Il tandem russo-cinese muta il quadro geopolitico
di Gilbert Doctorow - 28/10/2017
Fonte: Aurora sito
Gran parte di ciò che gli “esperti” occidentali affermano sulla Russia, in particolare la supposta fragilità economica e politica e l’asserita associazione insostenibile con la Cina, è sbagliato, derivante non solo dalla limitata conoscenza della situazione reale, ma da pregiudizi che non cercano i fatti, cioè da un pensiero desiderante.
La Russia non avrebbe una crescita dinamica, ma negli ultimi due anni è sopravvissuta a una crisi dovuta ai prezzi del petrolio depressi e alla guerra economica da parte occidentale che avrebbe abbattuto governi meno solidi con una popolarità meno forte di quanto non lo sia nella Russia di Vladimir Putin. Inoltre, per quanto stagnante sia il PNL russo, i numeri sono in linea con la crescita molto lenta dell’Europa occidentale. Nel frattempo, l’agricoltura russa è in piena espansione, coi raccolti di grano del 2017 migliori in 100 anni, nonostante le condizioni climatiche molto avverse dalla primavera. Parallelamente, la produzione nazionale di macchine agricole va a pieno ritmo. Altri importanti settori industriali come la produzione di aeromobili civili si sono ripresi lanciando nuovi e credibili modelli per i mercati interni e le esportazioni. I grandi progetti infrastrutturali dalla storia ingegneristica fenomenale, come il ponte sullo stretto di Kerch in Crimea, procedono come da programma per un riuscita completa nel bagliore di continue trasmissioni televisive. Quindi, dove è questa Russia decrepita decritta quotidianamente dai commentatori occidentali? Il motivo principale di tali osservazioni sbagliate non è così difficile da capire. Il costante conformismo nel pensiero occidentale sulla Russia controlla non solo i nostri giornalisti e commentatori, ma anche gli specialisti accademici che spacciano agli studenti e al grande pubblico ciò che si attendono e pretendono: la prova della perversità del “regime di Putin” e la celebrazione delle anime coraggiose che in Russia si oppongono a questo regime, come il blogger-politicante Alexander Navalny o la sua Paris Hilton, l’attivista politicante glamour Ksenia Sochak. Sebbene sia disponibile molta informazione sulla Russia da fonti aperte, come stampa russa, pubblicità commerciale e televisione statale, questa è ignorata. Le acide personalità russe isolatesi negli Stati Uniti hanno invece voce per denigrare la propria ex-patria. Nel frattempo, qualcuno che bada a leggere, ascoltare e analizzare le parole di Vladimir Putin ne diventa, in questi circoli, un “agente”. Tutto ciò limita notevolmente serietà e utilità di ciò che passa per comprensione della Russia. Insomma, gli studi sulla Russia soffrono, come durante il primo periodo della guerra fredda di ristretta prospettiva ideologica e mancata diffusione di informazioni sulla Russia; a un certo punto inquadrando come la Russia s’inserisce nel quadro internazionale comparato. Proprio il significato di ciò riceveva una prospettiva la scorsa settimana, con un raro momento di erudizione sulla Russia, quando il professore emerito della London School of Economics Dominic Lieven tenne una conferenza a Sochi, nell’ultima riunione annuale del Valdai Club, riassumendo il quadro della rivoluzione russa del 1917. Lieven, probabilmente il più grande storico della Russia imperiale, è una delle rarità che ha dato, coi suoi studi sulla Russia, una profonda comprensione del resto del mondo e in particolare delle altre potenze imperiali del XIX secolo con cui la Russia era in competizione. Questa comprensione riguarda hard e soft power da un lato, abilità militare e diplomatica dall’altro, nei processi intellettuali utilizzati per giustificare il dominio imperiale e costruire una visione del mondo, se non un’ideologia piena.
