Israele verso il redde rationem
di Enrico Tomaselli - 13/05/2025
Fonte: Giubbe rosse
Mentre Trump inizia il suo viaggio in Medio oriente, totalmente improntato al rafforzamento delle relazioni con i paesi arabi 'amici' (con i quali si scambia promesse di affari colossali [1]), platealmente ignorando Israele e Netanyahu, le cose nella regione sembrano prendere una piega decisamente sgradita all'ospite della Knesset. Anche se l'inviato statunitense Witkoff ribadisce che USA e Israele sono più vicini che mai, e da Tel Aviv mandano nuovamente una delegazione negoziale a Doha, appare ogni giorno più evidente che la frattura tra i due paesi è ormai una crepa che si allarga giorno dopo giorno.
Trump, semplicemente, ha cominciato a trattare Netanyahu come un Zelensky qualunque, prendendo iniziative a tutto campo - e ad ogni livello - semplicemente senza consultarlo; anzi, senza nemmeno informarlo.
Ha avviato trattative con l'Iran, su basi oltremodo sgradite ad Israele - che anzi avrebbe voluto l'avvio di una guerra contro Teheran.
Si è sganciato dal (fallimentare) confronto con lo Yemen, lasciando completamente scoperto lo stato ebraico su quel fronte.
Continua ad esercitare pressioni affinché si arrivi ad un cessate il fuoco a Gaza, descritta come una strada senza uscita [2] - concordando in questo con quanto sostenuto dal Capo di Stato Maggiore dell'IDF, Halevi.
In quattro e quattr'otto è persino riuscito a riportare a casa il prigioniero israelo-americano Edan Alexander [3], trattando direttamente con Hamas - e dimostrando così che il negoziato è l'unico modo per liberare gli ultimi prigionieri della Resistenza Palestinese.
Insomma, vista la riottosità israeliana ad adeguarsi alla linea strategica statunitense, o anche solo a confrontarvisi, ha semplicemente deciso di ignorare Israele, e di muoversi in assoluta autonomia. Un modo 'plastico' per rappresentare che il sostegno di Washington non è più gratuito e garantito a prescindere. Al che il leader israeliano ha reagito con evidente stizza: "Penso che dovremo disintossicarci dall'assistenza alla sicurezza degli Stati Uniti".
Peccato che ciò sia praticamente impossibile, men che meno nella fase attuale, con il paese di fatto in guerra su cinque fronti diversi, profondamente diviso al suo interno, e con una economia squassata dal conflitto più lungo della sua storia.
I due leader sembrano in qualche modo impegnati anche in un confronto personale, nel quale nessuno dei due vuole cedere per primo. E, inevitabilmente, quanto più si approfondisce lo scollamento, tanto più diventerà impossibile rimediarvi. In questo braccio di ferro, però, è Trump ad avere praticamente tutte le carte. Non solo perché Israele dipende più che mai dall'assistenza economico-militare (e "tossica", secondo Netanyahu…) statunitense, ma anche perché liberandosi dai vincoli connessi allo storico affiancamento strategico tra i due paesi, si ritrova con le mani libere per sviluppare i suoi disegni col mondo arabo. Mentre il leader sionista ha solo un paio di carte in mano: la mancanza di una vera alternativa politica alla sua leadership (ed al suo disegno strategico) all'interno di Israele, ed il proseguimento ad ibitum della guerra.
A questo punto, quindi, non gli resta altra alternativa che cercare di forzare la mano, prima che la situazione sfugga del tutto al suo controllo [4]. La sua ultima dichiarazione ("Nei prossimi giorni agiremo con tutte le nostre forze per completare l'operazione e mettere in ginocchio Hamas. La situazione è cambiata. Ci troviamo in una situazione in cui non posso fornire tutti i dettagli ora, ma nei prossimi giorni inizieremo la fase finale dell'operazione: la completa sconfitta e distruzione di Hamas.") sembra andare in questa direzione. Anche se è dall'8 ottobre 2023 che indica questo obiettivo (senza mai essercisi neanche avvicinato), è chiaro che lo storytelling è ormai fin troppo logorato, e la società israeliana è stanca di sentirselo ripetere vanamente. In buona sostanza, quindi, è come se si stesse giocando il tutto per tutto. Se l'offensiva 'finale' (che scatterà dopo la partenza di Trump dal M.O.) dovesse fallire l'obiettivo ("la completa sconfitta e distruzione di Hamas"), la sua credibilità crollerebbe, e senza una 'sponda' a Washington si ritroverebbe - appunto - come uno Zelensky qualunque, un leader impotente ma inamovibile. Almeno sino a che non diventerà così di intralcio, che chiunque al posto suo diventerà preferibile [5].
1 - L'Arabia Saudita promette investimenti multimiliardari nell'economia statunitense, spalmati sui prossimi anni, mentre gli USA promettono di costruire insieme una centrale nucleare nel paese. Gli Emirati (UAE) promettono 300 miliardi da investire principalmente nell'industria della difesa. Il Qatar regala a Trump (facendo assai discutere per la forzatura con cui si è deciso di aggirare il divieto di ricevere regali da stati esteri) un Boeing 747-8, denominato 'Palazzo Volante', del valore di 400 milioni di dollari, e che diventerà il nuovo Air Force One…
2 - Witkoff: "Noi (Stati Uniti) vogliamo la restituzione degli ostaggi, ma Israele non è pronto a porre fine alla guerra. Israele sta prolungando la guerra, anche se non vediamo dove si possano fare ulteriori progressi".
3 - Che si è rifiutato di incontrare Netanyahu…
4 - Le spaccature interne, sulla questione dei prigionieri, si acuiscono di giorno in giorno. Un gruppo di familiari di prigionieri si è recato in Qatar per incontrare Trump, sostanzialmente per chiedergli da trattare lui per la loro liberazione. 550 ex funzionari della sicurezza israeliana, tra cui alti funzionari dell'IDF, del Mossad, dello Shin Bet, del NSC e del Foreign Service, hanno inviato una lettera al presidente Trump, esortandolo a promuovere un cessate il fuoco e il ritorno degli ostaggi.
5 - Il presidente israeliano Herzog: "Ci si aspetta che Netanyahu prenda una decisione drastica sul suo futuro politico, stringendo un accordo con il procuratore generale e ritirandosi dalla scena politica israeliana in cambio della chiusura dei casi di corruzione a suo carico."