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Fratello maiale

di Livio Cadè - 21/05/2023

Fratello maiale

Fonte: EreticaMente

Prossimità dell’animale
I cercopitechi sono piccoli primati molto intelligenti. Secondo gli zoologi comunicano tra loro attraverso un linguaggio e una sintassi di sorprendente complessità. Il celebre naturalista A. E. Brehm racconta di aver un giorno sparato a uno di questi animali, che stava tranquillamente appollaiato su un ramo. La scimmietta cadde ai piedi dell’albero. Seduta, si tergeva il sangue che colava dalle ferite. Senza emettere alcun gemito, prima di morire fissò Brehm, e “c’era qualcosa di così umano, di così nobile e di così calmo nel suo sguardo” che il suo assassino ne fu profondamente commosso, al punto che da quel momento non poté più svolgere ricerche scientifiche che implicassero l’uccisione di scimmie. “Mi sarebbe parso di uccidere un uomo”.
Anche il maiale, secondo gli etologi, è un animale dotato di straordinarie capacità mentali, per alcuni il più intelligente dopo lo scimpanzé. Eppure, per soddisfare la richiesta crescente di pancetta e salsicce, ne macelliamo un miliardo e mezzo ogni anno. Sgozzati, appesi ad un uncino a testa in giù per farli dissanguare e immersi in un calderone d’acqua quasi bollente, senza curarsi se siano ancora vivi e coscienti. Ci pensavo, per contrasto, guardando la foto di un uomo che accarezza un maiale con atteggiamento amichevole e fraterno. Messaggio francescano, di riconciliazione tra l’uomo e la natura?
No, nessun ‘fratello maiale’ e nessun invito a mostrare più umanità o pietà verso gli animali. Tale immagine di fraternità avrebbe anzi qualcosa di perverso, rifletterebbe “un’ideologia apertamente nemica dell’uomo sino a volerne la morte”, “un odio di sé”, “un’etica rovesciata”, sarebbe patologica manifestazione di una società terminale. Il rispetto per gli animali viene presentato come complice di deliri gender e transumani nel provocare il disfacimento della civiltà, nel “traghettarci verso la fine”. Dovessi trarne una spiccia morale, direi che ammazzare gli animali è più giusto che amarli. Non possiamo vedere in loro un nostro ‘prossimo’ né includerli nel precetto di «non fare agli altri…» ecc.

L’Anticristo
Il rifiuto di considerare gli animali soggetti ontologicamente rispettabili è radicato nella nostra cultura cristiana. È nota la profezia di Solov’ëv, secondo cui l’Anticristo sarà pacifista, vegetariano, animalista. Non credo però che il filosofo russo ponga, come condizione per essere buoni cristiani, il dovere di mangiar carne e sganciar bombe sulla testa della gente. Bisogna infatti considerare che 1) il supposto Anticristo non potrà realmente amare la pace e gli animali, solo simularlo, 2) “l’Anticristo è animalista ergo gli animalisti sono degli anticristo” sarebbe come dire “il cammello è vegetariano, quindi i vegetariani sono cammelli”.
Se no, dovremmo pensare che anche la condizione di pacifica armonia con gli animali in cui Dio pone i nostri progenitori nell’Eden sia ‘anticristica’. Lo stesso Cristo potrebbe apparirci un Anticristo quando dice «vi lascio la pace, vi do la mia pace», quando offre come modello di vita l’essere “mite e umile di cuore” o quando gli ripugna vedere il Tempio trasformato in una “spelonca di briganti” dove si fa orribile mattanza di animali. Non possiamo sapere se Gesù avesse accolto la prassi essena del vegetarianismo, ma secondo alcuni teologi – tra cui Benedetto XVI – l’Ultima Cena fu celebrata secondo il rito esseno, che rifiutava l’uccisione dell’agnello. Per altro, san Paolo afferma che «tutto il creato geme e soffre nelle doglie del parto» e «anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria». Sarebbe logico desumerne che anche gli animali son compresi in un disegno cosmico di salvezza e santificazione.

