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La nostalgia delle origini in Mircea Eliade

di Luca Leonello Rimbotti - 30/10/2025

La nostalgia delle origini in Mircea Eliade

Fonte: Italicum

 Chi è fuori dal perverso circuito progressista, e quindi libero di dispiegare la propria intelligenza in assonanza con il respiro universale, ragiona nel modo salutare con cui la natura è solita dare conto della realtà: la vita è un eterno ritorno, non esiste il bersaglio da raggiungere in fondo alla storia, tutto muore e rinasce di nuovo, ogni volta ricostruendo ciò che nasce coi materiali delle antiche entità. In questa cornice, l’idea di origine è fondamentale, essa rispecchia il vero e il perenne, donando significato alle cose che da essa scaturiscono. Il progressismo è la brutale teoria secondo cui tutto viene considerato alla portata della mano acquisitiva, per cui il tempo diventa una mera nozione utilitaria, misconoscendosi la dimensione vera dell’essere, che non è profana, ma sacra.

  L’inesausto rigenerarsi della cosmogonia è un fatto fisico e metafisico, e l’uomo che ode queste assonanze è in grado di gestire l’incontro incessante con il divino, ciò che regola le cose del mondo e della vita. Il riconoscimento della circolarità temporale non è una scoperta filosofica, è un dato che si situa all’inizio e che i moderni – a cominciare da Nietzsche – rilanciarono come potenza contraccettiva da opporre alla distruttività del pensiero socratico-illuminista. Il progresso e la sua ideocrazia imperialistica – il progressismo – sono la negazione dell’umano nel momento in cui obbligano gli uomini all’idolatria della storia: la concezione teleologica sopprime la stessa identità umana, reprime la volontà, creando il fine escatologico: il cristianesimo è stato il ventre da cui è fuoriuscito il progressismo, l’uno e l’altro essendo una vivente negazione del naturale e dell’umano.

   La natura e la vita non conoscono il fine, conoscono se stessi. Molti, fra i grandi nomi che si sono messi di traverso lungo la strada illuminista del progresso, negarono un ruolo al tèlos, il fine, l’obbiettivo obbligatorio in fondo ai tempi, e si dissero convinti che la modernità potesse nascondere, al pari dell’antichità, l’idea della ciclicità temporale.

   L’essere è un divenire incessante, che tuttavia è immutabile. Il fiume di Eraclito, che permane uguale a se stesso nel continuo variare delle acque. I cambiamenti della natura non sono che la conferma dell’ordine perenne. Il progressismo, invece, vera dannazione psicotica dell’intelligenza umana, sovverte tutto perché vuole cambiare l’uomo, la storia, la vita, la natura. Il progressismo illuminista è malvagità psicologica e culturale, è invertimento senza fine, è cupa bruttura. Fu Eliade ad affermare – cinquant’anni fa – che lo sgretolamento finale della nostra civiltà era stato annunziato dall’avvento prepotente della bruttezza: estetica, etica, culturale, immaginale.

   Avere di mira l’origine, considerarla un approdo non alle nostre spalle ma davanti a noi, significa rivivere l’uomo arcaico nel pieno della modernità, facendo sì che i valori principiali non conoscano offuscamento, ma sempre nuova lucentezza. L’uomo arcaico vive la dimensione del mito e del sacro. Si tratta di avere la giusta sensibilità per riguadagnare queste inquadrature, per tornare a tutelare la qualità del sottile e dell’arcano. Scriveva Mircea Eliade che vivere il mito significa vivere allo stesso momento il rito che lo rinnova. Le società antiche conoscevano questa via, la via del gesto e dello spazio mitici, per cui «qualsiasi azione fornita di senso, compiuta dall’uomo arcaico, qualsiasi azione reale, cioè qualsiasi ripetizione di un gesto archetipico, sospende la durata, abolisce il tempo profano e partecipa del tempo mitico».

