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Il paradosso della destra radicale che porta i voti all’élite

di Marco Tarchi - 08/02/2021

Il paradosso della destra radicale che porta i voti all’élite

Fonte: Domani

Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno mostrato di essere spaventati dal loro stesso successo e hanno iniziato a cambiare rotta, ognuno a suo modo, l’uno ammiccando al liberalismo, l’altra al conservatorismo.
E ribadendo la fiducia in alleati che, come dimostrano le fuoriuscite verso il centro e gli entusiasmi per le larghe intese, sono pronti a scaricarli non appena se ne presenterà l’occasione.
Siamo quindi di fronte ad una destra che raccoglie consensi su proposte radicali e populiste e pare volerli spendere per assumere posizioni moderate e più gradite alle élite.
Il tema dell’“anomalia italiana” ha fatto scorrere, dagli anni Sessanta in poi, fiumi di inchiostro. A partire dalla tesi di Giorgio Galli sul bipartitismo imperfetto e da quella di Giovanni Sartori sul pluralismo polarizzato, l’interpretazione delle dinamiche del nostro sistema politico come un unicum nel panorama delle democrazie, ha spinto i politologi a schierarsi in fronti contrapporsi, anche con qualche asprezza polemica, e ha offerto un Leitmotiv al giornalismo.
Lo spettacolo offerto dalla crisi attuale ha fornito altri argomenti a chi pensa che nella penisola non si riuscirà mai ad arrivare ad una dialettica normale (ammesso e non concesso che questo aggettivo abbia diritto di cittadinanza in politica).
I frequenti cambi di casacca di deputati e senatori, con annessa nascita di gruppi parlamentari ad hoc, avvicinano il contesto italiano più ai caotici scenari sudamericani che a quelli del resto d’Europa. E anche le modifiche di colore delle compagini di governo, gli affidamenti a figure tecniche per comporre esecutivi di fisionomia incerta e l’ipotetica configurazione di maggioranze della “non sfiducia” non sono certo caratteristiche usuali negli altri paesi che compongono l’Unione Europea.
Quanto tutte queste particolarità siano dovute alle varie formule elettorali che si sono succedute dal 1993 ad oggi, è questione complessa e che va trattata a parte, sfuggendo alla convinzione – comune a tanti esponenti politici e ad ancor più numerosi comuni cittadini – che esista un meccanismo magico che, come si usa dire, «darebbe certezza di chi governa la sera stessa delle elezioni e gli consentirebbe di restare in carica per l’intera legislatura».
Resta il fatto che, ad oggi, la politica italiana continua ad essere segnata da non poche specificità, alcune delle quali rasentano il paradosso.

LA DESTRA E L'ALTERNANZA
Una di quelle di cui meno si parla è il fatto che, nello schema bipolare attraverso il cui prisma molti vorrebbero – anche a discapito delle intenzioni degli elettori – articolare la dialettica del sistema, una delle due parti chiamate a sottoscrivere la logica dell’alternanza presenta un’articolazione interna che la differenzia da tutte le aggregazioni analoghe presenti in Europa e ne condiziona fortemente l’azione. Parliamo ovviamente, semplificando molto il quadro dell’osservazione e adottando per semplicità di spiegazione categorie che hanno perso gran parte del loro significato originario, della destra.
Sul deficit di legittimità di cui quest’area soffre fin dalla nascita della Repubblica, per i suoi legami con l’esperienza fascista, molto si è scritto da più parti. Ed è indiscutibile che la lunga stagione dell’egemonia democristiana non ha fatto altro, sia pur con tattiche molte diverse (dalle seduzioni centriste all’esclusione dall’arco costituzionale), che rafforzare quell’handicap, sbilanciando verso sinistra le interlocuzioni – e le inclusioni – con l’opposizione.
A riequilibrare in parte la situazione è stato, grazie a Tangentopoli, il rimescolamento di carte che ha visto come protagonista Berlusconi, che con il celebre endorsement a Gianfranco Fini alle elezioni comunali romane dell’autunno 1993 e poi con l’apertura al Msi-Alleanza nazionale del Polo del Buongoverno di pochi mesi dopo ha offerto un potenziale di coalizione (per dirla, di nuovo, alla Sartori) al partito degli “esuli in patria”.
È vero che quella legittimazione è stata incompleta e, come ha messo in evidenza Luca Ricolfi in Sinistra e popolo (Bompiani), è stata aspramente contestata dall’élite intellettuale progressista, Norberto Bobbio in testa, ma è comunque servita a dimostrare che, nell’opinione pubblica, la “non-sinistra” (o l’“anti-sinistra”) non era minoritaria e poteva aspirare ad esercitare funzioni di governo.
A patto che a dettarne la linea fosse la componente moderata o conservatrice, con varie sfumature liberali e cattoliche, incarnata da Forza Italia, dal Ccd/Udc e da altri spezzoni del vecchio ceto politico democristiano e socialista.
Già sotto questo aspetto, il bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica mostrava la sua anomalia, perché amalgamava soggetti che altrove erano considerati incompatibili (la destra di Chirac, in Francia, aveva sempre combattuto il Front national di Le Pen padre, rifiutando qualsiasi accordo, e lo stesso aveva fatto la Cdu tedesca con i Republikaner, mentre in Austria si  fatto ricorso alla Grosse Koalition fra democristiani e socialisti pur di tenere in fuorigioco la Fpö di Haider). Ma, una volta calmatasi la bufera giornalistico-politica che si era scatenata nell’Ue contro i “ministri fascisti” di An, la garanzia offerta dai moderati aveva un po’ alla volta portato ad accettare lo stato di fatto.
E, pur in mezzo ad alterne vicende elettorali e a inopinati rovesciamenti di posizione (il Fini moderato che accusa Berlusconi di estremismo, con conseguente scissione e fallimento di Futuro e libertà), la dizione “centrodestra”, auspice l’ammissione di Forza Italia e poi del Pdl nel Ppe, è servita a far digerire la pillola anche nei palazzi di Bruxelles.

