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L’America ha perso, l’Europa ha perso due volte

di Salvo Ardizzone - 30/10/2025

L’America ha perso, l’Europa ha perso due volte

Fonte: Italicum

Premessa

La guerra fra Unipolarismo egemonico vs resto del mondo è in corso da tempo, da molto prima che, scoppiando apertamente, s’imponesse all’attenzione del pianeta mettendone in discussione gli equilibri. È un conflitto esploso platealmente il 24 febbraio 2022 in Ucraina, dilatandosi subito in Medio Oriente, il 7 ottobre 2023 con Al-Aqsa Flood, lungo le faglie di un confronto non più gestibile sottotraccia.

Le localizzazioni non sono frutto del caso: la prima crisi è l’inevitabile sbocco di una dinamica d’espansionismo egemonico perseguita dagli USA (e dai suoi vassalli) fin dall’implosione dell’URSS, tendente a frantumare e inglobare la fu area sovietica. La seconda è gemmata nella regione che più delle altre ha visto gli Stati Uniti impiantare un sistema di potere che, con l’interessata complicità dei gruppi dirigenti dell’area e l’inaggirabile pilastro israeliano, ha assoggettato il quadrante, da ciò generando conflittualità permanente fra chi quel regime di sudditanza vuole scrollarsi di dosso e chi, a vario titolo, intende mantenerlo.

Per la massa di tensioni accumulate, era ineluttabile che la guerra scoppiasse prima in quei teatri, ma non sono i soli a rischio di confitto; essi sono il prodromo di un confronto globale che è politico, economico, sociale e, soprattutto, culturale, fra visioni del mondo diverse, oggi divenute collidenti. È segno di una transizione egemonica, anzi, di un’autentica rivoluzione geopolitica che non si ferma a Ucraina e Medio Oriente ma investe l’intero pianeta. In Africa è un fiorire di conflitti che hanno espulso l’Occidente a beneficio dei suoi competitor; in Sud America è una partita aperta, malgrado sia il “giardino di casa” degli americani. Ed è assai improbabile che un attacco al Venezuela assicuri la regione a Washington, assai più plausibile il contrario.

Il fulcro del confronto globale

Sullo sfondo delle attuali aree di aperta crisi, cova il confronto principale nell’Indo-Pacifico, fra Cina e USA. Washington ha da anni identificato in Pechino un rivale vero, anzi, “il” rivale: “La Repubblica Popolare Cinese rimane il più serio concorrente strategico degli Stati Uniti e la principale sfida nei confronti dei loro interessi per i decenni a venire, in quanto unico paese che possiede sia l’intenzione di dare forma a un nuovo ordine internazionale, sia i mezzi economici, diplomatici, militari e tecnologici  per farlo”; così si apriva la National Defense Strategy (NDS) pubblicata dall’Amministrazione Biden già il 27 ottobre del 2022.

Come ebbi modo di scrivere allora[1], era l’anatema dell’Egemone che si percepiva tale nei confronti del reo, colpevole di voler ascendere a un ruolo consono alla stazza guadagnata sul campo; irricevibile per chi si è sempre percepito signore del mondo per diritto divino, per quel “destino manifesto” intriso di fanatismo messianico che pretende gli Stati Uniti “eccezionali”, dunque, unici titolati ad assegnare ruoli e a presiedere l’ordine internazionale, il loro. Se la guerra laggiù non è ancora scoppiata è perché gli USA, sprovvisti di pensiero strategico che tralasci il secondario per concentrarsi sull’essenziale, e adusi a sentirsi padroni di tutto, si sono lasciati risucchiare da molteplici conflitti scoprendosi a corto di risorse. In pratica, si sono ritrovati col conto in rosso, traumatica constatazione che ha contribuito a enfatizzare la portata del fenomeno Trump. 

Ora, sotto il peso dei costi proibitivi per il suo mantenimento, gli Stati Uniti vogliono dismettere l’impero, tornare America, anzi, Fortezza America, una nazione centrata su se stessa, magari traboccando in Groenlandia e – perché no? – in Canada, coprendo l’intero emisfero occidentale[2]. Non vogliono coltivare partner, né concepiscono alleati, vogliono solo strumenti. Per questo la NATO è divenuta per essi un peso, un orpello da attivare a loro discrezione, la “NATO latente” di cui si discetta a Washington.

