Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico

Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico

di Luigi Morrone - 24/01/2021

Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico

Fonte: Ereticamente

La piccola, ma prestigiosa casa editrice D’Amico, pubblica il saggio di Tommaso Cava de Gueva Analisi politica del brigantaggio attuale nell’Italia meridionale che vide la luce nel 1865, nell’intento, dichiarato dall’autore, di attirare l’attenzione di Vittorio Emanuele II sulle vere ragioni della guerra civile che infiammava le Province Meridionali. Il saggio venne riesumato già nel 1968 da Leonardo Sciascia nel 1965, nel suo trattato Brigantaggio napoletano e mafia siciliana, in cui lo scrittore siciliano ricorda come lo “sguardo” auspicato da Cava de Gueva, ma non ottenuto da Vittorio Emanuele II, non può non venire dagli storici.

E allo “sguardo” degli storici è dedicato il lavoro in appendice al quale è pubblicato il saggio di Cava de Gueva: Il brigantaggio post-unitario come problema storiografico di Eugenio Di Rienzo, che già aveva affrontato il cosiddetto “Brigantaggio” in L’Europa e la “questione napoletana” 1861-1870 pubblicato nel 2016 presso la stessa Casa Editrice.

Il Direttore di Nuova Rivista Storica affronta il “problema storiografico” rappresentato dal cosiddetto “grande brigantaggio” analizzando i vari apporti della storiografia al problema, accennando anche alla letteratura fiorita sull’argomento.

Il saggio di Sciascia funge da punto di partenza dell’analisi di Eugenio Di Rienzo. La tesi dello scrittore siciliano, che si diparte dalla domanda: “Perché la ribellione ai Piemontesi fiorì nel Continente e si fermò a punta Faro, escludendo la Sicilia?” è quella dell’esistenza di un “banditismo” endemico nei territori meridionali, che fu utilizzato da “forza di manovra reazionaria”, che nel continente incontrò il favore di una classe politica legata all’Ancient Régime borbonico, mentre il Sicilia fu utilizzata dalla classe borghese (icasticamente rappresentata dal personaggio di Sedara nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), sostanzialmente già ribelle ai Borbone e legata alla criminalità che si organizzerà autonomamente ed a cui la classe politica farà ricorso, vedendo nel regime parlamentare un veicolo per penetrare nel corpo delle istituzioni manovrando il voto.

L’appello di Sciascia agli storici ha trovato compiutezza nel lavoro di Carmine Pinto La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870, che, esaminando con particolare acribia le fonti e utilizzando i corretti metodi di analisi dei fenomeni storici, “riduce al silenzio tanto la vulgata “neoborbonica” quanto quella “neo-sabaudista” che, ancora oggi “verdeggianti e schiamazzanti”, risalgono ai primi anni successivi all’unità.

Pinto, infatti, rifuggendo dalla pretesa di reductio ad unum delle chiavi interpretative del fenomeno, è “capace di disarticolare il fenomeno brigantaggio nelle sue diverse componenti sociali e politiche e di storicizzarlo nelle sue differenti fasi temporali”.

Di Rienzo effettua una carrellata sulle analisi di quello che “era stato artatamente ribattezzato dal Parlamento subalpino con l’epiteto di «Grande brigantaggio»”, a partire da quella di Du Camp, che riteneva ormai rassegnati i napoletani al destino della loro città, cioè alla «riduzione della loro capitale, che era la terza città d’Europa in ordine d’importanza, a semplice capoluogo di prefettura», esaltando le “magnifiche sorti e progressive” del “Régime Nouveau”.

In realtà non era così: i “disordini” che infiammavano la parte continentale di quello che era stato il Regno delle Due Sicilie preoccupavano non poco le istituzioni del neonato Regno d’Italia e subito ci fu chi, come Francesco Durelli, pose l’accento sulla natura “politica” dei sommovimenti, e sull’eccessiva durezza della repressione.

Nel suo Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862, Durelli chiama le cose con il suo nome: nelle “province meridionali” era in corso una vera e propria “guerra civile”, resa “incivile” dalla pretesa delle Istituzioni di trattarla alla stregua di fatti di criminalità comune.

Cava De Cueva rincara la dose: ricorda come il termine “brigante” fosse stato utilizzato per gettare discredito su movimenti con finalità politiche, come quelli della resistenza antifrancese e come – addirittura – lo stesso Garibaldi, mettendo il rilievo le contraddizioni di Cavour nel ritenere Garibaldi “brigante” nel 1860 ed “eroe” nel 1861.

