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L’austerità? Una sciocchezza, parola della BCE

di Roberto Pecchioli - 13/06/2018

L’austerità? Una sciocchezza, parola della BCE

Fonte: Ereticamente

Consultare i giornali stranieri allarga l’orizzonte. Lontani dal giornalismo di casa nostra, occupato a frugare nei curricula o alimentare le cacce al fascista -adesso tocca al ministro della famiglia Lorenzo Fontana – si riescono a leggere notizie interessanti a noi accuratamente celate. Un esempio è il rapporto della Banca Centrale Europea dal titolo “Sulle fonti dei cicli economici. Implicazioni per i modelli DSGE.” L’acronimo significa Equilibrio Generale delle Dinamiche Stocastiche. Nel gergo iniziatico degli economisti, stocastico sta per probabilistico, e parlare di scenari probabili è già un bel bagno di umiltà da parte degli spocchiosi maestrini degli istogrammi e dei modelli matematici. Gli economisti sono abilissimi a spiegare a posteriori come le cose non sono andate come avevano previsto. Il report della BCE segue una strada opposta, un lodevole esempio di realismo e ricerca concreta.

Il documento è assai critico con la teoria economica dominante, pervenendo alla dirompente conclusione che l’austerità “espansiva” difesa dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Troika europea non ha alcun fondamento reale. Viviamo tempi vertiginosi, ciò che era improbabile diventa possibile, nonostante l’irritazione, lo sconcerto e lo stupore dei mondo mainstream. L’evidenza empirica finalmente avanza, sino a raggiungere le felpate stanze dell’Eurotower di Francoforte, i cui studiosi sferrano un attacco demolitore ai fondamenti di chi reclama “riforme” sempre dal lato dell’offerta.

E’ presto per sperare in un cambio di rotta, ma la critica ha raggiunto i fondamenti di ciò che viene insegnato nelle università economiche, improntando le politiche di mezzo mondo. Gli autori del report della BCE Michal Andrie, Jan Bruha e SerhatSolmaz (nessun nome anglosassone…) hanno indagato le fonti delle fluttuazioni economiche, hanno preso in considerazione il Prodotto Interno Lordo, il consumo, gli investimenti, esportazioni e importazioni, inserito nello studio analitico il tasso di disoccupazione e l’inflazione. I loro modelli statistici di riferimento sono stati gli Usa e gli altri paesi sviluppati.

L’importanza della ricerca sta nella dimostrazione che i modelli convenzionali, neoclassici, monetaristi, neokeynesiani, impegnati a studiare i cicli economici enfatizzando esclusivamente l’offerta, nel migliore dei casi hanno validità di breve termine. Il punto è cruciale, destituisce di valore una delle più incrollabili credenze “ufficiali”, ovvero che la politica fiscale non può alterare in via permanente il corso dell’economia. Lo studio rifiuta con decisione questo assunto. Gli autori, nell’analisi dei cicli economici, affermano la sussistenza di grandi regolarità nei co- movimenti di variabili macroeconomiche chiave, predominantinell’economia reale. In soldoni, la dinamica del ciclo dei dati macroeconomici si spiega in larga parte con un’unica variabile, ovvero, udite udite, la domanda aggregata, cioè la spesa: è la vittoria schiacciante del principio della domanda effettiva.

Dunque, tutte le riforme indirizzate sempre dal lato dell’offerta, tanto strombazzate ed imposte a forza, sono solo parole, battute in libertà, vangeli apocrifi spacciati per verità. Le implicazioni sono brutali, poiché i modelli di equilibrio dinamico stocastico, tanto amati dall’ortodossia, non superano la prova dei fatti. Scrive la BCE: “I modelli più rilevanti di DSGE non sono compatibili con le nostre scoperte empiriche sulla quantità di fattori e la natura del movimento congiunto nei dati macroeconomici”. Colpiti e affondati! I risultati delle ricerche sul campo “mostrano un unico componente principale dinamico dominante, ladomanda aggregata”.