“Esperti” coi paraocchi
Al contrario, oggi gli “esperti” di relazioni internazionali non conoscono la Russia tanto da dire qualcosa di serio per la formulazione di politiche. Tale campo di studi si è atrofizzato negli Stati Uniti negli ultimi 20 anni, con una comprensione effettiva della storia, delle lingue e delle culture in gran parte limitate all’abilità meccanica che garantiscano un’occupazione nelle banche e ONG dopo la laurea. Le lauree sono sistematicamente svalutate. Il risultato di ciò è che ci sono pochissimi accademici che possono inquadrare l’alleanza russo-cinese emergente in un contesto comparato. E questi sono sistematicamente esclusi dalle pubblicazioni di regime e dai dibattiti pubblici negli Stati Uniti, non essendo sufficientemente ostili alla Russia. Se non fosse così, si potrebbe guardare la partnership russo-cinese confrontandola innanzitutto con la partnership statunitense-cinese creata da Richard Nixon e Henry Kissinger, ora sostituita dall’emergente relazione russo-cinese. Kissinger poté farlo pienamente quando scrisse il libro sulla Cina nel 2011, ma scelse di ignorare il partenariato russo-cinese anche se la sua esistenza era perfettamente chiara quando lo scrisse. Forse non voleva affrontare la realtà di come la sua eredità degli anni ’70 sia andata sprecata. Ciò che descrive Kissinger delle sue realizzazioni negli anni ’70 è che il partenariato statunitense-cinese fu sempre possibile. Non ci fu un’alleanza o un trattato, in linea con l’impegno costante della Cina di non impegnarsi in obblighi reciproci con altre potenze. Il rapporto fu tra due Stati sovrani che regolarmente si dedicarono agli sviluppi internazionali nell’interesse reciproco e perseguendo politiche che in pratica procedevano in parallelo, influenzando gli affari globali in modo coerente. Questa relazione minimale è stata superata da quella tra Russia e Cina qualche tempo fa. La relazione è passata agli investimenti congiunti sempre più grandi nei maggiori progetti infrastrutturali dalla grande importanza per entrambe le parti, non solo i gasdotti che porteranno grandi volumi di gas siberiano sui mercati cinesi, con un accordo da 400 miliardi di dollari. Nel frattempo, in parallelo, la Russia ha sostituito l’Arabia Saudita come primo fornitore di petrolio greggio della Cina, e il commercio avviene ora in yuan invece che petrodollari. Ci sono anche enormi investimenti congiunti in programmi ad alta tecnologia civili e militari. E vi sono le esercitazioni militari congiunte in aree sempre più lontane dalle basi nazionali in entrambi i Paesi. Penso sia utile considerare questa partnership come il partenariato franco-tedesco che guidò la creazione e lo sviluppo di ciò che oggi è l’Unione europea. Sin dall’inizio, la Germania fu il partner più forte in economia con l’economia francese in stagnazione relativa. Infatti, ci si può benissimo chiedere perché i due Paesi rimasero nominalmente paritari in questa partnership. La risposta non fu mai difficile da trovare: con il peso storico del nazismo, la Germania era e rimane ancora oggi incapace di assumersi direttamente la responsabilità dell’Unione europea. I francesi fungevano da cortina del potere tedesco. Dagli anni ’90 questo ruolo passò in gran parte agli organi centrali dell’UE di Bruxelles, in cui le posizioni decisionali fondamentali sono effettivamente dominate da Berlino. Tuttavia, la Francia rimane un importante partner nel processo guidato dalla Germania.
Il tandem russo-cinese
Si può dire lo stesso per il tandem russo-cinese. La Russia è essenziale per la Cina a causa della lunga esperienza di Mosca nel gestire le relazioni globali che risalgono al periodo della guerra fredda e per la volontà e capacità di opporsi direttamente all’egemonia statunitense, mentre la Cina, con la sua pesante dipendenza dalle esportazioni negli Stati Uniti, non può farlo senza mettere in pericolo interessi vitali. Inoltre, dato che la dirigenza occidentale vede la Cina come sfidante alla lunga per la supremazia, è meglio che Pechino influenzi attraverso un’altra potenza, oggi la Russia. Naturalmente, alla luce della Brexit dell’Unione europea e dell’abbandono di Trump della leadership mondiale, è possibile che la Cina esca dall’ombra e cerchi di assumere la guida della governance globale. Ma ciò sarebbe problematico. La Cina affronta grandi sfide interne, tra cui la transizione dall’economia delle esportazioni a una dal maggiore consumo interno, assorbendo l’attenzione della leadership politica per qualche tempo. Kissinger, consulente di Trump, gli sussurra l’importanza di separare la Russia dalla Cina, ma la comprensione limitata ed obsoleta di Kissinger della Russia l’ha spinto a sottovalutare i potenti motivi dietro il rapporto russo-cinese. Gli esperti meno competenti degli USA ne sanno ancora meno. Per prima cosa, data l’ostilità verso la Russia dell’occidente in generale e di Washington in particolare, è inconcepibile che Putin venga respinto da Pechino per qualche “attraente” flirt con