Di Rienzo ricorda (come già nel menzionato volume del 2016) che il cosiddetto “brigantaggio” ed i brutali metodi di repressione fossero materia di discussione in ambito internazionale, in particolare ai Comuni, dove l’opposizione accusava Palmerston di avere interferito negli affari interni del Regno delle due Sicilie, favorendo l’espansionismo sardo – piemontese con azioni diplomatiche e militari.

La storiografia successiva non ha mancato di occuparsi del “fenomeno” in esame ed il saggio di Eugenio Di Rienzo prende in esame le chiavi interpretative di esso utilizzate dagli storici che hanno affrontato il problema.

Vi è l’interpretazione marxista, sviluppatasi a partire da Gramsci e particolarmente diffusasi per effetto degli studi di Molfese (e rilanciata a Di Brango e Romano, Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina, pubblicato nel 2017), secondo cui il fenomeno era indissolubilmente legato al banditismo preunitario, interpretato come fenomeno di devianza sociale, esasperato nel periodo postunitario dalla usurpazione, da parte dei latifondisti, dei terreni demaniali. Vera e propria “lotta di classi”, dunque, come nell’incipit del Manifesto Marx-engelsiano: contadini contro latifondisti, con il Regno d’Italia visto quale garante dell’usurpazione del latifondo.

Di Rienzo mette in evidenza la distorsione di tale esegesi, che esclude la valenza politica della ribellione. Vi è da dire che la suddetta chiave interpretativa è respinta anche da storici d’ispirazione marxista, come Salvatore Lupo, che concorda – invece – con l’analisi di Croce che, nella sua “Storia del Regno di Napoli” assume che i “briganti” avrebbero giustificato i loro delitti «nel nome del re, della religione, della patria, contro i ribelli al trono, i miscredenti, gli stranieri»: il trono e l’altare, i diritti del legittimo sovrano.

Ed è, da una prospettiva rovesciata rispetto a Croce, la tesi di Cava De Cueva, che ricorda il parallelo tra la ribellione in atto con le insorgenze del 1799 e del 1806 contro i francesi, con i moti di popolo controrivoluzionari nel 1844 contro i Fratelli Bandiera a San Giovanni in Fiore, come nel 1856 contro Bentivegna a Mezzojuso, come nel 1857 contro Pisacane a Sanza.

E Di Rienzo respinge – dunque – sia la tesi del parlamento subalpino della mera delinquenza comune, sia la tesi marxista della “rivolta di classe”, mettendo in evidenza il dato preminentemente politico della ribellione a quella che si percepiva come occupazione straniera.

Perché, il dato che è stato spesso negletto, nell’analisi dell’annessione del Sud al Regno d’Italia, è l’esistenza di una “Nazione Napoletana” quale entità costituitasi fin dai Normanni, come sottolineato, da sponde opposte, da Aurelio Musi, sulla scia degli studi di Galasso e, in ambito divulgativo, da Di Fiore, per cui non può meravigliare il sentimento identitario quale asse medio che caratterizzò la prima guerra civile italiana.

Fermo restando quell’asse medio, come in tutte le guerre civili, le motivazioni che mossero i protagonisti furono svariate, alcune delle quali inconfessabili.

Gino Doria, nel 1931, individuò una delle cause della guerra civile nello scontro, perdurante fin dalla fine del XVIII secolo, tra «galantuomini liberali», collusi con la camorra napoletana, la delinquenza comune, le “mafie” pugliesi, lucane, calabresi, e i «galantuomini legittimisti», sostenitori e finanziatori dell’insorgenza antiunitaria, prevalendo spesso, dall’una parte e dall’altra (ma in specie tra i liberali) l’interesse “particulare” sulle motivazioni ideali.

Riprendendo quanto già sostenuto nel citato volume del 2016, Di Rienzo sottolinea come la reazione antiunitaria fosse anche una conseguenza del sostanziale arretramento della situazione politico-economica delle “Province Meridionali” con l’annessione al Regno d’Italia: maggiori pesi fiscali, mutamenti economici penalizzanti per il tessuto economico generale, “piemontesizzazione” delle istituzioni che venivano percepite generalmente come oppressione straniera.

Rimane, dunque, il punto fermo che costituisce il dato di partenza della panoramica di Eugenio Di Rienzo sulla storiografia inerente al “brigantaggio”: non è possibile una reductio ad unum del fenomeno, in cui non c’è dubbio sia individuabile animus furandi di qualche “ribelle”, così come non c’è dubbio che esso rappresenti il punto di emersione del conflitto interno tra maggiorenti meridionali, ma è nel “sentimento nazionale napoletano” che va ricercato il collante di un così vasto movimento, la ferocia della cui repressione suscitò l’orrore di un Benedetto Croce, non certo sospetto di “simpatie filoborboniche”