La conseguenza rilevante è che non si giustifica l’austerità “espansiva” difesa dal FMI e dalla Troika: pura ideologia. Hanno obbligato i governi a ridurre i deficit durante la lunga recessione utilizzando la leva fiscale, in base alla fallace credenza che ciò avrebbe generato crescita. Ovviamente non è successo, poiché le economie non funzionano così. La ricerca conferma la notevole stabilità dei movimenti congiunti tra le variabili aggregate: se crollano gli investimenti, o diminuisce la spesa, il consumo privato diminuisce, poiché la diminuzione di investimenti e spesa indebolisce la produzione. Le aziende licenziano, le entrate statali crollano, il consumo e il risparmio delle famiglie diminuiscono. Elementare, Watson! Tutto ciò certifica la scarsa utilità dei modelli macroeconomici utilizzati dagli organismi di politica economica, neoclassici, monetaristi e persino neokeynesiani, inclinati dal lato dell’offerta, ignorando il predominio della domanda aggregata nello spiegare le dinamiche di crescita e inflazione.

Per dirla in termini brutali, ci imbrogliano da decenni. L’attacco degli economisti di Francoforte diventa devastante allorché affermano che “ogni modello economico strutturale deve, per lo meno, essere capace di generare la struttura delle componenti principali dei dati che si suppone rappresentino”. Diatribe tra specialisti a colpi di concetti criptici? No, la certificazione dell’astrattezza dei modelli macroeconomiciche falliscono e travolgono la vita concreta di milioni di persone. Un altro effetto dello studio è la conferma del “movimento congiunto di produzione e inflazione come risultato della dinamica della domanda.”

Pertanto, era e resta una leggenda metropolitana imposta dogmaticamente la presunta neutralità a lungo termine del denaro giacché sarebbe determinato esclusivamente dall’offerta. Qui la menzogna è sfacciata e investe la capitale funzione della creazione monetaria. Se si mantengono politiche economiche basate su presupposti errati o falsi, esistono due sole possibilità, l’incompetenza di chi le sostiene oppure la difesa contro ogni evidenza di potenti gruppi di interesse: il principio del dominio delle élites. Negli ultimi periodi, una parte dell’opinione pubblica ne ha preso coscienza. Vedremo alla prova dei fatti i nuovi governi d’Italia e Spagna, che promettono di agire in controtendenza rispetto alle logiche neoliberiste.

Si impone una breve riflessione sul neoliberismo che ci sta dominando da oltre trent’anni. La sua forza è che non si tratta di una ideologia in senso stretto, ma di un lungo processo politico la cui fase presente è quella in cui il potere “corporativo” (finanza, sistema bancario, grandi multinazionali, giganti tecnologici) si toglie la maschera, cessa di essere un fenomeno puramente economico e si trasforma in potere assoluto, o, se preferite, in struttura egemone. L’obiettivo è la maggior concentrazione possibile di ricchezza e potere nel minor numero di soggetti.

E’ il nuovo feudalesimo, come capì chi coniò il termine capitalesimo. E’ questo potere neo feudale che determina, appoggia, ostacola, impedisce la formazione dei governi e orienta il voto popolare. Per questo investono nei mezzi di comunicazione, che possiedono in schiacciante maggioranza. I suoi tratti peculiari sono l’antidemocrazia e il dominio oligarchico. Ne prese atto persino un presidente degli Stati Uniti, F.D. Roosevelt: “Avevano preso a considerare il governo come una mera appendice dei loro affari. Adesso sappiamo che il governo del denaro organizzato è altrettanto pericoloso quanto il governo della mafia organizzata”.

I due gruppi si sono saldati, soffocanti, totalitari, diversamente violenti. Una breccia si sta aprendo. Non lasciamo che corrano ai ripari; soprattutto, smettiamo di prestare fede alle loro menzogne. Come ha dimostrato una voce libera uscita dalla BCE, un santuario dell’impero, la loro forza è l’inganno ripetuto, l’inversione dei significati. Primo, non credere.