È un salto indietro epocale che vorrebbe tornare addirittura a McKinley, archiviando il secolo abbondante da Woodrow Wilson in poi. Forse concettualmente possibile, sotto la spinta dei “forgotten” che chiedono finalmente attenzione per sé, prima che per guerre lontane. Praticamente del tutto impraticabile causa insanabili contraddizioni, poiché la crisi americana non è importata, è figlia diretta del Sistema America: provare seriamente a porvi rimedio è rinnegarlo. È rinnegare alfa e omega di teoria e prassi dell’American Dream, di tutto ciò che ha fatto gli USA che conosciamo.

Ma, a causa delle evidenti (e crescenti) fratture interne,vi sono almeno due visioni del paese, per cui la domanda oggi è: con quali Stati Uniti avrà a che fare il mondo? La risposta, ancora non definita, determinerà gli assetti del pianeta. Fatto è che l’America liberal, che ha innervato a lungo l’azione dell’(ormai ex) Egemone, ha ricevuto una sconfitta strategica. Non è stata la fine d’un ciclo ma di un’era: Trump ha vinto con il voto popolare, controlla i due rami del Congresso e ha una Corte Suprema affine. Forte di questo, conduce un’offensiva che sta smantellando i centri di potere dei suoi avversari, ad oggi in stato confusionale.

Ciò malgrado, non è affatto chiaro cosa ne uscirà perché, nel mondo che si sta apparecchiando, è del tutto improbabile una rivincita dell’America, un suo ritorno al ruolo di Egemone unico, ciò che è stato non sarà più. Indietro non si torna. Per gli USA è forzato ridimensionamento: vi si adatteranno? Il dubbio è più che mai legittimo, per congenito riflesso d’onnipotenza collidente con la realtà che affiora e s’afferma. La stabilità del pianeta, e la possibilità d’una conflagrazione mondiale, dipendono da questo.

Le sconfitte emergono

Oggi, le sconfitte degli Stari Uniti, prima potenziali, cominciano ad emergere dalla cortina della propaganda. Incontrovertibili. Prima in Ucraina, ed è paradossale. Ribadisco un concetto che ho già espresso più e più volte: i realistici obiettivi del conflitto, gli USA, li avevano già centrati da subito, ovvero: infrangere i legami fra Russia e stati europei (Germania in primis) e riacquistare il completo controllo politico sullo spazio Europa. A pensiero strategico, appena lucido, sarebbe stato sufficiente assecondare le trattative in Turchia del marzo-aprile 2022 fra Mosca e Kiev, per chiuderla lì e portare a casa la vittoria. Ma, a quel punto, credendo alla propria narrazione (leggi: propaganda), hanno pensato di stravincere, ignorando completamente ragioni e obiettivi della Russia, che sono invece rimasti fissi negli anni, e provando a infliggerle una “sconfitta strategica”. A ciò sacrificando un enorme capitale politico, economico e militare, e con ciò andando incontro a uninevitabile, completo fallimento.

E non si provi a dire, come tenta Trump, che la sconfitta è dell’Amministrazione Biden: al pari di quanto ha sperimentato amaramente l’Italia, a perdere una guerra è la nazione, non il regime o l’Amministrazione che la guida, dunque l’America. Punto. In altre parole, gli USA hanno mostrato: strategia inconsistente (carenza nel definire gli obiettivi); debole visione geoeconomica (mancanza di risorse sufficienti alla realizzazione del progetto); geocultura fallimentare (narrazione scollegata dalla realtà). In questo modo, l’America, con il resto dell’Occidente al seguito, è partita sconfitta in partenza; in ogni caso, e argomento decisivo, per Mosca il conflitto era (ed è) esistenziale - dunque, essa è disposta a portarlo a qualsiasi livello - per Washington no, e così resta facendo tutta la differenza.

Né in Medio Oriente per il fu Egemone va meglio: la sua credibilità è in caduta libera, si fa portare a spasso da Israele contro i suoi interessi, in una regione che vira ormai verso altre sponde per avere sicurezza (vedi l’Arabia Saudita che si pone sotto l’ombrello nucleare pakistano) o realizzare interessi economici (come emiratini, sauditi e gli altri del Golfo che flirtano apertamente con la Cina), in ogni caso nessuno si fida più degli USA e alza il prezzo di una futura collaborazione (il Qatar ne è esempio, con l’inedito contenuto del nuovo patto securitario strappato dopo l’aggressione israeliana), nel nuovo clima ritenendo assai più conveniente convivere che scannarsi (Iran e Arabia Saudita l’hanno compreso da tempo).