Artificio polemico
L’articolo sposa tutt’altra prospettiva, e questo è naturalmente ammissibile. Mi pare tuttavia che la sua impostazione critica soffra di una limitazione nei presupposti e nelle conclusioni. Si basa infatti sull’estrapolazione di alcune frasi di Singer, di cui enuclea i parossismi ideologici rendendoli di fatto rappresentativi dell’animalismo tout court. È un artificio polemico, sorta di sineddoche retorica che sostituisce il tutto con una sua piccola parte, un vasto e articolato discorso con una sua appendice contemporanea.
La nostra è un’epoca di derive: spiritualiste, orientaliste, ecologiste, ambientaliste ecc. Sarebbe quindi sorprendente se nell’animalismo di oggi non trovassimo estremismi e fanatismi. Potrei dunque convenire sul pericolo di una certa ‘alienazione’ animalista. Tuttavia, gli argomenti proposti nell’articolo restano in fondo estranei alla sostanza reale del problema, non trattano di quel rispetto in toto della vita predicato da Tolstoj, Schweitzer e altri pensatori cristiani, ma già compiutamente enunciato in Zoroastro, Pitagora, Plutarco ecc. E sembrano non sospettare minimamente che sia invece la nostra brutalità con gli animali a rivelare un’alienazione umanista.
L’autore infatti nega l’epiteto di “progresso morale” e giudica disumanizzante un’etica che intenda garantire diritti e protezione agli animali. E non trovando necessario fare una distinzione tra l’animalismo giainista e quello di Leonardo, G. B. Shaw, Singer, Rollin, Reagan o altri, sembra condannare in blocco un’unica filosofia, un pensiero che non esita a definire “la più compiuta regressione, la negazione di ogni anelito spirituale” o “una concezione dell’uomo bassa, volgare, negativa”.

Anti-animalismo cristiano
Il rispetto imparziale degli esseri, senza distinzioni di specie, è un’idea ricorrente nella cultura classica e nelle religioni ariane. È una concezione unitaria della vita nel cosmo e insieme la speranza – o l’illusione – di mitigare l’inveterata crudeltà dell’uomo. Questa problematica è invece quasi del tutto ignorata nelle religioni di ceppo semitico, e l’autore ha ragione di opporla a una tradizionale “visione cristiana”, come all’idea che l’uomo sia “misura di tutte le cose”.
Da parte mia, penso che il Tutto trascenda la capacità dell’uomo di misurarlo. Possiamo al massimo esser misura della nostra umanità, e a volte neppure di quella, ignari come siamo delle ragioni profonde che la costituiscono. D’altro canto, è indubbio che una certa tradizione biblica ha eclissato e osteggiato per secoli la questione del rispetto degli animali.
Questa visione anti-animalista è paradossalmente un’interpretazione ‘animalesca’ della vita, perché ratifica il diritto naturale della forza dandogli carattere religioso. Questa idea – essenzialmente antievangelica – si è storicizzata nel tipico ‘macho’ cristiano, dominatore del mondo in quanto essere umano, bianco, battezzato, dotato di attributi virili, e quindi chiamato a sottomettere chi – animali, donne, altre razze e religioni – difettasse di una o più di queste prerogative.

