Gli Stati Uniti in fondo al pozzo
di Enrico Tomaselli - 02/09/2025
Fonte: Giubbe rosse
Se c'è un elemento che caratterizza una potenza imperiale è, necessariamente, la visione strategica. Si tratta infatti dell'essenza della capacità egemonica, senza la quale risulta impossibile esercitarla. Ma possedere una visione strategica non significa semplicemente avere una vaga idea della direzione in cui si intende marciare, quanto piuttosto avere la necessaria conoscenza (storica, geografica, economica) delle aree di interesse, avere dei piani calati nelle specifiche realtà per conseguire gli obiettivi, ma anche la flessibilità per adattarli ai cambiamenti imprevisti. È, insomma, una questione sì di intelligenza, ma innanzitutto di conoscenza.
Questo 'sapere' ha costituito l'essenza intellettuale dell'imperialismo. E questo genere di capacità ha caratterizzato l'impero britannico, e poi il suo erede, la superpotenza statunitense. Che, nei decenni susseguenti alla fine della seconda guerra mondiale - la 'golden age' degli Stati Uniti - ha manifestato questa capacità strategica, e l'ha esercitata - non senza errori e passi falsi. Ma proprio nella capacità di assorbirne i contraccolpi si manifestava tale 'sapere'. Personaggi come Zbigniew Brzezinski, o come Henry Kissinger, che ovviamente da un punto di vista antimperialista non possono che apparire come mostruosi artefici di feroci politiche egemoniche, al tempo stesso non possono non essere riconosciuti come dotati di una grande visione strategica. A loro, sono succeduti i Robert Kagan, i John Bolton, i Jack Sullivan… Come dire da von Clausewitz al generale Cadorna.
Questa decadenza del pensiero strategico statunitense sta oggi emergendo in maniera sempre più evidente. Certo, negli anni migliori dell'impero, questo ha incassato debacle come il Vietnam e l'Afghanistan, ma ha saputo comunque metabolizzarle e superarle, senza per questo mettere in crisi non solo l'effettivo potere, ma anche soltanto la sua apparenza. Ciò che rende evidente la perdita di capacità strategica degli Stati Uniti, non è tanto il commettere errori, o lo scontrarsi con delle sconfitte, quanto l'incapacità di proporre (e se è il caso, imporre) soluzioni alle crisi che si manifestano.
Quando Trump vinceva la sua campagna presidenziale sulla base dell'idea America First, fondamentalmente trasmetteva un messaggio politico, ovvero che avrebbe messo al centro d'ogni sua azione la 'ricostruzione' degli USA. Una sorta di rivisitazione dell'isolazionismo, storicamente presente nella cultura politica del partito repubblicano. Ma ha rapidamente compreso che ciò non era semplicemente possibile, poiché oggi più che mai è forte l'interdipendenza tra gli Stati Uniti ed il resto del mondo, e non può affrontare le questioni interne senza al contempo fare altrettanto con quelle internazionali. A quel punto, però, non solo è emersa tutta la sua inadeguatezza nell'affrontare questi temi, ma anche la spaventosa povertà del pensiero strategico negli Stati Uniti. Come risulta chiaro non solo dalla navigazione a vista praticamente su tutte le grandi questioni, ma anche dalla formulazione di (poche) proposte assolutamente risibili, prive di qualsivoglia possibilità di essere realizzate - che si tratti di deportare oltre due milioni di palestinesi per fare a Gaza una mega-speculazione immobiliare, di convincere i russi a concedere un cessate il fuoco agli ucraini, o di disarmare Hezbollah. Ogni singola area di crisi ha visto per un verso la smania di protagonismo di Trump, ma per un altro l'assoluta povertà delle proposte. Il che ha finito col rendere ancora più evidente quest'ultima.
Un po' come per l'industria statunitense, incautamente smantellata negli anni dell'euforia della globalizzazione, e che ora si vorrebbe ricostruire in fretta e furia, salvo scoprire che è un processo che richiede non soltanto investimenti, ma anche tempo, know-how, formazione. Così è per il pensiero strategico, laddove nei think tank prevaleva l'impostazione prettamente ideologica dei neocon, mentre nelle università dilagava l'ideologia globalista-woke. Il combinato disposto di questi due fattori è tra le cause principali della incredibile decadenza del pensiero strategico negli Stati Uniti. E così assistiamo al paradosso che il paese con la più estesa proiezione globale al mondo, sia anche quello che meno lo comprende, ed ancor meno riesce ad interagirvi proficuamente. Parafrasando la felice affermazione del premier slovacco Robert Fico - da lui indirizzata all'Unione Europea - si potrebbe dire che gli USA sono "come un rospo sul fondo di un pozzo, hanno una visione assolutamente limitata sul mondo, non vedono ciò che sta accadendo attorno".