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Gli intellettuali sovranisti? Sono gli esclusi dall'élite precedente

di Paolo Mossetti - 07/03/2019

Gli intellettuali sovranisti? Sono gli esclusi dall'élite precedente

Fonte: Esquire

Non è vero che il sovranismo non ha intellettuali. Anzi, conta su parecchi eruditi che hanno avuto poca fortuna con l'élite precedente.

Un’alleanza culturalmente reazionaria, ammiccante all’estremismo di destra e agli incolti. Un’espressione perfetta delle campagne, delle periferie e dei piccoli centri urbani. Un forza che privilegia la semplicità di pensiero, la praticità e la comunicazione alla pancia degli elettori, anche a discapito dei fatti, della logica e della verità. Una casa politica per razzisti, provinciali e superstiziosi. Il governo Lega-5 stelle viene abitualmente descritto, insomma, come anti-intellettuale.
Da parte loro, i nazional-populisti ce la mettono tutta per confermare questa immagine. “Salvini contro gli intellettuali” è il titolo di una trasmissione televisiva del marzo del 2016, in cui il futuro ministro dell’Interno si confrontava con il filosofo Umberto Galimberti e con lo scrittore Antonio Pennacchi. Nell’estate del 2018 lo stesso Salvini rispondeva dileggiando, in un post su Facebook, “gli intellettuali anti-razzisti e anti-Salvini” che avevano firmato un appello per aprire i porti ai migranti. Sulla sponda 5 stelle, Alessandro Di Battista aveva parlato di intellettuali “falce e cachemire” per rispondere alle critiche di chi gli rinfacciava la decisione di formare un governo con la Lega. Cinque anni prima, quando si era affacciata l’ipotesi remota di un governo tra 5 stelle e Pd, il suo capo e garante politico, Beppe Grillo, aveva reagito parodiando sul blog una vecchia canzone di Giorgio Gaber, che recita: "Gli intellettuali sono razionali / lucidi imparziali sempre concettuali / sono esistenziali molto sostanziali / sovrastrutturali e decisionali".
Per Grillo, “'l’intellettuale italiano è in prevalenza di sinistra, dotato di buoni sentimenti e con una lungimiranza politica postdatata… non è mai sfiorato dal dubbio, sorretto com'è da un intelletto fuori misura per i comuni mortali”'. Quando, un lustro più tardi, Grillo darà il suo beneplacito al patto di governo con Salvini, liquiderà così le opinioni contrarie: “Gli intellettuali della sinistra mostrano i canini e ringhiano che siamo fascisti, hanno perso qualunque forma di contegno... sono come fantasmi che non riescono a toccare palla nel mondo reale".
Si è capito subito che il nazional-populismo dei gialloverdi non andava inquadrato in senso storico - ad esempio riesumando il populismo russo - ma piuttosto in quello sociologico, per descrivere una fase dominata da sentimenti primordiali, e dalla rivolta contro esperti e studiosi certificati. “La rivoluzione del buon senso” - uno degli slogan più potenti e conosciuti della Lega - descrive questo desiderio, condiviso in fondo sia dalla destra che che dalla sinistra, di superare un declino straziante, causato da élite corrotte e intellettuali traditori, e di condurre l’Italia verso un futuro che assomiglia un po’ al passato: quando i giovani potevano sperare nel futuro, gli anziani andavano in pensione in tempi ragionevoli, i nativi comandavano a casa propria e i bambini nascevano da una mamma e da un papà. Qualcosa di paragonabile all’interventismo del 1915, che fu una rivolta contro l’Italia liberale alimentata anche dalle passioni del fascismo di sinistra, con la sua apologia delle “nazioni proletarie” opposte alle “demoplutocrazie”. Ci siamo già passati. Ma la mappa intellettuale del nazional-populismo italiano è molto più complicata di così.