IL POPULISMO DOPO LA LEGITTIMAZIONE
Questa routine ha subìto però un brusco arresto quando il vento del populismo ha iniziato a soffiare più forte, in Italia come in tutto il continente.
La crescita dei consensi delle formazioni di questo campo – o perlomeno di quelle più vicine a posizioni di destra, pur nella loro sostanziale trasversalità – ha creato alle destre liberal-conservatrici non pochi dilemmi. Ai quali però quasi tutte (Austria, Danimarca e Norvegia sono state le eccezioni) hanno risposto con la chiusura ad accordi con le formazioni considerate radicali.
Malgrado il netto distanziamento dalle posizioni estremiste e il cambio di nome in Rassemblement national, Marine Le Pen non è riuscita a far accettare il suo partito agli eredi di Nicolas Sarkozy. Angela Merkel ha energicamente contribuito alla demonizzazione di Alternative für Deutschland. Il Partido Popular, pur con qualche strappo locale, ha chiuso le porte a Vox; lo stesso è accaduto in Svezia, in Portogallo, in Belgio e un po’ ovunque. E anche dove qualche apertura c’è stata, a dettare le condizioni sono stati i partiti mainstream.
In Italia, invece, il tabù è stato rotto. Nel 2018 la Lega ha superato Forza Italia, infrangendo il patto di coalizione è andata al governo con il M5S, e negli appuntamenti elettorali seguenti ha surclassato berlusconiani e centristi, mentre Fratelli d’Italia iniziava la sua ascesa.
Da quel momento in poi le due formazioni più radicali hanno, in una sorta di logica dei vasi comunicanti che li ha portati a sottrarsi e restituirsi a vicenda sostenitori, raccolto l’80 per cento dei suffragi della coalizione (cioè il 40 per cento dell’elettorato, stando ai sondaggi), lasciando gli alleati-concorrenti in stallo. E creando quello che è stato definito un “polo a trazione sovranista”.

SENZA BUSSOLA
La situazione deve essere sembrata così sorprendente anche a chi ne traeva beneficio da fargli smarrire la bussola strategica. Al punto che, dopo aver accumulato un vasto patrimonio di consensi grazie ai toni di protesta anti-establishment, anti-immigrazione, anti-Ue, ed essersi posti nella condizione di varare una partnership che avrebbe potuto condurli ad una maggioranza autonoma nel futuro parlamento, Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno mostrato di essere spaventati dal loro stesso successo e hanno iniziato a cambiare rotta, ognuno a suo modo, l’uno ammiccando al liberalismo, l’altra al conservatorismo.
E ribadendo la fiducia in alleati che, come dimostrano le fuoriuscite verso il centro e gli entusiasmi per le larghe intese, sono pronti a scaricarli non appena se ne presenterà l’occasione.
Siamo quindi di fronte ad una destra che raccoglie consensi su proposte radicali e populiste e pare volerli spendere per assumere posizioni moderate e più gradite alle élite.
Quanto questa scelta piacerà agli elettori che oggi le assicurano il primato nelle intenzioni di voto, si vedrà. Di sicuro, è un dato che rafforza ulteriormente l’opinione di chi pensa che l’anomalia politica italiana sia un dato irrimediabile.