Ambivalenza e senso di colpa
Finché siamo legati a un contesto culturale e psicologico in cui la tenerezza e il riguardo verso gli animali rappresentano un attentato alla virilità e alla sovranità dell’uomo, in cui l’esser vegetariani è giudicato un’eresia, è logico che l’animalismo appaia un pericoloso capovolgimento di prospettiva, un’ideologia “tesa a colpevolizzare l’uomo e sconfiggere verità e natura”. In quest’ottica diventa impossibile per l’uomo riconoscere le proprie colpe. Non credo che i conquistadores provassero rimorso dopo aver massacrato uomini, donne e bambini indios. Potevano sempre trovare nella Bibbia un passo che li giustificasse. Così, non vediamo alcuna colpa nel trattare gli animali senza pietà, perché ciò è conseguente alla nostra superiorità metafisica e naturale.
Il cristiano è perennemente in bilico tra l’etica della carità e le logiche del potere, tra Nuovo e Vecchio Testamento. Questa ambivalenza traspare anche nell’articolo, quando sostiene che l’animalismo sostituisce l’etica dei “legami propri dell’umanità” con un’etica degli attributi, che cioè proporziona i diritti agli attributi “di razza, intelligenza, sesso, capacità” che ciascuno possiede. Ciò lo renderebbe “strumento ideologico di dominio”, portatore d’una tesi che è “la massima promotrice della violenza e dell’ingiustizia nella storia umana, giacché ha giustificato ogni sorta di prevaricazione”.
Dunque, l’autore sostiene il dovere di difendere i deboli dalla prepotenza dei potenti, mentre l’animalismo esprimerebbe idee che “rappresentano infine la vittoria del più forte e del più cinico”. Non nego vi sia chi propone assurde misurazioni dell’imponderabile, come il chiedersi se un topo adulto sia più o meno razionale di un perfetto idiota, o un maiale più intelligente di un bambino appena nato ecc., cercando di stabilire se uno sia più o meno rispettabile soppesandone alcune indefinibili facoltà. Ma un diritto che si fondi su una logica degli ‘attributi’, delle forze, è radicalmente contrario all’etica della tradizione animalista. È invece il principio che il nostro umanesimo, nonostante le sue nobili dichiarazioni di intenti, ha sempre concretamente perseguito, con le conseguenze antiumane e anticristiane che ben conosciamo.

Supremazia dell’appetito sul pensato
Che l’animalismo voglia “costringerci a cambiare le nostre abitudini alimentari umane,  tradizioni e usanze” è vero in parte. L’animalismo non costringe nessuno, è una filosofia, non un decreto legge. Afferma però che i nostri consueti modelli di vita devono cambiare, perché causa di sofferenza e di ingiustizia. Non possiamo difenderli con irrazionale sentimentalismo, senza riconoscere quanto vi è in essi di sbagliato o di orribile. Il problema è che cambiarli ci spaventa. E non è casuale che l’autore metta al primo posto, tra i valori minacciati, “le nostre abitudini alimentari”. Questa, per quanto possiamo dissimularla o sublimarla, resta infatti la grezza sostanza dell’anti-animalismo.
La violenza sugli animali, prima che da ragioni religiose o culturali, dipende dall’incoercibile tradizionalismo dello stomaco. Le forme di ritualità con cui assumiamo gli alimenti evocano e assicurano la continuità dell’esistere, rappresentano i legami con i nostri istinti più profondi. Noi attribuiamo un’inconscia sacralità all’atto del mangiare. È quindi inutile portare motivazioni etiche per indurre qualcuno a una conversione alimentare, per esempio rinunciando alla carne cui è avvezzo. Le pulsioni gastriche prevarranno sempre, guidando oscuramente i nostri pensieri e sentimenti,  più indomabili delle stesse pulsioni sessuali. Si trasformeranno in razionalizzazioni e resistenze – obiezioni mediche, filosofiche, religiose, economiche ecc. – che sono in realtà un riflesso fisiologico, un automatismo difensivo rivolto contro chi vorrebbe contraddire i nostri gusti trofici e le abitudini del nostro apparato digerente.

Una superiorità controversa
Non penso invece che l’animalismo voglia abolire “la concezione che l’uomo ha di sé stesso come essere radicalmente diverso dagli altri viventi”. Non desidera “equiparare l’uomo e il verme” o “animalizzare l’uomo”. Noi condividiamo con tutti gli altri esseri senzienti l’esperienza del dolore e del piacere, ma ogni vita esprime una diversa organizzazione della coscienza e necessità peculiari. L’animalismo non vuol certo concedere agli animali il diritto al voto o all’istruzione ma solo proteggerli dalla barbarie degli uomini.
Poiché questo è ovvio e banale, immagino che l’autore intenda con “essere radicalmente diverso” un’esclusiva peculiarità metafisica, “condizione di esseri razionali”, un requisito sottile che permette la nostra “apertura all’infinito, al trascendente”. L’uomo sarebbe dunque una sorta di eccezione preternaturale: solo lui ha un’anima immortale, è cosciente di sé e di Dio. Sovrasta gli animali perché titolare di uno speciale statuto ontologico, è loro superiore in modo assoluto e incommensurabile, e questo giustifica il suo dominio. Ma questa idea non rappresenta infine “la vittoria del più forte”, non assicura all’uomo diritti e privilegi secondo una “logica degli attributi”?