In questo quadro, in cui tutti vogliono finalmente stabilità, Israele è divenuto scheggia impazzita, preda di una a-strategica pulsione distruttiva e autodistruttiva che lo ha reso antitetico agli interessi dell’intera la regione. E, continuando ad appoggiare a prescindere le sue iniziative, gli USA sacrificano risorse preziose (divenute scarse) e credibilità (che, una volta persa, è estremamente difficile riacquistare); conseguenza: peso politico e influenza in caduta libera.

E non ci si faccia sviare dai sedicenti accordi di Sharm el-Sheikh. Non si tratta di pace ma di fragile tregua d’assai dubbia tenuta. Delle tre fasi previste, solo sulla prima è stata raggiunta con estrema fatica un’intesa. Il resto è fuffa, vagheggiamenti posti a contorno per giustificare i veri obiettivi: fare cessare un massacro divenuto insostenibile; riportare a casa i prigionieri israeliani e vasta parte di quelli palestinesi; spezzare il blocco che ha affamato la Striscia. E aggiungiamo: fare rifiatare Israele. Il resto è nebbia.

Nella sostanza, al di là di roboanti dichiarazioni, Trump ha salvato (per ora) Israele da se stesso, sulla spinta degli stati dell’area che invocano stabilità, tirandolo fuori da un vicolo cieco. Ma è solo un provvisorio stop, perché non è stato sciolto nessuno dei nodi del conflitto, che non si limita alla Palestina ma tende all’inevitabile ridisegno del Medio Oriente e che, per questo, è necessariamente destinato a riaccendersi. Ridisegno imposto dai mutati assetti ed equilibri del mondo.

Come accennato, sullo sfondo di questi conflitti da cui il fu Egemone non sa districarsi, campeggia il teatro primo che esso vorrebbe continuare a dominare, l’Indo-Pacifico. Ma è partita già persa. Non è scontro militare, non ancora, il già Numero Uno al momento non osa intraprenderlo causa stazza acquisita dal rivale e, forse, riconoscerà – lacerazione massima – di non poterlo più intraprendere perché non ne ha più la forza. In ogni caso, non è nelle corde del Tycoon che cerca il deal e sfugge allo scontro che potrebbe rivelarsi esiziale. Per l’America è fallimento di sistema che arriva da lontano.

Il ragionato suicidio americano

Mi sono già occupato a lungo dell’argomento in altri saggi, qui mi limito a ricordarlo brevemente. Già sul finire della Guerra Fredda il Sistema USA si pose il problema di massimizzare gli utili, delocalizzando o dismettendo le produzioni a basso o medio valore aggiunto e concentrandosi su servizi, finanza e hi-tech, ma badando a preservare il suo asset più importante, la centralità del dollaro nell’economia globale che gli ha permesso d’essere l’unità di conto dei traffici internazionali, mezzo di pagamento globale e universale strumento di riserva, con ciò costituendo “l’esorbitante privilegio” di cui parlava Giscard d’Estaing.

Per ovviare ai contraccolpi sul biglietto verde e su una bilancia commerciale anche allora in sofferenza, nel 1985 gli Stati Uniti spinsero Francia, Regno Unito, Germania, Giappone e Canada a sottoscrive il cosiddetto accordo del Plaza che scaricava su di essi le tensioni. Fu quello l’avvio della deindustrializzazione di massa che trasformò i grandi poli industriali americani nella Rusty Belt e avviò la liquidazione della classe media. E fu pure l’avvio del Nafta (siglato poi nel 1992), l’accordo nordamericano per il libero scambio che fece del Messico una succursale dell’industria americana a prezzi stracciati, e dell’ingresso della Cina nel WTO (2001) con negoziati che partirono fin dal 1986 sotto la forte pressione degli Stati Uniti.

