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Il malessere della civiltà moderna produce un nuovo tipo antropologico: l’uomo fluttuante

di Francesco Lamendola - 15/06/2017

Il malessere della civiltà moderna produce un nuovo tipo antropologico: l’uomo fluttuante

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 

Alla società liquida, teorizzata e descritta da Zygmunt Bauman, fa riscontro una nuova forma antropologica: l’uomo fluttuante, che non solo è senza più radici, ma che è incapace di metterle, dove e quando che sia, perché non solamente non sa, ma neppure vorrebbe metterle: un uomo che vaga qua e là, senza meta, senza scopo, senza alcuna certezza, e che ha finito per considerare normale, o quasi, la propria condizione, al punto che non si pone il problema di cambiarla o, almeno, di vedere se ciò sia possibile.

Limitandoci, per non dilatare la nostra riflessione a dismisura, agli ultimi duemila anni, ci sembra di poter dire che nelle società occidentali si sono succeduti quattro differenti tipi umani: il tipo stabile, il tipo errante, il tipo solipsistico e il tipo fluttuante.

Il tipo stabile è proprio della civiltà cristiana: il suo carattere essenziale è il valore che egli attribuisce alla tradizione e, di conseguenza, alla stabilità. Dotato di salde radici, che lo tengono ancorato alla terra e al richiamo della vita, primo fra tutti l’istinto della paternità e della maternità, che lo spinge a credere nel futuro, a investire nel rinnovo delle generazioni, è anche fornito di una possente spiritualità, che lo induce ad alzare lo sguardo dalla terra al cielo, a cercare il continuo contatto con Dio, a valutare ogni azione e ogni pensiero della sua vita in funzione di quell’altra vita, la vita eterna. Questo tipo umano è magnificamente rappresentato da Dante Alighieri e dalla sua Divina Commedia, ma anche dai gradi artisti che hanno decorato le cattedrali medioevali con i loro bassorilievi, le loro sculture, i loro capitelli traforati, i loro fregi, i loro pulpiti, le loro vetrate, i loro mosaici, i loro affreschi, nonché dagli architetti che hanno concepito la vastità delle navate, lo slancio verticale delle colonne, la spazialità ascensionale delle volte, il poderoso simbolismo dei rosoni, gli effetti della luce nascente che entra dal transetto e si spande come un fiume impalpabile per tutto l’edificio sacro, sino a lambire la controfacciata, immergendo il fedele in una mistica e struggente atmosfera, fuori del tempo e dello spazio.

Il tipo errante compare con la fine del medioevo e l’inizio dell’umanesimo: il suo carattere essenziale è il rifiuto, esplicito o implicito, della tradizione, cioè della civiltà medievale e cristiana, e il vagheggiamento, quasi l’idolatria, di un’altra tradizione, quella greco-romana, dunque pagana. Nemico della tradizione, del passato, si richiama, però, a un’altra tradizione, a un altro passato: ciò ne fa un tipo non rivoluzionario, ma reazionario: vorrebbe il ritorno di ciò che ha concluso il suo ciclo, tenta di incarnarne una rinascita. Il mito del rinascimento si origina da qui: è un’imitazione, ma un’imitazione creativa. E già per questo suo carattere essenziale si comprende perché si sia trattato, in origine, di un tipo estremamente minoritario, di una minuscola élite aristocratica, decisa a ignorare il vulgo, sempre odioso ed inimico, come diceva Petrarca. Il suo tipico esemplare è don Chisciotte, il cavaliere errante: errante proprio nel senso che dà Ariosto, prima di Cervantes, alla parola: colui che vaga fuori della giusta via e che, di conseguenza, cade in errore, s’inganna rispetto a quel che sta facendo, all’oggetto (inafferrabile) che sta cercando. Vi è una differenza enorme fra i cavalieri erranti del romanzo medievale, come quelli di Chrétien de Troyes, e i cavalieri erranti di Boiardo, Ariosto, Tasso, Cervantes: i primi cercano senza saper dove, ma sapendo cosa: il santo Graal; gli altri cercano senza saper né dove, né cosa: scambiano il sommo bene con il primo oggetto del desiderio, poi ne restano delusi e si rimettono alla ventura. Anche Amleto e molti eroi di Shakespeare corrispondono a questo tipo umano: ne rappresentano la faccia drammatica; ma anche Shakespeare è consapevole dell’illusione, come nel Sogno di una notte di mezza estate.