   Riandare al mito e al sacro significa negarsi all’attualità del mondo contemporaneo, tutto vivente sulla dimensione materiale e acquisitiva, e significa cercare di mantenere ad ogni costo, dentro di sé, il legame con l’ulteriore, che è promessa di sopravvivenza. La società progressista e profanatrice ha davanti a sé un destino di catastrofe, più o meno prossima. Mantenere accesa la luce interiore di un patrimonio primigenio assicura la partecipazione all’evento rifondativo che seguirà la rovina materialista. Eterno ritorno dell’eguale. La concezione mitica del mondo oltrepassa questa bassa quotidianità ignara della sfera sacrale e propone una visuale diversa, che in antico - prima dell’affermazione planetaria del pregiudizio illuminista – era mentalità corrente, normale. L’uomo della tradizione, così come lo spiegava Mircea Eliade, viveva armoniosamente all’interno di categorie cosmogoniche, percepiva la continua rigenerazione dei tempi, misurata sulla ritornante ciclicità della natura, e del circuito di vita-morte-rinascita aveva una conoscenza non intellettiva, ma istintuale. La storia era metastoria e il mondo fisico era anche e soprattutto metafisico. E anche l’aspetto rituale, dal mondo arcaico considerato preponderante, per cui nessun gesto che non fosse rituale poteva avere rilevanza sociale, nell’attuale mondo della profanazione non ha che aspetti di degradazione, o ludici, o superstiziosi. Ma nessuna solennità, nessun raccordo col mondo superno del rito sacrale è nella ritualistica attuale, ridotta a evento civile oppure a parodia oltraggiosa, come la messa cristiana, in cui si hanno comportamenti (balletti profani, recitativi fuori dal canone, volgari applausi a scena aperta etc.) completamente spogliati di ogni risvolto consacrato e venerabile.

L’importanza di Eliade nello sforzo compiuto da una notevole parte dell’intellettualità contemporanea, ostile alle derive dissacranti legate alla concezione unicamente tecnologica e materiale della vita, è grandissima. Nel secolo XX, sulla scorta delle divinazioni nicciane e della riscoperta del mito greco antico, tutta una serie di menti superiori si è attivata per cercare di contenere la debordante mistificazione progressista, dando nuovo slancio al pensiero mitico tradizionale. Con Spengler, Toynbee, Guénon, Coomaraswamy, Evola, Voegelin, ed altri, ci si pose sulla strada del recupero della veridicità del mito, non più considerato come “finzione” oppure “leggenda”, ma, come in origine, parola e simbolo di verità, perché schema originario di un accadimento veramente realizzatosi nella realtà storica al suo primo apparire. Ed è stato anche notato che certe più recenti prefigurazioni legate alla fine della storia o alla morte dell’universo - da Sorokin al più banale Fukuyama – possono essere messe in relazione col concetto di reinizio, di ciclo epocale, alla maniera delle remote tradizioni greche e indiane, legate alle diverse età, allo yuga.

Il compito che Eliade si era prefisso non era cosa da poco: egli avvertiva «la necessità di restaurare il tempo mitico», di conferire cioè sostanza sacra, ultraterrena, a determinate situazioni e a determinati aspetti, come accadeva alle società premoderne. Ma il valore più vivo dell’insegnamento dello studioso rumeno consiste nel non considerare queste cose col distacco dell’etnologo, che studia società defunte come relitti antropologici, ma come cose ben vive, da avvicinare come corpi viventi. I sostrati immaginali dei popoli, ad esempio, non sono oggetti folclorici e morte rimanenze da resuscitare per qualche ricorrenza civica o festa paesana, ma patrimoni giacenti nei substrati coscienziali, da far riemergere alla lucida percezione dell’istinto. Saperi, atteggiamenti, inclinazioni, modi d’essere che siano in sintonia con questi paesaggi interiori governano e tutelano l’identità, e sono aspetti irrinunciabili dell’esistere, che chiedono di essere protetti e sottratti alla famelica irruzione della ragione calcolante, utopistica e progressista.

