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Il virus della globalizzazione

di Filippo Massetti - 03/05/2020

Il virus della globalizzazione

Fonte: L'intellettuale dissidente

Era in circolo da un paio di settimane, probabilmente anche meno, che già illustri opinionisti, giornalisti, esperti di geopolitica, prezzolati ospiti dei talk show televisivi davano il dato per certo: il Covid-19, tra le tante sue complicanze e conseguenze, avrebbe dovuto dare la spallata finale al sistema economico della globalizzazione senza limiti e senza regolamentazioni, quella figlia del neoliberismo e dell’idolatria del mercato a noi così familiare. Le urla e il clamore del dibattito da salotto mediatico, largamente promosso dal mondo dei media mainstream, sono arrivate brevemente ad una conclusione: nulla, alla fine di questa pandemia, sarà come prima, compreso l’attuale sistema economico basato sull’illimitatezza del mercato, sull’abbattimento dei confini ad ogni costo e sulla rapidità estrema di circolazione di capitali, uomini, mezzi e merci.

È decisamente singolare che chi, tra eminenti opinion makers e grandi quotidiani, fino ad alcuni mesi fa elogiava (nella maggior parte dei casi acriticamente) l’attuale sistema economico-globale e i suoi agglomerati di potere più o meno occulti, in queste ultime settimane si ritrovi ad essere un nuovo profeta del mondo post-Covid, finalmente più equo e ricondotto ad un’economia più umana e più reale. Vengono da pensare in consegunza di ciò innumerevoli interrogativi:non ci si trovava nel migliore dei mondi possibili? Non era forse vero, come più volte ci hanno assicurato, che l’Occidente aveva raggiunto il massimo livello del progresso, della felicità, della soddisfazione, della giustizia? Sono o non sono le democrazie liberal-liberiste il paradiso terrestre?

A sentir i cantori del pensiero unico, i fautori del libero commercio senza scrupoli, del profitto e della competitività e dell’esportazione della democrazia, non ci sarebbe nessun motivo per sperare o prefigurare la fine di una globalizzazione così come la abbiamo conosciuta. Né  tantomeno di ipotizzarlo, alla stregua di un trend da social network, solo perché unica arma interpretativa di facile accesso e di facile condivisione. Solitamente insieme alla prossima imminente fine della globalizzazione si fa riferimento anche ad alcune opere, considerate dei classici, buone per tutte le stagioni. Come ad esempio l’opera “La fine della Storia e l’ultimo uomo” del politologo Francis Fukuyama che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, ipotizzava un trionfo irreversibile del modello liberale e occidentale. Poco importa del presupposto ideologico e fazioso che mina l’opera in ogni sua parte, e poco importa che la previsione si sia rivelata di fatto (e per fortuna) non aderente alla realtà: attualmente ci sono ancora sacche di resistenza che tentano di sopravvivere, con differenti mezzi ed intensità, all’occidentalizzazione a tappe forzate in corso da un abbondante trentennio.

Ecco che allora l’ipotesi della Fine della Storia viene ripresa e in parte svuotata, per dimostrare che Fukuyama e i tanti entusiasti che subirono il fascino delle sue teorie si sbagliavano, che sì, si è avuto un periodo in cui l’Occidente sembrava avviato all’inevitabile trionfo, ma che questa “età d’oro” liberal-democratica è entrata in una profonda crisi, alla fine della quale, classica goccia capace di far traboccare il vaso, è arrivato il Covid-19. “Fine della storia” rimandata a data da destinarsi.

Su come il Covid-19 possa veramente mettere in discussione un ordine mondiale concretamente stabilito e imperante nell’emisfero occidentale del globo si è ovviamente sorvolato, abbozzando la questione senza avere né le volontà né la capacità critica per analizzarla. Citare la fortunata formula di Fukuyama d’altronde basta in sé e per sé per assumere un’aria intellettuale dotata di profonda visione.

Un altro grande macroriferimento di larga parte dell’establishment benpensante, più volte richiamato in questi ultimi anni, è l’opera “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” del politologo statunitense Samuel P. Huntington, pubblicata nel 1996. Il libro, tradotto prontamente anche in italiano, ha riscosso un repentino successo, diventando in breve tempo un vero e proprio vademecum di chi vedeva il XXI secolo come un secolo di recrudescenza di presunte crociate, di guerre di religione, di scontro tra Civiltà, tra Occidente e Oriente, tra Stati Uniti, Europa da una parte e mondo musulmano dall’altra.