Il tipo solipsistico compare con l’avvento della rivoluzione scientifica, culmina con l’illuminismo e con il romanticismo, che sono due facce di una stessa medaglia, e si prolunga fino alla metà del XX secolo, fra le macerie di Auschwitz e di Hiroshima. È l’uomo dei grandi entusiasmi messianici e soteriologici, che poi ricade, sotto l’effetto della delusione, nel ripiegamento individualistico e nella disperazione. Ora sogna di rigenerare il mondo, come i philosophes, ora vorrebbe solo morire, come Werther, come Ortis, come Emma Bovary, come Anna Karenina, come Kirillov de I demoni, come Alfonso Nitti di Una vita, come il “povero poeta sentimentale” di Sergio Corazzini, come l’ex contadino angosciato dalla modernità di Sergej Esenin. Questo, sì, è un tipo rivoluzionario: odia la tradizione, vuole distruggerla, ma non per richiamarsi ad un’altra tradizione, bensì per ripartire da zero, per creare un mondo nuovo. Le sue crisi di sconforto dipendono dalla impossibilità, logica ancor prima che torica, di realizzare gli obiettivi che si pone: non c’è progresso senza tradizione, ma egli vorrebbe il solo progresso e, perciò, poggia il piede sul nulla. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli, grida fieramente Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto del Futurismo. Inquieto, nevrotico, isterico, paranoide, il tipo solipsistico vede se stesso come il centro del mondo: il suo tipico rappresentante teorico è Hegel, con la sua pazzesca filosofia basata sulla pretesa che l’essere nasca dal pensiero, e non viceversa; mentre il tipico rappresentante pratico è il Seduttore di Kierkegaard, insaziabile, eternamente insoddisfatto, che sporca tutto quello che tocca, perché, come il cane idrofobo, è torturato dalla sete, ma, nello stesso tempo, dal disgusto dell’acqua. È anche contrassegnato dal narcisismo maligno: se non può realizzare i suoi farneticanti desideri –farneticanti, perché indeterminati, e quindi velleitari - preferisce vedere il mondo intero rovinare insieme a lui: Hitler ne è l’esempio perfetto. Ma già il tipo errante lo conteneva in potenza: si pensi alla pazzia furiosa di Orlando nel poema ariostesco.

L’ultimo tipo, quello contemporaneo, è il tipo fluttuante, estrema degenerazione di quello che potremmo definire il tipo liquido. L’uomo fluttuante non sa dove vuole andare, né perché; in verità, non sa nulla di nulla: più che detestare la tradizione, semplicemente la ignora. Del resto, è incapace di grandi passioni, così come di grandi ideali; vive alla giornata, ma vive male, lacerato fra un edonismo compulsivo e incosciente e un senso di colpa che lo schiaccia e lo annichilisce (vedi i personaggi di Kafka, o di Svevo, o di Pavese). Fluttua, galleggia, si barcamena, tira avanti come può; del resto, tende a rinchiudersi sempre più nell’illusione della tecnica, cercando in essa una improbabile salvezza, ma senza riuscire a esorcizzare i suoi fantasmi, i suoi demoni, anzi, accrescendoli a dismisura. Il suo tipico rappresentante è Meursault de Lo straniero Camus, e, nella versione femminile, Adrienne Mesurat di Julien Green. Ai nostri giorni, nella sua ultimissima versione, è l’attentatore suicida che si fa esplodere in un luogo affollato, in una piazza, in una discoteca, in uno stadio, per trascinare con sé, nel nulla, il maggior numero possibile di persone. Esito inevitabile di un orientamento di vita tutto speso a coltivare gelosamente, tenacemente, instancabilmente, i suoi mostri, i suoi personali cavalieri dell’Apocalisse.

Ha osservato il padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell'Ordine cistercense (su Vita Nostra, rivista dell'Associazione Nuova Citeaux, Abbazia delle Tre Fontane, Roma, n. 1 del 2017, pp. 5-7):

 

[...] l'espressione che mi sembra più illuminante oggi [per definire il malessere dell'uomo contemporaneo], e che forse riassume le altre, è quella di "frater fluctuans", di "fratello fluttuante" o "galleggiante".

Si tratta di uno stato in cui la persona non è solo perduta, ma instabile, vacillante, come un naufrago su una tavola che, tra i flutti, sale e scende con le onde, come un sughero. Chi è "fluttuante" è come se non avesse stabilità in sé, né nella comunità, né in Dio, e subisce passivamente tutti i vortici e le turbolenze delle circostanze esterne. 

Penso che si possa dire che l'uomo del nostro tempo è più "fluttuante" che "errante". La cultura di internet trattiene costantemente la sua attenzione alla superficie delle mille onde delle informazioni e delle novità. Non si ha più il tempo né lo spazio per non galleggiare, non "surfare", come si dice in gergo informatico, sulle onde fugaci e virtuali della realtà. Non siamo più educati a cercare un porto dove fermarci, a gettare l'ancora per fissarci e trovare stabilità in profondità. Anche nei monasteri, mi capita di incontrare molti "fratres" e "sorores fluctuantes", che hanno difficoltà a fermarsi, ad esempio per dedicarsi alla preghiera, alla "lectio divina", alla meditazione; per approfondire nel dialogo e nella condivisione le relazioni fraterne; per ascoltare, approfondire, attendere la venuta del Verbo di Dio. 

Siamo tutti intrappolati in questa "cultura fluttuante", in Europa, in America, ma anche in Asia e in Africa, e non è solo la politica che è diventata molto instabile: è tutta la cultura che è "fluida", che non è una terra su cui si può camminare, muoversi, incontrarsi, cercare e tracciare vie per procedere.