Il calcolo di Washington era chiaro: per dismettere l’economia manifatturiera occorrevano altri poli produttivi da cui comprare grandi volumi di merci a basso prezzo, con ciò permettendo anche la possibilità di comprimere i salari interni grazie alla larga disponibilità di prodotti a basso costo, che mantenessero una certa capacità d’acquisto ai redditi divenuti sempre più bassi di crescente parte della popolazione. Il calcolo si basava sulla convinzione che i paesi coinvolti, Messico e, ancor di più, la Cina, non sarebbero mai stati capaci d’andare oltre il ruolo di contoterzisti delle imprese americane. Ragionamento centrato per il Messico, primariamente per le caratteristiche politiche, sociali ed economiche del paese, ma del tutto errato per la Cina, che, fra lo stupore generale, ha saputo scalare metodicamente la catena del valore, passando con crescente rapidità dalle produzioni di dubbia qualità a basso valore aggiunto a quelle medie, e poi a quelle alte con altrettanta alta qualità, producendole a prezzi imbattibili.

Senza voler fare la storia economica e commerciale degli ultimi decenni, il succo è che molti paesi hanno appreso la lezione americana, in senso lato occidentale, imparando il gioco della globalizzazione assai meglio di chi l’ha inventato e giocandolo con uno stile tutto proprio, che ne ha accettato la tecnica ma non la corrosiva ideologia che vi è sottesa. Saltando al giorno d’oggi il risultato è che gli USA sono in estremo affanno: con buona pace delle velleità trumpiane, deindustrializzati non possono reindustrializzarsi per strutturale deficit d’impianti e capitale umano che non si inventa per decreto[3]. Vacilla pure il loro asset centrale, il dollaro, piegato da un debito colossale, da una situazione finanziaria netta disastrosa, da uno strutturale passivo della bilancia commerciale insostenibile. È letteralmente un sistema che campa sui debiti che non sa più come sorreggere.

E non c’è speranza d’un novello Accordo del Plaza 2.0 che salvi ancora gli USA: il nerbo dell’economia globale è migrato verso stati indisponibili a farsi sfruttare, ad assoggettarsi (a parte la Cina, anche a occhio americano del tutto fuori scala per essere bullizzata, vedi la dura reazione indiana a diktat e dazi trumpiani). Gli Stati Uniti possono dettar legge solo in Europa – e torneremo sui motivi - perché anche fra i membri indopacifici dell’Occidente allargato stanno sorgendo distinguo e mugugni ieri impensabili (vedi Giappone, Corea, addirittura Australia).

Ma l’Europa è del tutto insufficiente a caricarsi sulle spalle e alimentare un sistema predatorio del calibro della finanza USA. Si farà spolpare, come tutte le province d’un impero in crisi, sta già accadendo, fra l’accondiscendenza complice degli establishment e la colpevole inerzia della gran parte di popoli scaduti a servi. Incapaci di vedere chi sia il nemico per totale assenza di consapevolezza. Destino unico: il crollo. Prima dei satelliti dissanguati, poi del fu Egemone.

E allora? Allora l’America ha perso, la Cina ha vinto, e dietro lei gli altri che contestano l’Egemonismo. Hanno vinto per suicidio dell’Egemone in lite con se stesso. È l’inverarsi di “America Agaist America”, il profetico libro di Wang Huning, accademico e poi politico cinese, pubblicato addirittura nel 1991, nel fulgore del momento unipolare. In quell’attimo di trionfo americano, che pareva avviato a durare sempre (ricordate “The end of History end the last men”, un monumento alla fugacità del presente che si scambia per eterno, per cronica incapacità di proiettare le sue dinamiche e conseguenze nel futuro?), con straordinaria lucidità l’autore ha colto le colossali contraddizioni che avrebbero avviato gli USA ad assai rapido declino.

Un giudizio ripreso più tardi da Michael Froman in un saggio su Policy Affairs che fece scalpore, titolato seccamente: “La Cina ha vinto”. Al di là da preconcetti e opinioni, dettati da una narrazione (leggasi: propaganda) che ha agito per almeno tre generazioni[4], il Sistema USA è oggi largamente parassitario. Si è avviato su questa china inseguendo il massimo e più celere profitto, in perfetta coerenza ai propri principi. E si è distrutto.

Del resto, l’accelerazione sull’hi-tech, voluta proprio dagli Stati Uniti per affermare la loro supremazia, si basa su due pilastri: capitale umano e capacità manifatturiera tali da realizzare l’hardware e le infrastrutture in grado di rendere concrete le potenzialità tecnologiche. E in questo, la Cina, seguita dagli altri paesi asiatici, batte tutti. Basta guardare i milioni di lauree STEM, che ogni anno rinforzano il mondo della ricerca e del lavoro dell’Impero del Centro, e la sua inarrivabile base infrastrutturale, per accorgersi che non c’è partita. Gli stessi colossi dell’hi-tech a Stelle e Strisce dipendono in massima, stragrande parte da capitale umano cinese, indiano, comunque asiatico; un patrimonio destinato, salvo limitate eccezioni, a tornare in patria col proprio now-how. E in America, i data center e gli impianti industriali per sostenere la sfida sono in assai larga parte da realizzare, se e quando gli stellari investimenti saranno effettuati e – soprattutto – realmente avviati.