Infinità dell’uomo e nullità dell’animale
Inoltre, sembra indubbio che anche gli animali possano ragionare – qui la differenza con l’uomo, per quanto enorme, è di grado, non di sostanza. Dopo tutto quello che la tradizione ci ha trasmesso, che l’osservazione ci rivela e che la stessa scienza ha confermato, considerarli esseri irrazionali sarebbe irrazionale. E crederli senz’anima è un chiaro arbitrio metafisico, o il residuo di proposizioni dogmatiche. Trovo inoltre contraddittorio pensare che solo l’uomo sia aperto “all’infinito, al trascendente”. Significherebbe porre un evidente limite all’infinito e al trascendente, subordinandoli alle nostre misure umane. Ma anche ammettessimo questo limite nell’animale, il motivo di fondo dell’animalismo non ne verrebbe pregiudicato. Il principio su cui si regge è infatti il rispetto della vita, la compassione per chi patisce violenza. È una risposta al dolore, non una richiesta di titoli metafisici, attestati di razionalità o di trascendenza.
L’articolo teme che un’etica animalista possa distruggere “i confini tra le specie che legittimano il primato sugli animali”. La conseguenza di questo ‘primato’ è che, ponendo la dignità dell’uomo a distanza infinita da quella dell’animale, la stessa insensibilità dell’uomo per il destino delle altre creature diviene infinita. È giusto quindi restare indifferenti se ogni anno centinaia di milioni di cani, scimmie, maiali ecc. vengono sottoposti agli orrori della vivisezione, se miliardi di animali vengono imprigionati in orribili gabbie, costretti a una vita d’inferno e infine brutalmente ammazzati. Cos’è il dolore di un animale, per quanto atroce, in confronto al più piccolo beneficio o piacere umano? Se la differenza tra noi e loro è infinita, quel dolore è nulla.

Contraddizioni simboliche
Questa incolmabile distanza è l’effetto delle operazioni simboliche più o meno consapevoli con cui cerchiamo di decifrare il mondo. Dovremmo quindi interrogarci sulle ragioni di un pensiero astratto che può occultare, distorcere o surrogare la realtà. Chiederci perché non notiamo alcuna incoerenza nel condannare l’aborto di un feto umano o nel querelare qualcuno per uno schiaffo, e poi non trovare nulla di riprovevole nel torturare e sterminare gli animali. Riflettere sui motivi che portano tanti a compatire un’orsa e intanto restare indifferenti alla strage quotidiana di vitelli e maiali.
Incuranti di antinomie e dissociazioni cognitive, possiamo fare dell’animale il simbolo di valori che vanno rispettati e difesi dalla violenza del potere, farne l’oggetto di attenzioni amorose e insieme collocarlo in una dimensione simbolica che lo priva d’ogni dignità e tutela. L’animalismo è un tentativo di rettificare gli apparati simbolici e i pregiudizi che determinano il carattere prevaricante dei nostri rapporti con gli animali, o almeno di portarli alla coscienza. È dunque logico che l’autore lo consideri un’arma “con cui espropriarci della nostra specifica dignità e della responsabilità nei confronti della natura”, perché minaccia l’establishment simbolico di un umanesimo che è per lui “premessa della giusta protezione verso animali e creato”.
Ma io temo che questo umanesimo sia appunto solo una teorica premessa, un’astrazione destinata a non tradursi mai in un fatto. Quando mai l’Occidente è stato protettivo nei confronti degli animali? Quando mai ha dimostrato – non solo a parole – una reale responsabilità nei confronti del creato? Ed è vero che abbiamo una “nostra specifica dignità”. Ma ci è stata espropriata da tempo e non certo dagli animalisti. Sono le nostre logiche di potere che hanno reso gli uomini ipocriti e servili. Solo degli esseri liberi – come quella scimmia morente – potrebbero  ricordarci cos’è la dignità.

