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L’addio americano alla democrazia

di Lucio Caracciolo - 01/09/2025

L’addio americano alla democrazia

Fonte: La Repubblica

Negli Stati Uniti assistiamo a una rivoluzione a tutti gli effetti salvo nel nome. Non ascrivibile all’uomo solo al comando. Concentrarsi sulla psicologia di Trump è il miglior modo per non capire il cambio di regime in corso
Washington: una gigantografia di Donald Trump sulla facciata del Dipartimento del Lavoro

Gli Stati Uniti d’America stanno finalmente cambiando regime dopo aver passato la vita a cercare di cambiare gli altrui. Trump sta pilotando il congedo dalla democrazia liberale, canonico marchio da esportazione. Non certo di origine, vista la cura dei padri fondatori nello scoraggiare la partecipazione popolare alla politica, anche per carenza di domanda. La costituzione non verte tanto sul testo quanto sull’American way of life, leggi perseguimento della felicità individuale. Quindi sul precetto che il governo federale deve interferire il meno possibile nelle vite dei cittadini.
Nella storia moderna non si ricorda potenza così aliena alla politica. Tanto che il coma da cui non sembra riprendersi il Congresso, già cuore del sistema, non suscita speciali emozioni. A eccitare il pubblico sono le spaccature che incrinano la nazione.
Molti americani non si riconoscono reciprocamente tali. Clima che facilita la rivoluzione dall’alto condotta da Trump applicando ricette elaborate nei dettagli dai suoi think tank di riferimento, Heritage Foundation in testa. Cucinate e servite all’istante via ordini esecutivi modellati sugli ukaz del Cremlino.
Il pennarello nero agitato con gusto dal presidente è l’icona mediatica del Trump bis, che non esclude il ter. Sul quale l’ultima parola dirà eventualmente la Corte Suprema, unico contropotere capace di complicare i piani dello scatenato tycoon. Se, come pare, la sua componente destrorsa si dimostrerà meno corriva del previsto verso la Casa Bianca, la prospettiva di un duello all’ultimo sangue fra i due veri centri del potere americano si farà concreta.
Assistiamo a una rivoluzione a tutti gli effetti salvo nel nome. Non ascrivibile all’uomo solo al comando. Concentrarsi sulla psicologia di Trump, indubbiamente eccentrica, con tratti patologici, è il miglior modo per non capire il cambio di regime in corso. L’accentramento delle decisioni sul presidente e sulla sua squadra, tutt’altro che omogenea, deriva dalla crisi di legittimazione del sistema più di quanto la produca.
Se ci concentriamo troppo sulla superficie istituzionale perdiamo di vista l’ambizione antropologica della galassia trumpiana: creare il nuovo homo americanus, ossia reinventare quello dei ruggenti anni Cinquanta, riferimento biografico di Trump e socioculturale delle teste d’uovo che lo cavalcano — o tentano di farlo. Il presidente attinge alla grammatica razzista che vede nei bianchi una maggioranza oppressa, che rischia di scadere a minoranza entro il 2050 se il vantato scudo anti-migranti non si mostrerà effettivo.
Il nuovo/vecchio americano dei sogni trumpisti è inteso libero dai liberal. Nemici assoluti. Traditori della patria, colpevoli di aver dimenticato i “deplorevoli” lavoratori bianchi per favorire migranti e minoranze colorate. Per di più tendenti a esprimersi con arroganza, saccenteria fuori posto visto lo stato di crisi in cui versa il Paese conquistato dai “deplorevoli” di ceto basso e modesta cultura.
Lo scollamento domestico è visibile nello sfilacciamento delle legature sociali e delle regole istituzionali, nella crisi di famiglie e comunità che sfocia nella devastante diffusione di droghe pesanti. Sullo sfondo, il fallimento della globalizzazione cantata e suonata da Clinton e successori, sia sul fronte economico interno sia coltivando l’utopia di americanizzare il mondo a colpi di mercatismo. Missione fondata sull’esorbitante privilegio del dollaro e sul ruolo di compratore di ultima istanza del surplus universale esibito dall’America liberal-imperiale. Nell’impossibilità di gestire un impero senza limiti, la repubblica denuncia una forse irreversibile crisi d’identità.
A noi provinciali dell’impero in regressione, la rivoluzione trumpiana impone costi cui non siamo preparati. Non solo materiali, come quelli prodotti dai dazi o dal rifinanziamento delle spese militari acquistando di preferenza armi americane, a scapito di quel che residua dello Stato sociale. Soprattutto psicologici e culturali, perché il capocordata ha ormai altre priorità, esterne al perimetro atlantico.
Se poi, come temiamo probabile, la svolta trumpiana non guarirà l’America dai suoi mali ma li accentuerà, saremo chiamati a prendere con la nostra testa decisioni fino a ieri impensabili. Anche a rischio di irritare il distratto principale e di affrontare mischie fra europei più svelti di noi nell’adattarsi al ciascuno per sé nessuno per tutti. Non il nostro forte.