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Il conflitto israelo-palestinese e l'ignavia

di Andrea Zhok - 08/10/2023

Il conflitto israelo-palestinese e l'ignavia

Fonte: Andrea Zhok

L’operazione militare di Hamas di ieri ha suscitato l’usuale ondata di dichiarazioni di circostanza.
In quasi tutti i paesi ci si è affrettati o a “dichiarare solidarietà a Israele per la vile aggressione” (blocco americano, cioè UE e Commonwealth) o invece a “esprimere sostegno al popolo palestinese per l’iniziativa di resistenza all’invasore” (paesi islamici).
Eccezioni importanti sono state le dichiarazioni di Russia e Cina, che hanno cercato una posizione di equidistanza, chiedendo una de-escalation e l’avvio di una durevole trattativa di pace.
Ora, l’atteggiamento meccanico di schieramento e sostegno purchessia, specificamente nei paesi non direttamente coinvolti come i paesi europei, è precisamente ciò che ha supportato nei decenni quella infinita carneficina che è il conflitto israelo-palestinese.
Si tratta di un atteggiamento schiettamente irresponsabile e vile.
Almeno dagli anni ’80 la situazione dei rapporti tra lo stato israeliano e i palestinesi dei territori occupati è un rapporto di squilibrio di forze tale per cui la conflittualità non è più definibile come un confronto, ma solo come un’oppressione unilaterale punteggiata da episodi insurrezionali.
In precedenza esisteva un continuum tra irrisolta questione palestinese e conflittualità con i circostanti paesi islamici, ma a partire dalla pace firmata nel 1979 tra Israele ed Egitto, il destino del popolo palestinese si è sostanzialmente distaccato da quello degli stati arabi, almeno sul piano dei rapporti di forza.
Ora, l’asimmetria di potere è sempre anche un’asimmetria di responsabilità.
In un contesto di superiorità militare ed economica incomparabile da parte israeliana, i rapporti conflittuali tra Israele e la Palestina occupata non sono rapporti in cui è possibile chiedere alle controparti responsabilità, iniziative e disposizioni simili.
La responsabilità di proporre percorribili strade verso una risoluzione pacifica dei rapporti ricade necessariamente sulla componente più forte.
Provenendo da quella più debole una proposta di pace non può che presentarsi nella forma di una resa e di una subordinazione.
Ma l’ultimo tentativo concreto di formulare un realistico percorso di pace risale a 23 anni fa: la proposta del governo di Ehud Barak, nel 2000, che venne rifiutata dall’allora leader del OLP Arafat.
E' passata da allora una generazione e conflittualità ha preso la forma di una pura e semplice oppressione senza limiti e remore, in un crescendo di abusi e soprusi, come la chiusura da parte dei coloni dei pozzi di rifornimento idrico palestinesi o i ripetuti raid nella moschea di Al-Aqsa.
La vita nei campi palestinesi è la vita di un enclave senza prospettive, priva di sovranità, integralmente dipendente letteralmente per la vita e per la morte da uno stato ostile.
In questo contesto sono nate oramai quattro generazioni di palestinesi.
In Israele il processo di radicalizzazione etnica e di opposizione frontale ad ogni mediazione è cresciuto progressivamente, in parallelo con la crescita di influenza dei partiti ortodossi. L’aumento demografico delle componenti più radicali dipende anche dalla normativa degli anni ’90 che conferisce alle famiglie ortodosse grandi privilegi fiscali e condizioni di favore nel mantenimento della prole.
Questo processo di radicalizzazione è culminato anche simbolicamente nel 2018 con l’approvazione di una legge che trasforma ufficialmente Israele in uno stato etnico, uno stato dunque dove ad oggi 1.200.000 cittadini (arabi o cristiani) sono trattati come stranieri in patria.
Ecco, ora molte altre cose potrebbero dirsi volendo fare un’analisi storica di una vicenda che parte almeno dalla colonizzazione inglese della Palestina antecedente alla prima guerra mondiale. Ma anche limitandosi a questi pochi tratti di prospettiva storica credo debba risultare chiaro come sia insensato e irresponsabile trattare questo – come ogni altro – conflitto svegliandosi al mattino di un evento militare eclatante solo per dichiarare a costo zero il proprio schieramento di tifosi, per poi tornare all’apericena (cit.).
La mancanza di una prospettiva storica è cecità autoinflitta e sfocia sempre nel dogmatismo autoritario.
E' noto che l’unica prospettiva risolutiva di questo conflitto pluridecennale, esacerbato oramai in odio viscerale è il riconoscimento di due stati sovrani, ciascuno con il proprio diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa, e con una distribuzione territoriale che consenta alla popolazione palestinese un’organizzazione unitaria e funzionale. (Nessuno crede che si possa davvero ritornare all’unica definizione territoriale dello Stato di Israele che è stata internazionalmente riconosciuta, cioè quella della risoluzione ONU 194 del 1947, ma non si può neppure immaginare uno stato Palestinese ridotto a ritagli di territorio privi di accesso a risorse minime per la sopravvivenza, a partire dall’acqua.)
Al netto di quali siano le soluzioni effettivamente percorribili, in questo quadro gli unici peggiori dei violenti e dei prevaricatori sul terreno sono le tifoserie esterne, comodamente assise nei propri salotti.
Ed un particolare posto all’inferno verrà riservato all’ignavia delle classi dirigenti europee, che avendo sia l’interesse che la potenziale credibilità per mediare in questo conflitto si sono da tempo ritratte nell’asservimento alle disposizioni degli USA – che non hanno né l’interesse, né la credibilità per alimentare una pace duratura in Medio Oriente.