l’amministrazione Trump, anche se politicamente possibile per Trump. Uno dei punti forti di Putin è la fedeltà agli amici e ai principi, nonché agli interessi della propria nazione. Come rivelò Putin durante il suo intervento al Valdai Club della settimana passata, ora ha una profonda sfiducia verso l’occidente dato che ha tratto vantaggio dalla debolezza della Russia negli anni ’90 e dall’allargamento della NATO alle frontiere russe, e da altre azioni minacciose. Qualunque speranza Putin avesse su più strette relazioni con l’occidente, sono sparite negli ultimi anni. Mettendo da parte le personalità, la politica estera russa ha una coerenza rara sul proscenio mondiale: con le azioni prima, e le carte diplomatiche dopo. Le relazioni politiche della Russia con la Cina prevalgono sui massicci investimenti reciproci, che richiesero anni per essere decisi ed adottati. Allo stesso modo, la Russia si approccia al Giappone lavorando a un trattato formale di pace prima di attuare grandi programmi commerciali e d’investimento. E’ del tutto prevedibile che il primo passo verso il trattato sia l’avvio della costruzione nel 2018 di un ponte ferroviario in Estremo Oriente che colleghi l’isola di Sakhalin con la terraferma. Anche il team di ingegneri e committenti è attivo: Arkadij Rotenberg e il suo gruppo SGM. Quel ponte è il presupposto a cui Giappone e Russia firmino un accordo da 50 miliardi di dollari per la costruzione del ponte ferroviario che colleghi Sakhalin e Hokkaido. Questo ponte attirerà l’attenzione di tutta la regione sulla cooperazione russo-giapponese. Potrebbe essere la base per un trattato di pace duraturo e non puramente cartaceo che risolva la disputa territoriale sulle isole Kurili.Opportunità perse
Alla luce di queste realtà, è puerile parlare di separare la Russia dalla Cina con la promessa di normalizzare le relazioni con l’occidente. L’opportunità c’era negli anni ’90, quando il presidente Boris Eltsin e il suo “signor Sì” ministro degli Esteri Andrej Kozyrev fecero tutto il possibile per accordarsi con gli statunitensi sull’adesione russa alla NATO, subito dopo l’adesione della Polonia. Poi ancora all’inizio della presidenza Putin, i russi fecero uno sforzo deciso per l’ammissione nell’alleanza occidentale. Ancora senza alcun risultato. La Russia fu esclusa e furono prese misure per contenerla, rinchiuderla ad ennesima potenza regionale europea. Infine, dopo il confronto con Stati Uniti ed Europa che sostennero il colpo di Stato in Ucraina nel 2014, seguita dall’adesione della Crimea e dal sostegno russo all’insurrezione nel Donbas, la Russia viene apertamente definita nemica. Costretta a mobilitare tutte le amicizie internazionali per resistere, alcun Stato fu più utile della Cina. Tali momenti non vengono dimenticati o traditi. Il Cremlino sa bene che l’occidente non ha nulla da offrire alla Russia finché le élite statunitensi insistono a mantenere l’egemonia globale a tutti i costi. L’unica cosa che potrebbe avere l’attenzione del Cremlino sarebbe una consultazione per rivedere l’architettura della sicurezza dell’Europa, facendo uscire la Russia dalla freddezza. Questa fu la proposta dell’allora presidente Dmitrij Medvedev, nel 2010, ma la sua iniziativa incontrò solo un silenzio pietoso dall’occidente. Accettare la Russia significava infatti avere un’influenza proporzionata al peso militare, e questo è ciò cui la NATO si oppone con forza finora. È perciò, per la mancata ricerca di soluzioni alla grande questione del ruolo della Russia nella sicurezza globale, che l’iniziativa del riassetto di Barack Obama fallì. È perciò che il consiglio di Henry Kissinger a Donald Trump all’inizio della sua presidenza di proporre la fine delle sanzioni in cambio dei progressi sul disarmo, piuttosto che l’attuazione degli accordi di Minsk sulla crisi ucraina, fallì, con Vladimir Putin che opponeva un fermo “Niet”. Implicitamente, tra le poche “carote” statunitensi protese alla Russia in questi giorni c’è l’accettazione del regime anti-russo in Ucraina e la sua autorità sulle aree rigorosamente etniche russe del Donbas e della Crimea, concessioni che sarebbero politicamente devastanti per Putin in Russia. Tuttavia, la “normalizzazione” lascerebbe ancora solo delle sanzioni mitigate, ma ancora quelle violente sui “diritti umani”, che gli Stati Uniti imposero nel 2012 con la legge Magnitskij, dettata da ciò che il Cremlino considera disinformazione su processo e morte del contabile Sergej Magnitskij. Scopo della legge Magnitskij è screditare la Russia e preparare la via per designarla Stato-paria, nel pieno della già lunga campagna di demonizzazione del presidente russo nei media degli Stati Uniti. Infatti, per ritrovare un periodo di normalità nelle relazioni si dovrebbe risalire a prima dell’invasione di George W. Bush dell’Iraq, che la Russia denunciò insieme a Germania e Francia. Queste due potenze furono rimbrottate da Washington. Per la Russia, fu il momento di calcolare sulla non cooperazione col dominio globale statunitense.