Non solo: fra il nuovo centro del mondo che si sta strutturando nell’Indo-Pacifico e gli USA (l’Europa si è oggi auto-relegata a loro ininfluente appendice) vi è ancora una differenza decisiva, che spicca più che mai chiara in Cina: la capacità di tradurre da potenzialità in atto concreto tutte le risorse di sistema a supporto dei progetti ritenuti essenziali per il paese. Sottolineo: per il paese, non per il semplice tornaconto di una società o più società strette in consorzio. In altre parole, nel fu Celeste Impero non è esclusivamente l’interesse di alcuni soggetti a indirizzare il Sistema ma, piuttosto, la volontà di una direzione politica di perseguire obbiettivi ritenuti strategici per la nazione, e a cui tutti, indistintamente, devono contribuire.

È una differenza enorme, che in Occidente viene compresa raramente. Negli USA vi sono ancora potenzialità gigantesche, ma è semplicemente impossibile che le mettano al servizio di scopi politici che abbiano per obiettivo l’avanzata del paese, perché sull’utile delle singole corporation - che siano Big-Tech, Big-Oil o colossi della Difesa - sulla remunerazione massima dei loro azionisti si basa quel Sistema, che può essere solo in parte indirizzato, mai usato per conseguire traguardi comuni. Sarebbe una negazione di se stesso. Esatto opposto di ciò che accade in Cina, che applica l’intera forza di un paese immenso per superare le criticità, colmare le lacune che lo separano ancora dall’Occidente e andare oltre. Lo sta già facendo.

E per inciso, questa attitudine d’indirizzare il paese verso scopi comuni non è esclusiva prerogativa cinese, basta guardare a come la Russia (e non è la sola) sia riuscita a rintuzzare una valanga di sanzioni, riuscendo pure a migliorare la propria economia avviando profonde riforme che l’hanno trasformata da sistema basato essenzialmente sulla vendita di materie prime, a realtà assai più bilanciata e industriale. E, per favore, non s’attacchi con la litania sulle autocrazie: si stratta semplicemente di sistemi politici che, alla bisogna, antepongono l’interesse della comunità a quello dell’individuo; certo anatema per il mondo liberal-democratico ma, piaccia o no, essenziale per la tutela (reale) delle nazioni e delle popolazioni.

L’Europa ha perso due volte

Nel linguaggio corrente, si parla sbrigativamente di Europa come fosse un’identità concreta, di più, si sovrappone a un ectoplasma, la UE, che tutto è fuorché soggetto politico. È doppio errore perché non lo è mai stata, è semmai espressione geografica di variabile estensione; un tempo si fermava alla Vistola e al Dnepr, considerati confini con l’Oriente, poi, per convenzione, s’è spinta fino agli Urali, cuore della Russia, nazione a sé, altra cosa, eurasiatica. Carl Schmitt era in questo senso chiaro, facendo del mondo russo un Grande Spazio, un Grossraum a parte, distinto da quello europeo, da cui, beninteso, era escluso il Regno Unito, appartenente a quello Atlantico al pari di USA e Canada.

Se si tiene conto di ciò, molte cose si spiegano, a partite dal fatto che la definizione dell’Europa attraverso il tempo, assai più che da endogeni fatti politici e culturali, è conseguenza dei rapporti con la Russia e i paesi atlantici. Gli unici due tentativi di rendere gli stati europei soggetto unico, o a un unico soggetto riconducibili, sono stati quelli di Napoleone e Hitler, falliti entrambi per la primaria azione del Regno Unito nel primo caso, e con la coazione degli USA (unitamente all’URSS, che del conflitto ha sopportato il peso principale) nel secondo ciclo di guerre che ha segnato il suicidio del Continente. Vedi caso, due potenze del Grossraum atlantico che si sono adoperate sempre perché nel Grande Spazio europeo non s’affermasse un centro di potere che lo unificasse politicamente. L’unico processo riuscito l’hanno gestito gli USA a partire dal 1945, prima assumendo il controllo dell’Europa occidentale, poi, dopo l’implosione dell’URSS, dilatandosi a est via NATO e UE, i loro strumenti di dominio militare e politico.