Le tesi di Huntington hanno fatto breccia nel mondo intellettuale e ideologico americano ed europeo, e sono diventate il mantra dei cosiddetti neocon, la nuova corrente conservatrice made in Usa, che ha rinvigorito lo spirito della sicurezza nazionale americana, da idenficare a tutti i costi con la sicurezza mondiale. Qualunque nemico tenta di opporsi agli interessi americani, siano essi geopolitici, economici, di gestione di risorse o militari, sarà identificato come portatore di una civiltà avversa, arretrata e non assimilabile. La nuova scuola geopolitica neocon è penetrata nelle stanze della Casa Bianca e del Pentagono, saldandosi a doppio filo con il messianesimo politico alla base della storia degli Stati Uniti, fascinando tutta l’élite a stelle e strisce, democratica o repubblicana che sia: le ultime aggressioni mascherate da “guerre al terrore”(Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia e Siria 2011) ne sono la plastica dimostrazione.

Oggi l’opera di Huntington viene citata per dire che sì, lo scontro di civiltà è avvenuto e sta effettivamente avvenendo, che lo scarso progresso e la scarsa civilizzazione di buona parte del mondo agevolano la diffusione del virus, che una nuova civiltà con cui andare allo scontro, un nuovo nemico, è rappresentato dalla Cina. D’altronde il Covid-19 è o non è un virus cinese? L’inevitabile scontro viene quindi rafforzato dall’opera di Huntington, considerata oramai come ineluttabile, e il mondo occidentale post-Covid (ma anche pre e durante) dovrà abituarsi a ricalibrare i propri 5 minuti d’odio, ieri con la Repubblica islamica dell’Iran o la pericolosissima e bellicosa Nord Corea, oggi con la Cina; del domani poi non c’è certezza, ma qualche altro nemico internazionale si dovrà pur trovare. L’agenda mediatica della comunicazione manipolatoria su questo non ammette revisioni o rallentamenti di sorta.

Il Covid-19 tuttavia non rientra né in un processo di fine della storia né in un fantomatico scontro di civiltà. È un pericoloso virus, nato in circostanze ancora attualmente non del tutto chiarite e figlio di un sistema socio-economico nella sua maggioranza marcio e malato. Se tale sistema, a cui si dà generalmente nome di globalizzazione, è in fase terminale è oggi arduo a dirsi, ma si può quantomeno affermare che il Covid-19 è perfettamente coerente con tale struttura: diffusione massima ed interdipendente, corsa alla riapertura e alla produzione, aumento della produzione nazionale, competitività in campo sanitario e nella ricerca del primo vaccino. Non risulta che attualmente il Covid-19 abbia messo in discussione un sistema di sovranazionalità in cui gli stati sono sempre più svuotati e depauperati dalla proprie funzioni, a scapito di multinazionali, lobbies, grandi aziende private e fittizi organismi internazionali.

Si sostiene strenuamente il contrario, e a buon diritto: che il Covid-19 rappresenti la rivincita dello Stato, delle sue prerogative e della sua sovranità; si sottolinea – e a ragione – di come in tali situazioni di emergenza l’unica risposta concreta non può che partire dallo Stato e dalle sue azioni, sole a dar ristoro e protezione, e non dalle multinazionali avverse al bene comune al fine di tutelare i loro interessi, come da loro natura apolide e privata. Si mette in evidenza come il Covid-19 proietti nuovamente sul proscenio della storia lo Stato, finalmente rivalutato, vera monade da anteporre ad un modello di sviluppo che ha mostrato tutte le sue pecche e tutte le sue iniquità. Solo lo Stato, forte e veramente sovrano, in mutua riconoscenza e collaborazione con altri stati, potrà porre freno ai guasti di una globalizzazione incontrollata lasciata nelle mani di pochi. Per noi abitanti del Vecchio Continente l’ultima fase di questo processo non potrà che coincidere con la nascita di un’entità politica e culturale veramente compiuta, una Patria Europa capace di raccogliere le sfide future.

Serve tuttavia, fare in fretta, serve agire subito. Non si può dire con certezza che il Covid-19 è in grado naturaliter di sbarrare la strada ad una nuova epoca storica, politica e soprattutto economica. Di certo, per l’ennesima volta nelle storia, è intervenuta una forza imprevedibile e sconosciuta, in grado si sparigliare le carte in tavola: quella che è stata definita l’imponderabile dal grande Vilfredo Pareto. Non resta che dare forma e concretezza a questo imponderabile, a trasformarlo in una vera opportunità di rinnovamento per evitare di  ritrovarci per l’ennesima volta a dovere mestamente affermare, come il nobile Fabrizio Corbera, Principe di Salina:

Tutto cambia affinché tutto resti uguale.