Demonizzare la Russia
Tra Europa e Russia, la questione è simile. Per ritrovare una menzione sul rapporto strategico, innanzitutto dal Ministero degli Esteri tedesco, si deve arrivare a prima del 2012. E quale normalità si trattava allora? Il rinnovo dell’accordo di cooperazione UE-Russia era in corso da anni, nominalmente per una differenza di opinioni sulle disposizioni della legislazione dell’UE sulle forniture di gas attraverso i gasdotti russi. Ma dietro tale differenza vi era la totale opposizione degli Stati baltici e della Polonia a qualsiasi normalizzazione delle relazioni con la Russia, per cui ebbero pieno incoraggiamento dagli Stati Uniti. Lo scopo era por fine allo status di Russia di “monopolio” in Europa su gas e petrolio. Naturalmente, non c’era, e non c’è, alcun monopolio, ma certi attori geopolitici non hanno mai permesso che tale particolare fosse al centro della formulazione politica. Tale ostilità si ebbe anche nel contesto delle volontà tra UE e Russia d’introdure un regime senza visti per i rispettivi cittadini. Qui l’opposizione della Germania di Angela Merkel, giustificata dalla sua viziata caratterizzazione della Russia come Stato mafioso, condannò il regime senza visti e, allo stesso modo, i rapporti normali. Tale lavoro incompiuto va affrontato e sistemato per avere la possibilità che Stati Uniti e Unione europea la finiscano con la loro ostilità verso la Russia, e per il Cremlino di riacquistare fiducia verso l’Occidente. Anche allora, tuttavia, la Russia non rinuncerà alle preziose relazioni con la Cina.
A mio avviso, l’alleanza russo-cinese di fatto corrisponde all’alleanza de jure statunitense-euroccidentale. Il risultato di ciò è la divisione del mondo in due campi. Adesso abbiamo, in effetti, un mondo bipolare che assomiglia ampiamente a quello della guerra fredda, anche se ancora in fase di formazione poiché molti Paesi non hanno aderito definitivamente a un lato o all’altro. Naturalmente, gli Stati più o meno neutrali erano una caratteristica della guerra fredda, creando ciò che si chiamò Nazioni non Allineate, guidate da India e Jugoslavia. La Jugoslavia non esiste più, ma l’India ha continuato la tradizione di farsi corteggiare da entrambi i poli, cercando di trarre il massimo beneficio. Certo, numerosi scienziati politici di Stati Uniti, Europa e Russia insistono sul fatto che c’è già un mondo multipolare dicendo che il potere è troppo diffuso nel mondo d’oggi, soprattutto considerando l’aumento degli attori non statali dal 1991. Ma la realtà è che pochissimi Stati o non-Stati possono proiettare potenza al di fuori della propria regione. Solo i due grandi blocchi possono farlo. I teorici che difendono la multipolarità parlano del ritorno all’equilibrio di potere ottocentesco, invocando il Congresso di Vienna come possibile modello per la governance di oggi. È un approccio che Henry Kissinger previde nel 1994 nel suo libro Diplomacy. In Russia, questo concetto è sostenuto da alcuni influenti think tank e viene maggiormente associato a Sergej Karaganov, a capo del Consiglio di politica estera e difesa. Tuttavia, sostengo che la realtà del potere deciderà su ciò. C’è qualcosa d’inerente a questo mondo de facto bipolare, supponendo che le tensioni possano essere gestite e che una guerra importante sia stata evitata? A mio parere, due grandi blocchi hanno maggiori probabilità di mantenere l’ordine globale, perché l’ambito delle attività degli agenti può essere frenato, come spesso accadde durante la guerra fredda, dalle grandi potenze che non vogliono che i loro clienti disturbino un ordine mondiale funzionante. La coda ha meno probabilità di guidare il cane. Inoltre, riguardo la partnership o l’alleanza strategica Russia-Cina, gli osservatori occidentali dovrebbero considerarla senza allarmismi. L’ascesa della Cina è un fatto, qualunque sia la costellazione delle grandi potenze. L’abbraccio tra Russia e Cina può anche moderare la Cina, data la maggiore esperienza della Russia nella leadership mondiale. Per questi motivi, positivi e negativi, la relazione Russia-Cina va vista con equanimità nelle capitali occidentali.Traduzione di Alessandro Lattanzio