   Per esser chiari e dare dei riferimenti, un popolo che riacquisti il contatto con la propria identità mitica più intima non spegne, ma attiva i propri istinti: di volontà, di conservazione, di preservazione della propria unicità, e non rimane facilmente succube dei programmi di annichilimento coscienziale predisposti dai grandi manipolatori professionisti. Interrompere il contatto con l’arcaico e sradicare l’origine: questo il progetto dei grandi criminali che vanno imponendo ovunque la legge dell’omologazione e della narcosi degli istinti vitali. L’insegnamento di uomini come Mircea Eliade consiste nel ricordare che l’appartenenza è l’originario, e che la sua tutela equivale a difendere la vita.  Ciò che, sia da giovane, quando si era fatto militante di una concezione ideale e persino politica di rigenerazione, e sia da studioso maturo e famoso, consisteva essenzialmente nella ricerca del nuovo inizio, la riconciliazione del popolo col divino, di ogni popolo con la sua particolare dimensione del divino.

   Il grande cambiamento interiore: questo è il prodromo, l’antefatto che annuncia il crollo di un’epoca putrefatta e l’inizio di una nuova vicenda, redenta e purificata. La mistica dell’uomo nuovo. Che deve essere vissuta come l’ascesi della volontà. Eliade, a un certo punto della sua vita, dopo l’esperienza indiana e l’immersione in quei mondi attrattivi, realizzò all’improvviso che quel vissuto, importante e fondativo, era però soltanto un apporto, una ricchezza accessoria, non era lui stesso, ma qualcosa d’altro che poteva parlare di lui. Pertanto comprese – e fu vera metànoia, vera rinascita – l’importanza decisiva della via relativa, fatta di vita vera, dinanzi alla via assoluta, costruita con materiali anti-mitici, utopici e regressivi. Non l’abbandono nell’universo di simboli indistinti, ma l’immersione nel proprio universo di simboli parlanti. La scoperta del relativismo degli universi – come accadde anche ad uno Spengler – fu la via illuminante che fece vedere a Eliade la chiarità di ciò che è prossimo e vero:

 Quello che avevo tentato di fare, cioè ripudiare la mia eredità occidentale per cercare una “dimora” o un “mondo” in un universo spirituale esotico, equivaleva, in un certo senso, alla rinuncia anzitempo a tutte le mie possibilità di creazione. Non avrei potuto essere creativo se non restando nel mio mondo, che era in primo luogo il mondo della lingua e della cultura romena.

 

Questa nuova consapevolezza indica la strada. L’inganno teso dagli universalismi è la materia prima di cui è costituito il nichilismo progressista. L’uscita dal mito autentico e lo sprofondare della subcultura di massa nel coacervo dei miti contraffatti (il successo, la macchina, le novità tecnologica, certe trame narrative di tipo fantasy, i personaggi dello spettacolo, dello sport, etc.)scandisce la marcia verso il basso e il tradimento sistematico della qualità dello spirito in favore della quantità della materia.

   Il mito è forse nemico della storia? Non esattamente. Secondo Mircea Eliade solo una certa interpretazione della storia e del sacro – respinti fuori dal mondo, rimasto spoglio del divino – è stata la causa della sconfitta del pensiero mitico. La vicenda del secolo XX ha dimostrato chiaramente che il nesso fra mito arcaico e tecnica moderna può tranquillamente prodursi come supporto alla civiltà delle masse. Eliade trovava altrove il motivo dell’uccisione del mito, e del suo confinamento negli spazi della divagazione: «Il mito ha potuto essere superato soltanto con la scoperta della storia o, più esattamente, con il risveglio della coscienza storica nel giudeo-cristianesimo e con il suo sviluppo in Hegel e nei suoi successori». E i successori di Hegel cui Eliade alludeva erano, naturalmente, Marx e i marxisti, tutti concentrati nella lotta alla realtà del mito storico e nell’imporre l’irrealtà del mito antistorico. Marxismo e giudeo-cristianesimo, in questo, anche in questo, furono esemplari compagni di strada sulla via del soffocamento dell’identità relativa nel nome del pregiudizio assolutistico. Non può essere un caso che, nonostante la morte del marxismo e quella altrettanto palese del cristianesimo, siano sempre loro – vera coppia dannata e sciagura dell’umano - a condurre la danza della demenza sul ciglio dell’abisso cosmopolita.

 

                                                                                                  Luca Leonello Rimbotti