L'uomo contemporaneo galleggia in mezzo al mare, in una notte senza stelle. Se Dante, all'inizio della sua "Divina Commedia", descrive il suo stato di perdizione come uno smarrimento in una selva oscura, nella quale, in qualche modo, poteva ancora camminare, cercare una via d'uscita, l'uomo moderno si trova in una perdizione, per così dire, a tre dimensioni, perché il galleggiamento non trova stabilità né verticalmente né orizzontalmente. E nemmeno è possibile fermarsi, aspettare, perché si poggia sul fluido, sull'instabile. Si è persi nella perdizione; si erra nell'erranza.

è come se le tragiche immagini delle migliaia di migranti che naufragano nel mediterraneo fossero uno specchio che l'umanità più misera pone davanti alla cultura e all'uomo occidentale perché vi vedano la propria condizione umana e spirituale.

San Benedetto deve aver attinto questa espressione di "fratello fluttuante" anzitutto da san Paolo, nella lettera agli Efesini, là dove l'apostolo descrive la nostra condizione quando saremo completamente salvati da Cristo e integrati al suo corpo. Allora non saremo più "come fanciulli sballottati dalle onde [“parvuli fluctuantes”] e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l'inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell'errore" (Ef, 4, 14).

Anche san Giacomo ha potuto ispirarlo, quando scrive che "colui che esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento" (Gc 1, 6). [...]

Ma notiamo che quando san Paolo, come san Giacomo e, dopo di loro, san Benedetto, descrivono e definiscono il malessere umano come una condizione di naufragio, di abbandono impotente alle onde dell’instabilità, della superficialità delle false dottrine, delle ideologie, non lo fanno come profeti di sventura, per inchiodare il mondo al muro di un giudizio senza appello e senza speranza. Lo fanno per annunciare e per descrivere l’evento che solo può salvare l’uomo e la società dall’affondare nell’instabilità.

Sì, siamo sempre e ancora come fanciulli sballottati; ogni epoca, ogni secolo, ogni vita umana ha avuto e ha le sue onde, le sue tempeste, che mettono alla prova e agitano violentemente il fondamento dei discepoli di Cristo sul loro Maestro e Signore. Ma questa esperienza di fluttuazione, o addirittura di naufragio, Dio la utilizza anche per ricordarci che l’evento fondante della storia della salvezza è la notte pasquale e battesimale in cui il popolo e ogni fedele passano a piedi asciutti attraverso il mar Rosso.

 

Anche se si tratta di una riflessione che assume la prospettiva privilegiata d’un monaco benedettino, crediamo che essa contenga un nucleo di verità valido per comprendere, in generale, la situazione spirituale di tutti gli uomini contemporanei. Quello che, al lucido sguardo di san Benedetto da Norcia, appariva come un tipo deviante, un caso patologico, è diventato pressoché la norma del tipo umano contemporaneo: dopo il solido cavaliere dell’ideale (Lancillotto), il cavaliere dell’illusione (don Chisciotte) e il cupo cavaliere dell’Apocalisse (lo Zarathustra di Nietzsche), ecco lo stralunato cavaliere del nulla. In filosofia, è un maestro del pensiero debole; nella morale, un maestro dl relativismo; in religione, uno strenuo fautore dell’ecumenismo e del dialogo inter-religioso: non perché si sia convertito realmente alla pluralità delle fedi, ma perché, non credendo più in niente, preferisce mascherare agli altri ed a se stesso il vuoto desolante che si porta dietro, e vorrebbe trasformarlo in virtù: la virtù del dialogo. Tanto, non gli costa nulla; solo chi crede in qualcosa, si rende conto che non è possibile sacrificare neanche un grammo della verità in nome del “dialogo”, per il semplice fatto che il dialogo non è un valore in se stesso, ma, eventualmente, è solo lo strumento per realizzare dei valori. Il dialogo, di per sé, indica semplicemente che si sta parlando con qualcuno: però, per parlare in modo sensato e realmente costruttivo, e non a vanvera, bisogna sapere chi si è, da dove si viene e dove si desidera andare: bisogna essere qualcuno o qualcosa, possedere una identità. Chi ha già rinunciato ad essere se stesso, alle proprie radici, alla propria prospettiva, alla propria identità, e questo per la pessima ragione che se ne vergogna, non sta affatto dialogando, anche se si riempie la bocca di parole: l’altro, infatti, non lo sente neppure, perché è come se stesse parlando  a bocca chiusa.

Come si esce dal mare del nulla per ritrovare un peso specifico, per smettere di fluttuare e gettare le radici da qualche parte? Si esce mediante un movimento in due tempi, che, in realtà devono dispiegarsi in maniera sincronizzata: riappropriandosi della propria identità, e levando lo sguardo vero Dio, fonte luminosa e supremo garante del nostro essere. Perché l’uomo è diventato fluttuante da quando si è allontanato da Dio e ha smarrito e rinnegato se stesso: due azioni che sono, poi, le due facce di una stessa medaglia…