Un vuoto fondamentale
Nell’insieme l’articolo comunica una fredda noncuranza per il dolore degli animali. Non ne parla affatto, assume atteggiamenti razionalistici con l’aria di chi ignori la pietà. Non ricorda neppure una volta i tormenti degli animali, parla quindi di ‘animalismo’ senza menzionare la sua stessa raison d’être. Il discorso è così svuotato del suo midollo, circoscritto in considerazioni cerebrali che lasciano da parte il cuore problema. Vi difetta il senso dell’incarnazione, dei corpi che sanguinano, spasimano e muoiono. Mancano le catene, i lamenti, le agonie.
Questo è per altro coerente con un’impostazione di fondo che definisce e difende l’umanesimo proprio in quanto distacco e sprezzatura dell’animalità, alta concezione della vita che non può abbassarsi al dolore di creature umili, inferiori, senza perdere la sua nobiltà. L’amore portato agli animali sembra in conflitto con quello dovuto agli uomini. Perciò le loro sofferenze vanno rimosse. Anche perché non potremmo osservarle con freddezza senza ammettere di approvare la crudeltà e l’orrore. L’animalismo è così sradicato dal suo centro, che è morale e affettivo, e portato in una periferia di problemi incorporei. Non dobbiamo piegarci a curare le piaghe degli animali ma denunciare le ferite dell’umanesimo, la sua nobiltà oltraggiata.

Oltre l’umanesimo
È questa idea di ‘umanesimo’ che va superata. Io credo in un paradosso: l’uomo diviene pienamente umano solo se trascende la propria umanità. Ed è forse questo che lo rende “radicalmente diverso”. L’uomo è l’unico animale che può esser animalista. Non possiamo dire: «il ragno mangia la mosca, il leone la gazzella, è l’ordine immutabile delle cose» e con ciò credere d’aver illuminato il senso della vita e confutato ogni romantica illusione di non-violenza. In realtà la vera illusione è il pensare che “non siamo noi crudeli, è la natura”. Perché forse il ragno non ha coscienza della propria ‘ragnità’ né il leone della propria ‘leonità’, forse l’uno è inguaribilmente aracnocentrico e l’altro leocentrico, mentre l’uomo può uscire dal suo antropocentrismo.
Io posso vedere dentro e oltre la mia umanità, sentirmi parte di un disegno comune e di un destino che affratella uomini e animali. Quando comprendo che tutto ciò che vive è chiamato alla libertà e incluso in uno stesso piano di salvezza, mi sento chiamato a rispondere della vita, a difenderla e accudirla in tutte le sue espressioni. Mi apro a una trascendenza che non è un privilegio umano ma un patrimonio condiviso e universale. Quello che sta conducendo rapidamente la civiltà occidentale alla dissoluzione, alla necrosi dei suoi valori spirituali, è proprio la chiusura nel suo umanesimo, l’aver tratto le estreme conseguenze dalle sue premesse etiche e teologiche, dai suoi modelli egemonici, dalla sua visione dell’uomo come essere opposto alla natura.

Utopia e profezia
Eresia, ideologia anti-umana e contro-natura, sintomo di una civiltà agonizzante e farneticante, questo è in sintesi l’animalismo dell’articolo. Per me[ii] è invece un’antica utopia, il viatico d’una vita migliore. È la speranza di purificazione e liberazione dalla colpa atavica dell’assassinio, ricerca di una soluzione pacifica al problema della convivenza tra gli esseri che abitano il pianeta. Non è l’incubo di una società terminale ma il sogno di una civiltà germinale, ricca di nuovi fermenti. È la nostalgia e il desiderio di un giardino ideale dove uomo e animali possano ritrovare l’originaria amicizia.
Noi non potremo assaggiarne i frutti, né i nostri figli o nipoti. Ci vorrà molto tempo ancora prima che l’umanità vomiti il frutto avvelenato del suo umanesimo, della sua conoscenza del bene e del male. Ma un giorno impareremo a riconoscere l’essenza spirituale – atman, soffio divino – di tutto ciò che respira, e a onorarla. Allora anche in un maiale potremo vedere un fratello, un membro di un’unica immensa famiglia, perché nel suo sguardo, come nella povera scimmia di Brehm, c’è l’abisso dell’anima. E concederemo un po’ di pace a questa terra martoriata.