Oggi, causa scelte dei paesi che la compongono, l’Europa è ridotta a penisola dell’Asia affacciata sull’Atlantico, dopo secoli priva di peso proprio, non più centro del mondo né prossima a esso, oggi migrato nell’Indo-Pacifico. Dimostrando con la sua parabola che l’economia non fa potenza, semmai la serve. Facendosi strumento di chi la Storia la fa perché, piaccia o no, il Vecchio Continente è scaduto da massima fucina degli eventi umani a teatro – oggi divenuto secondario – degli eventi altrui; un progressivo regresso che ha declassato i suoi stati da signori a vassalli, oggi a servi.

Con ciò annullando il proprio peso politico, conseguenza di geostrategia assente, indotta da quella altrui; distruggendo la propria economia, risultato di geoeconomia autolesionistica, che ha scelto l’isolamento dai produttori di materie prime (Sud del Mondo, con tale a-geografica allocuzione intendendo chi si pone fuori dall’Occidente allargato, oggi anch’esso in rapida decomposizione) e dai mercati più dinamici (ancora Sud del Mondo) in nome di una contrapposizione inventata da interessi esterni; sfaldando la propria coesione sociale e rinunciando alle proprie culture per aderire a una (pseudo) cultura aliena e, comunque, perdente. Tentando di giustificare l’ingiustificabile con una narrazione (leggi: propaganda) a cui - massimo danno – ha finito per credere, sostituendola alla realtà. Con ciò mostrando fallimentare geocultura.

L’Europa ha dunque perso due volte: ha perso nei confronti/scontri intrapresi a seguito del proprio Egemone, su cui è rimasta fissa anche quando esso ha cambiato rotta nel bel mezzo della disfida, con ciò alienandosi il resto del mondo e perdendo ogni rilevanza nei confronti di esso. E nel farlo – autolesionismo spinto al masochismo – sta smantellando la propria economia, con ciò privandosi della sua unica forza, dell’unica moneta di scambio che possedeva. E con ciò relegandosi al ruolo di provincia secondaria spremuta da un padrone in crisi.

Emblematica è la vicenda dei dazi imposti dagli USA; l’Europa è l’unica area significativa che ha accettato condizioni giugulatorie senza neppure tentare di negoziare e, per aggiunta, ha acconsentito ad acquistare a prezzi esorbitanti quantitativi enormi di materie prime energetiche (750 Mrd di dollari), tali che gli USA non sono neppure in condizioni di fornire, e finanziare l’economia americana versando un fiume di miliardi (600) in un fondo sovrano in tutto e per tutto controllato da Washington (Scott Bessent, Segretario al Tesoro USA, dixit). A non parlare del dissennato riarmo, progettato su misura non per migliorare gli strumenti di difesa, ma per alimentare una nuova bolla speculativa dopo il fallimento del Green Deal e i segnali d’implosione dell’Hi-Tech. Che dire?

Le leadership europee si dimostrano incapaci d’azione autonoma, di leggere la realtà per ciò che è, perché ammetterla equivale alla fine del mondo in cui sono ascritte, al totale disfacimento delle ascisse e coordinate entro cui sono aduse ad esercitare il potere. Per tre generazioni sono state allevate a dare obbedienza al padrone d’oltre Atlantico, subendo una progressiva regressione impensabile fino a un passato tutt’altro che remoto. Ora che l’Egemone ha cambiato rotta, sono rimaste attaccate all’impero americano che fu, in esso continuano a riconoscersi perché null’altro sanno immaginare, con ciò consegnandosi all’attuale irrilevanza.

Né, a occhio freddo, è pensabile riscossa dello spazio europeo: in verità non vi è alcun piano B, non v’è alcun modello strategico da contrapporre a un mondo che ha imboccato via divergente. Ennesima dimostrazione di ciò è stato il summit del Valdai Club tenutosi a Sochi dal 29 settembre al 2 ottobre scorsi: fra le centinaia di invitati provenienti da tutto il mondo c’erano solo tre europei. Dai dibattiti e dalle relazioni è emersa prova provata non della contrapposizione con l’Europa, ma dell’indifferenza verso un Continente incapace d’articolare progetto, di rimanere connesso con un mondo dinamico che è già cambiato. 

