
Con l’acquisizione di una posizione di sostanziale dominio del capitale nella società, la finalità guida diviene la crescita del capitale stesso (“profitto”, “crescita del PIL”), mentre le modalità con cui ciò accade divengono accessorie, irrilevanti e interscambiabili. In sostanza, la vita umana e le sue forme divengono variabili dipendenti della variabile fissa definita dalle esigenze del capitale.
Questo processo ha un’infinità di implicazioni che non è possibile illustrare qui, ma mi interessa segnalarne un paio, spesso meno evidenziate di quelle canoniche (sfruttamento, speculazione, ecc.).
1) La ratio di una società dominata dal capitale è fondamentalmente nichilistica, e questo la rende imprevedibile e flessibile: non c’è nessun valore, nobile o perverso, cui l’istanza di accrescimento del capitale si subordini. Questo significa che una simile società può sostenere ogni tipo di mostruosità e poi il suo opposto senza battere ciglio, trovando di volta in volta una scusa ad hoc. Le classi dirigenti che si adattano bene a questo modello sociale sono perciò classi dirigenti votate all’ipocrisia e alla menzogna, giacché la loro principale virtù dev’essere quella di far ingoiare al pubblico ogni nuova pillola utile protempore ad un settore vincente del capitale. Questo processo rende la classi dirigenti dei paesi capitalistici progressivamente sempre più degradate e inette.
Se la storia finisse qua, ciò potrebbe segnalare un serio punto di debolezza per le società a dominanza di capitale, se non fosse che questa caratteristica ha anche un aspetto di forza: non fissandosi mai su obiettivi particolari, su visioni ideali, questi ordinamenti sociali sono come agenti virali, capaci di mutare mille forme e tratti pur di moltiplicarsi. Questo può lasciare interdetti coloro i quali attribuiscono al capitale un'ideologia precisa (una sorta di personalità). Così, per guardare ad esempi recenti, nello spazio di un mattino società che se ne sbattevano della sanità pubblica, vista come peso nell’ottica di un tacito darwinismo sociale, possono imporre diktat draconiani invocando gli imperativi della salute pubblica; oppure società che chiedevano di inginocchiarsi di fronte al progetto di emissioni zero possono mettersi a bruciare carbone come se non ci fosse un domani perché l’opportunismo geopolitico lo raccomanda. L’unica coerenza valoriale delle società a dominanza capitalistica è l’incoerenza, l’unica giustizia il doppiopesismo.
2) La ratio di società dominate dal capitale (che non coincidono con le società dove c’è un’economia di mercato) è essenzialmente svincolata da ogni appartenenza territoriale, nazionale, culturale. Siccome ogni realtà sociale concreta è solo un mezzo contingente per i propri fini di autoaccrescimento, il capitale è sempre disposto a spostarsi altrove dopo aver lasciato dietro di sé macerie. Per questo stesso motivo la modellistica sociale alimentata dalle ragioni del capitale è sovranazionale, anticomunitaria, antiidentitaria, liquida.
I soggetti che aderiscono a questa visione non sono leader, sono essi stessi ingranaggi intercambiabili, ma traggono la propria aura dall’aver titolo a spostare masse di capitale. Questi soggetti confluiscono in élite transnazionali che possono trovare un accordo ideologico solo sulla base di agende che contrastano ed abbattono ogni radicamento (naturale o culturale).
L’epoca che si è inaugurata con l’uscita degli USA dagli accordi di Bretton Woods è un’epoca di espansione esplosiva dell’economia finanziaria, che è semplicemente l’articolazione più pura del capitale. Il problema del capitalismo odierno è fondamentalmente rappresentato dalla dominanza di una ristretta élite transnazionale che è disposta a sacrificare senza batter ciglio intere nazioni, interi sistemi produttivi, intere forme di vita, pur di mantenere la funzionalità della grande macchina finanziaria mondiale.
Il principale crinale odierno della lotta di classe, la linea del fronte tra capitale e lavoro è oggi il più netto nella storia: è l’opposizione tra chi vive di lavoro e chi vive di capitale. Naturalmente qui la quantità è qualità. Gioca con le parole chi vuole spiegarti che dopo tutto gli interessi di Black Rock sono allineati con quelli del pensionato che riceve soldi da un fondo pensione, o affitta un appartamento per sbarcare il lunario: dopo tutto entrambi vivono di capitale, no? In una società dominata dalla logica del capitale tutti sono stati in qualche misura obbligati a relazionarsi con le dinamiche stesse del capitale – basta avere un conto in banca – ma questo non rende in nessuna misura simili le agende di chi il sistema lo governa, con chi il sistema lo subisce. E gioca egualmente con i concetti chi fa notare che le capitalizzazioni hanno una funzione fondamentale nell’economia reale odierna. Il problema non è quello di definire le casacche di due eserciti, distinguendo individualmente chi sta di qua e chi di là: il punto sta nell’identificare le linee di interesse, le agende politiche dominanti, e schierarsi rispetto ad esse.
Oggi l’agenda politica delle élite finanziarie transnazionali rappresenta il maggior pericolo non solo per la giustizia sociale, ma per l’umanità stessa.