I leader di Lega e 5 stelle sanno di appartenere a un’epoca di rottura rispetto al ruolo e alle modalità tradizionali di intervento degli intellettuali nella vita pubblica; sanno di non poter fare ancora troppo affidamento su quotidiani moderati dalla storia decennale, o secolare, come il Corriere, La Stampa o Repubblica; e tantomeno su fondazioni o centri studi rispettabili come ce li avevano la Democrazia Cristiana o il Partito Comunista (e sovente li ignoravano).
Chi è al governo oggi sembra abituato, piuttosto, a un ecosistema balordo di notiziari scandalistici, giornali populisti, siti allarmistici, vignettisti nati e diventati celebri sui social, divulgatori di contro-informazione che si sono dimostrati più d’una volta parecchio grossolani. Per quanto spiazzante possa sembrare, è anche grazie a soggetti culturali del genere che il duo Lega-5s è riuscito a demolire la Seconda repubblica, imporre il proprio “buonsenso”, e a inaugurare una luna di miele con gli italiani. Chi sghignazza leggendo la mappa culturale del nazional-populismo farebbe meglio a considerare la sua efficacia.
Ma, al di là dei risultati in termini di consenso, sarebbe sbagliato credere che il governo gialloverde incarni l’anti-intellettualismo allo stato puro. Se finiamo per cadere in questo tranello è perché i rappresentanti del nuovo corso nutrono, nei confronti della democrazia liberale, sentimenti ambigui: aggressività e sospetto, rancore e inferiorità. Il nazional-populismo, sia da parte leghista che da parte grillina, di norma ha dei portavoce, consiglieri e voci organiche che sono, almeno fino a un certo punto, dei “competenti”, proprio come gli altri che hanno governato finora: il punto è che la loro competenza in questi ultimi vent’anni è stata marginalizzata.
Tant’è che ritroviamo in questo nuovo corso nomi della vecchia propaganda berlusconiana come Marcello Foa, Franco Bechis e Maria Giovanna Maglie, fondamentalisti cristiani come Magdi Cristiano Allam e Antonio Socci, uomini politici decisamente arditi come Paolo Savona e Daniele Capezzone, insegnanti universitari come Giulio Sapelli o Paolo Becchi, intellettuali marginali veri come Gianfranco La Grassa, beatnik come Melchiorre Gerbino, conferenzieri anticomunisti come Maurizio Blondet. Più che un ignorante o un gaffeur, come lo vuole dipingere l’opposizione, l’intellettuale tipico gialloverde è di solito un intellettuale tenuto per anni nei ranghi inferiori, tra gli aspiranti o tra i delusi, e che ora ha trovato una causa per riscattarsi, per riproporsi all’attenzione del pubblico, che sia giovane o anziano, potente o irrilevante.
È vero che si può ritrovare nell’ecosistema gialloverde l’ossessione per idee screditate o vetuste, come il mitizzato welfare state degli anni Settanta unito ad una società etnicamente omogenea, oppure del tutto false, come la presunta attualità del Piano Kalergi o dei protocolli dei Savi di Sion - due classiche “misure” del complottismo contemporaneo. Ma il nazional-populismo italiano è meno insulare di quanto si creda: segue un mutamento nei rapporti di forza tra le idee che coinvolge tutto l’Occidente, e non sarebbe giusto descriverlo come categoricamente ostile al mondo accademico, o intellettuale.
Si pensi anche a profili ormai dediti alla propaganda anti-europea 24 ore su 24 come quello di Alberto Bagnai, senatore della Lega Nord, o di Vladimiro Giacché, storico del marxismo, in cui si possono rintracciare passioni di uomini impegnati, profondamente eruditi, che un tempo gravitavano attorno ai partiti della sinistra moderata. Piuttosto che il disprezzo per il pensiero complesso e la cultura, ciò che accomuna questo ecosistema è semmai l’avvelenamento per conquiste civili degli anni Sessanta, e il disgusto profondo per le cose di cui si sono occupati gli intellettuali di sinistra negli ultimi cinquant’anni; è un mondo che esprime voglia di riconquista e di vendetta, piuttosto che di censura e abrutimento.