Conclusione

Da ciò che s’apparecchia, il mondo che sarà non conoscerà unico egemone; non è un caso che la citata sessione del Valdai Club era incentrata sul policentrismo, assai più realistico d’un teorico multipolarismo, perché la Cina non ha lo stesso peso della Cambogia, gli USA il medesimo della Colombia o la Russia dell’Armenia e via discorrendo. Il punto è che in ogni continente stanno emergendo reti di rapporti e sfere d’influenza al cui centro vi sono poli, ovvero stati-civiltà[5]. In tutti fuorché nel continente europeo, ed è irrealistico pensare che ciò avvenga; lo è ancor meno che lo spazio geografico europeo si trasformi in polo per assenza delle caratteristiche peculiari; in ogni caso, per inconsistenza politica, strategica e culturale, e per rapido decadimento economico. Non s’inventa una geostrategia o una geoeconomia, meno che mai una geocultura. Né si può aspirare a costruirle con rigurgiti del passato, con riflessi del mondo che fu, nel bel mezzo di una transizione egemonica che s’è rivelata autentica rivoluzione geopolitica.

Per gli USA sarà forzato ridimensionamento, per quella che fu Europa sarà assai peggio. Può sembrare amaro, e lo è, ma lo ripeto come ho fatto in altre occasioni: l’Era Colombiana, incentrata sulle due sponde dell’Atlantico, dopo cinquecento anni è al termine. Altro s’apparecchia. Del resto, i cicli della Storia sono lunghi e molto dovrà accadere prima che le nazioni dello spazio europeo possano riaffacciarsi da protagoniste vere, non posticce, sulla ribalta mondiale. Riconoscerlo non è corrosivo autocompiacimento del disastro, è realismo senza il quale qualunque via concreta è preclusa, è vivere nel mondo delle fiabe.

 



[1]“Indo-Pacifico: nuovo centro del mondo”; Rivista Italicum, marzo-aprile 2023.

2 Secondo indiscrezioni colte dalla rivista americana Politico, la nuova National Defence Strategy porrebbe al primo posto l’emisfero occidentale, in essa considerato assai più rilevante del Pacifico. Capovolgimento totale delle priorità americane, probabilmente dettata da necessitato realismo, recentemente ostentato dinanzi allo straordinario raduno di Quantico (Virginia) convocato dal Segretario oggi alla Guerra Hegseth. Agli oltre ottocento ammiragli e generali presenti, Trump ha scandito i cardini della sua visione, che vede il nemico principale dell’America all’interno del paese, non più all’esterno.

[3] Nel 2025, di 274 milioni di soggetti in età lavorativa negli USA, oltre 103 sono inoccupati, con una partecipazione al lavoro ai livelli più bassi dagli Anni ’70, al tempo dello sganciamento del dollaro dalla parità aurea e dello shock petrolifero. Inoltre, è la qualità del lavoro a saltare più agli occhi, costituita nella gran parte da attività dequalificate e peggio pagate che alimentano la Gig-Economy e che costringono i soggetti a doppi o tripli impieghi per tentare di giungere a fine mese. È quello che si può definire un “esercito di riserva”, per lo più privo di specializzazioni, a cui le imprese ricorrono per comprimere i salari. Un capitale umano divenuto nel suo insieme del tutto inadeguato a essere inserito in un sistema produttivo evoluto.

[4]Per negare l’evidenza, gli occidentali continuano a rassicurarsi sulla propria supposta supremazia elencando come un mantra le fragilità vere o presunte del Sistema Cina, come se gli USA e l’Occidente tutto non ne avessero di più e assai più gravi. Cito un unico esempio: si continua a raccontare che l’economia cinese dipenda essenzialmente dalle esportazioni, sbilanciandola e rendendola estremamente vulnerabile; beh, esse pesano sul PIL cinese per il 19%, a fronte del 33,4% in Italia e, addirittura,del 43,4% in Germania. Di che parliamo? Del resto, in Cina i consumi interni, fondamento di un’economia bilanciata, sono in rapida e costante crescita tanto d’averla trasformata nel principale mercato globale per ben 17 delle 20 grandi categorie merceologiche.

[5]Al tema degli stati-civiltà ho dedicato un saggio, “L’emergere degli stati-civiltà”, “Italicum”, gennaio-febbraio 2024, cui rinvio per caratteristiche e dinamiche del fenomeno.