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Il sogno di una grande (e lunga) Regione Appennino, con le città di Adriano Olivetti

di Gian Luca Diamanti - 30/10/2025

Il sogno di una grande (e lunga) Regione Appennino, con le città di Adriano Olivetti

Fonte: Barbadillo

Non credo che i confini siano solo le cicatrici della storia, come sostiene Simone Guida nel suo libro “L’inganno dei confini” (Gribaudo, 2025). Certo i confini, in alcuni casi, sono barriere arbitrarie volute per difendere interessi economici ed egoismi e sono spesso quel che resta sul campo di guerre e sfruttamento. Tuttavia i confini sono anche contenitori di luoghi omogenei, di paesaggi che caratterizzano le identità, di tradizioni e di progetti per un futuro condiviso, di comunità che vivono nei luoghi, ne traggono linfa, ispirazione e li rivitalizzano.

REGIONE APPENNINO – I confini possono mutare, anzi devono mutare, se mutano le comunità che vi si trovano dentro. Pensiamo all’Appennino. Dopo lo spopolamento, dopo la fine della civiltà rurale e pastorale che ha caratterizzato questi territori per millenni, ha senso suddividerli in undici o dodici regioni molto diverse tra di loro e dove, comunque, sono quasi sempre marginali? Ha senso farlo se i problemi, le risorse, le esigenze, i sogni, gli incubi e i progetti delle “terre alte”, o se preferite delle “aree interne”, sono in realtà molto simili dalla Liguria alla Calabria? La stessa Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) delinea un’omogeneità di fondo per l’intera dorsale appenninica.
Per questo si potrebbe immaginare, foss’anche come una semplice provocazione, la creazione di una vera e propria macroregione appenninica, con confini definiti da Nord a Sud, così da governarla con un’unica visione di fondo soprattutto sociale e culturale, che vada ben oltre le misure economiche e finanziarie già applicabili per le aree interne.

L’ITALIA DELLE MACROREGIONI – Pensare un’Italia suddivisa in macroregioni invece che in regioni (oppure oltre che in regioni) d’altronde non è una novità. Già negli anni ’70 alcuni studiosi proposero di aggregare più regioni in aree omogenee per migliorare la pianificazione economica e parlarono di “aree sistema” o “regioni funzionali”, anticipando l’idea delle macroregioni economiche. Poi ci fu la proposta di Gianfranco Miglio, con le macroregioni federaliste che però sembrarono soprattutto funzionali al separatismo della cosiddetta Padania. Anche Franco Bassanini ipotizzò una suddivisione dell’Italia in macroregioni, con obiettivi economici e di risparmio sulla spesa. L’Unione Europea, nel contesto della politica di coesione, ha infine introdotto il concetto di “macroregioni europee”, aree transnazionali con strategie comuni (ad esempio la macroregione alpina, adriatico-ionica…).

UNA FASCIA DI TERRITORIO LUNGA, STRETTA E MONTUOSA – Cosa dovrebbe essere dunque una macroregione appenninica, magari affiancata da altre macroregioni: l’alpina, l’adriatica, la padana, più la Sicilia, la Sardegna e l’area di Roma capitale? Forse un tentativo di tenere insieme l’Italia dando più forza alla sua spina dorsale; di trasformare le sbiadite aree interne in un’entità più forte, più coesa, più identitaria. E come dovrebbe essere amministrata la macroregione appenninica? Sul modello di autonomia delle attuali regioni o diversamente? O semplicemente come le aree europee con strategie comuni? Difficile dirlo: quel che interessa è mettere in evidenza che esiste una lunga fascia di territorio italiano che soffre le stesse crisi e guarda a opportunità molto simili. Una fascia territoriale stretta, lunga, montuosa, che necessita di infrastrutture e di tutele ambientali specifiche, di servizi e di misure di sostegno, che inizia a percepirsi come territorio omogeneo e che è disseminata di centri urbani piccoli e medi, a differenza dell’area adriatica, di quella tirrenica e ancora più di quella padana dove ci sono i grandi agglomerati urbani.

I CENTRI URBANI D’APPENNINO E LA VISIONE DI OLIVETTI – I piccoli e medi centri della regione appenninica hanno molti limiti, ma prospettano un modello di vita diverso che, per tornare ad essere un “modello”, ha bisogno di sostegno e di visione, oltre che di nuovi strumenti amministrativi. Parliamo di centri come ad esempio Urbino, Gubbio, Norcia, Rieti, Ascoli Piceno, Camerino, Macerata, L’Aquila, Sulmona, Isernia, Campobasso, Avellino, Benevento, Potenza, Cosenza e tanti altri più piccoli o un po’ più grandi, sull’Appennino o appena più in basso nelle valli circostanti. È l’Italia delle piccole città che in passato si giovavano di un rapporto di complementarietà con i propri territori, fatto di reciproci vantaggi e servizi diffusi, che oggi potrebbero tradursi in nuove forme di partenariato, di aggregazione in rete tra enti locali, come suggerito qualche anno fa dalla Carta dell’Aquila e come sostenuto con forza dal progetto Italiae. Ma è a livello culturale che si gioca una partita importante: se riuscissimo a guardare l’Appennino, le sue città e i suoi paesi con gli occhi di quel grande visionario che fu Adriano Olivetti, forse potremmo vederli in maniera diversa e iniziare a riscattarli dalla loro apparente apatia e marginalità. Olivetti riteneva infatti che una città dovesse mantenere una dimensione contenuta, intorno ai 20.000–30.000 abitanti, per garantire coesione sociale e partecipazione civica. Come molti dei centri appenninici, appunto. Una comunità troppo grande perdeva, secondo lui, la capacità di autogovernarsi e di mantenere relazioni autentiche tra i cittadini. Questa idea si inseriva nella sua concezione di “Comunità”, intesa come un organismo intermedio tra individuo e Stato, dove la persona potesse trovare il giusto equilibrio tra libertà e responsabilità sociale. La città per Olivetti era anche da considerare come parte di un sistema territoriale policentrico, fatto di centri di dimensione simile, o più piccola, ciascuno con una propria identità ma collegato agli altri da reti di trasporto, cultura e produzione. La pianificazione territoriale doveva rispettare la morfologia del paesaggio e le sue risorse, evitando la concentrazione urbana e l’impatto ambientale delle grandi città industriali. L’industria, l’abitato e la natura dovevano convivere in equilibrio.
Così una rilettura della visione di Olivetti potrebbe essere un buon viatico per valutare da un punto di vista diverso e originale le straordinarie e specifiche caratteristiche della regione appenninica, per immaginare un futuro in linea con la sua storia, con la sua vocazione, come suggerito dalla conformazione e dallo spirito dei luoghi. E una eventuale e nuova definizione dei suoi confini dovrebbe servire non solo a tutelare queste caratteristiche, ma a farle emergere, a specificarle, a farle germogliare.