Essendo molto rassicurante, l’idea di ridurre il populismo alle sue sole teorie complottiste non è certo nuova. Nel 1964 lo storico Richard Hofstadter pubblicò Società e intellettuali in America, in cui tracciava una modalità di pensiero a suo avviso dominante nella politica, nella religione, nell’istruzione e nelle imprese. L’odio per gli istruiti, secondo l’autore, assumeva negli Stati Uniti quasi il valore che la lotta di classe ha in altre società moderne. Questa l’intolleranza diffusa portò Hofstadter - ancora scottato dalla sconfitta di Adlai Stevenson alle presidenziali del 1952 e dalle campagne isteriche di McCarthy - a formulare la celebre teoria del populismo come “stile paranoico”, un fenomeno rintracciabile nella lunga storia dei movimenti sorti nelle viscere del Paese. “Il portavoce paranoico vede il destino del complotto in termini apocalittici… È sempre lì a difendere le barricate della civilizzazione. Si trova costantemente a un punto di svolta. Come i millenaristi religiosi, esprime l’ansia di quelli che stanno vivendo i loro ultimi giorni”.
Suona una certa campanella, bisogna ammetterlo. Non è un segreto che nazional-populisti abbiano come obiettivo programmatico la demolizione della presunta competenza tecnocratica “di quelli che c’erano prima”, e della conflittualità di classe come la intendono i marxisti classici, in favore dell’Uomo comune e del suo buonsenso, e dello scontro tra globalizzazione e comunità. E infatti Salvini ha dedicato svariati videomessaggi ai “professoroni” (o ai “Soloni”) che tutto sanno e tutto conoscono, quelli che ogni giorno fanno le pulci alla manovra del governo.
Ma va detto che non sempre le rivendicazioni dei nazional-populisti sono prive di fondamento. Ad esempio, è innegabile che la competenza tecnocratica abbia dato per vent’anni pessima prova di sé: con l’appoggio a guerre scellerate, politiche economiche sballate e dubbi campioni intellettuali, col risultato di alienarsi sempre più larghe fette di elettorato. Guardando oltre i confini nazionali, i nazional-populisti osservano un presidente americano tradito davvero dal fantomatico «Deep State», e una Unione Europea che sembra discriminare i suoi membri più poveri in modo inspiegabile. Come ha scritto Alessandro Lolli, se c’è un Paese in cui il complottismo si è fatto Storia, è proprio il nostro, con centinaia di morti causati da intrighi tra Stato, fascisti, mafie e associazioni segrete. Gli strumenti per difendere l’esistente sono insomma più spuntati che mai.
Preso atto di questo, molti giovani intellettuali italiani si sono avvicinati al nazional-populismo dopo essersi imbattuti nel filosofo marxista Costanzo Preve, che teorizzava la radicale decostruzione della bussola destra/sinistra. È da qui che deriva l’abituale spregiudicatezza dei suoi allievi nelle loro frequentazioni politiche, e la disponibilità a tessere reti ideologiche sgangherate tra neocomunisti e neofascisti. In un’intervista del 2011, che anticipava perfettamente la posizione di molti populisti, in particolare dei cosiddetti “rossobruni”, sulla questione del conformismo di sinistra, Preve spiegava: “Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni”, oggi “gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. È una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi perchè dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato”.
Pensatori laici come Umberto Eco - intellettuale-monumento e romanziere da milioni di copie che aveva liquidato il pensiero contro il relativismo dell’allora Papa Ratzinger come robaccia puerile - altro non erano che “fondamentalisti illuministici di centro sinistra” per i quali l’obbedienza deve essere riservata all’economia e al “giudizio dei mercati” mentre l’ambito del costume e delle religioni deve essere invece interamente liberalizzato.
Ma la fascinazione per l’anti-modernità contro l’individualismo assoluto, il disprezzo per l’ordine intellettuale dominante a sinistra hanno prodromi ben più antichi dell’attuale governo, o dei filosofi “rossobruni”. Come ha ricordato il giornalista Valerio Mattioli, è stato proprio un quotidiano campione dell’anti-populismo e del cosmopolitismo liberal come Il Foglio a irridere, per lunghi anni, la teologia fai-da-te e il carattere opportunistico di molti cattolici progressisti. È stato sempre Il Foglio a tormentare, non senza qualche ragione, la presunta eversione e il vero conformismo del ceto medio radical di alcuni quartieri di Roma, con lo stesso accanimento che si ritrova oggi nei nazional-populisti.
Molto prima che gli allievi di Preve, negli anni Dieci, concludessero che era giunto il momento dell’alleanza tra marxisti e xenofobi contro la dittatura del Capitale, furono proprio i neoconservatori de Il Foglio, negli anni Zero, ad alimentare la confusione: spacciando per “vera sinistra” gli interventi islamofobi di Oriana Fallaci o quelli militari di Bush in Iraq e in Afghanistan, e ospitando come opinionisti culturali fascisti dichiarati come Adriano Scianca, militante di Casapound.
Per lo storico del populismo Christopher Lasch, allievo di Hofstadter, il problema degli intellettuali liberali come il suo maestro era la tendenza a dipingersi come una classe a sé stante, finendo con l’edificare una trincea attorno allo status quo. Hofstadter contava sugli intellettuali per salvare il Paese dall’irrazionalità; il più giovane Lasch aveva visto invece le élites architettare un’assurda guerra del Vietnam e razionalizzare un panorama sociale abominevole.
Nel 1995, mentre l’Italia assisteva al primo avvento dei tecnocrati, uscì postumo La ribellione delle élite, in cui Lasch descriveva una società in cui i politici avevano rinunciato al potere e all’ideologia e dove le classi colte avevano scelto lo sradicamento come missione, indifferenti alle sofferenze dei lavoratori manuali e al declino degli Stati, lasciando che fossero gli esperti a gestire tassi d'interesse, tariffe, bilanci e riforme sanitarie. Entrambi lasciarono il lavoro a metà: se Hofstadter cristalizzò un sentimento irrazionale di terrore per le masse, Lasch confidava troppo in una “democrazia partecipativa” in cui le masse sarebbero diventate, senza troppi conflitti, a loro volta classe dirigente.
Eppure, anche se detesta la corrotta e apolide élite, il nazional-populismo tradisce implicitamente di esserne succube; o, perlomeno, di volerla imitare. Economisti gialloverdi come Ilaria Bifarini e Fabio Dragoni si presentano come "bocconiani pentiti", denunciando sì il pensiero ortodosso, ma facendo capire di esserne stati degli insider. “Debunker di debunker” come Luca Donadel o Francesca Totolo, vicini alla Lega e all’estrema destra, entrambi under-35, sono esempi di come un una nuova classe di attivisti si stia formando in opposizione alla sinistra radicale. Altri economisti come Giacomo Bracci o Gabriele Guzzi, organici ai 5 stelle, rispettivamente classe ‘92 e ‘93, sono studiosi preparati e spigliati pienamente inseriti negli ambienti istituzionali e nel mainstream, e pronti un giorno a far parte del nuovo establishment post-liberale: un blocco di potere che desidera lo stesso riconoscimento tecnico e sociale che aveva la classe dirigente di prima, ma guidato da obiettivi, motivazioni e priorità diversi.
Tutt’altro che anti-intellettuale, dunque, il nazional-populismo è una risposta alle contraddizioni delle democrazie liberali: sulla carta promuove la funzione “reinventiva” della gente comune, accogliendo e rimettendo al centro del dibattito temi e figure a lungo umiliate dalle élite; nella pratica, si accinge a creare una classe dirigente tutta sua fatta da tecnocrati, esperti e pensatori, con idee, proposte e soluzioni alternative a quelle che per ora governano la società. Non sempre avranno un aspetto rivoluzionario o coerente, anzi: talvolta saranno smaccatamente realiste, e ancor più spesso in competizione tra loro. Mettiamoci l’animo in pace: finché esisteranno le democrazie liberali, gli intellettuali nazional-populisti le seguiranno come ombre.