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L'incompatibilità tra capitalismo e cattolicesimo

di Luigi Copertino - 11/07/2019

L'incompatibilità tra capitalismo e cattolicesimo

Fonte: Maurizio Blondet

Jacques Maritain, nel suo Umanesimo integrale, opera teologicamente controversa ma non priva di elementi di eredità tomista, scrive: «Come rilevava ancora di recente Amintore Fanfani, il capitalismo è esso stesso prima di tutto uno spirito».

Il riferimento di Maritain è ad un’opera del 1934 (il libro del francese è del 1936) – Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo (1) – scritta da un giovane cattedratico di storia dell’economia nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Amintore Fanfani, erede della tradizione tonoliana del cattolicesimo sociale di matrice anti-rivoluzionaria ossia anti-liberale, in quegli anni simpatizzante, come del resto Papa Pio XI, sulla scia per l’appunto del lascito spirituale e culturale di Giuseppe Toniolo (e di altri, ad esempio La Tour du Pin), per l’esperimento corporativista che in Italia ed altrove si andava all’epoca tentando.

Noto ai più come ministro democristiano del dopoguerra, pochi conoscono il Fanfani storico dell’economia che negli anni precedenti la guerra, insieme ad una intera generazione di cattolici sociali di matrice “tradizionalista”, sperò, da estimatore del corporativismo cattolico, in una correzione di quello, piuttosto hegeliano e statolatrico, realizzato dal regime fascista, perché in esso – opportunamente riformato nel senso dell’autonomia associativa dei sindacati all’interno delle corporazioni di Stato e di un maggior favore verso il lavoro rispetto al capitale (una prospettiva, questa, del resto condivisa con la corrente più sociale del fascismo rappresentata da Giuseppe Bottai) –  intravvedeva la concretizzazione degli auspici della Dottrina Sociale Cattolica.

In molti hanno visto negli indirizzi della politica di Fanfani nel dopoguerra – ad iniziare dall’articolo 1 della vigente Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) che è stato da lui elaborato – il riemergere, nel nuovo clima postfascista, degli ideali corporativi dei quali egli era erede ed ai quali, sulla scia del cattolicesimo sociale di eredità tonoliana, si era formato.

Il capitalismo, per Fanfani, nella sua essenza profonda non è innanzitutto un sistema economico, una metodologia di produzione e scambio, perché esso è prima di tutto uno “spirito”, una cultura, un modo di pensare e di agire. Che, contrariamente a quanto sostenne Max Weber, non nasce con la Riforma protestante ma molto prima ed esattamente al momento della crisi, tra XIV e XV secolo, del mondo spirituale ed etico del Cattolicesimo. Una crisi che si manifestò con l’inizio del tramonto dell’Universalismo medioevale, dei modi di vita comunitari, dell’economia vincolistica e delle solidarietà cetuali e che fu accompagnata dal riemergere di correnti spirituali magico-ermetiche ben presto trionfanti nell’umanesimo.

Lo spirito del capitalismo si identifica con l’individualismo che, contrariamente a quanto sostengono studiosi americani sia protestanti che cattolico-liberali, da Rodney Stark a Michael Novak, non sorge come magnifico effetto del Cristianesimo ma, al contrario, come contestazione e ribellione umanistica contro la sua forma cattolica e l’etica sociale comunitaria che Esso sostiene. Il protestantesimo, i cui iniziatori erano di per sé sfavorevoli all’arricchimento sfrenato quanto i cattolici, ha piuttosto favorito l’espandersi dello spirito individualista del capitalismo, già manifestatosi. Il protestantesimo favorì il già nato “spirito capitalistico” attraverso la frattura che la sua teologia pone tra Dio e mondo, tra Spirito e natura. Questa frattura ha ingenerato, in assenza dell’analogia entis sulla quale si fonda la teologia cattolica, l’emancipazione della società, quindi anche dell’economia, dall’etica cristiana , da ogni guida spirituale, sacrale, e da ogni freno morale. Quindi, al di là ed oltre quelle che erano le personali asserzioni contro la ricchezza e persino contro la pratica del prestito ad interesse espresse da Lutero, Calvino e Zwingli, l’interpretazione protestante della “Lettera ai Romani” di san Paolo, rompendo con la Tradizione, affermando il sola fides toglieva alle opere ogni importanza ai fini della salvezza, spingeva inevitabilmente l’attività economica verso il mero dominio naturalistico, a-morale, e quindi favoriva lo spirito del capitalismo, la ricerca mondana dello sfrenato arricchimento individualistico, che, però era già operante da almeno un secolo nel travaglio della crisi religiosa della Cristianità tardo medioevale.

Quando, infatti, sulla scena storica compaiono i riformatori era già venuta meno la subordinazione, o stava affermandosi impetuosamente l’insubordinazione, del produrre e del commerciare ai fini superiori, spirituali, della salvezza: una rivolta nata in seno alla Cristianità tre-quattrocentesca ma, appunto, come rivolta antitradizionale che contestava, anche quando inizialmente cercava di dissimularsi dietro le apparenti forme di un esteriore rispetto, tanto le restrizioni vincolistiche e corporative all’individualismo, allo spirito individualistico di intrapresa mosso dal desiderio di arricchimento e di potere, sia i precetti economici della Chiesa, contrari non al profitto da lavoro in sé – oggi diremmo economia reale – quanto piuttosto all’interesse da uso del denaro per accumulazione di denaro – oggi diremmo economia finanziaria –, pratica senza della quale non sarebbe stata possibile quella che più tardi Marx avrebbe chiamata l’“accumulazione originaria del capitale”.

La visione cattolica medioevale dell’economia, contestata dall’insorgente individualismo tardo-medioevale, concepiva l’attività economica come un mezzo subordinato ad un più alto fine spirituale. L’economia nel mondo tradizionale medioevale aveva la sola funzione di permettere il sostentamento mondano della persona e della sua comunità di vita, per il soddisfacimento dei bisogni umani primari, vitali, e solo di essi, in vista e nell’attesa dell’unico vero e sommo bene oltremondano, la visione di Dio, cui tutti gli sforzi, anche quelli economici, comprese le opere comunitarie come la costruzione di magnifiche cattedrali che richiedevano non poche risorse materiali, erano massimamente indirizzati. Dunque non conflitto od opposizione ma rapporto gerarchico di mezzo a fine, tra economia e fede, che spiega perché mai in quei secoli le lettere di cambio recavano formule del tipo “Al nome di Dio, pagherete la somma di …” e perché mai parte dei proventi economici, sotto la pressione spirituale ed etica della comunità cristiana, erano destinati, nella forma caritatevole del dono, al sostentamento di opere pie, ospedali, orfanotrofi, mense per i poveri, chiese, scuole, ospizi et similia.

Il primato, nel Cattolicesimo, è dato alla vita spirituale rispetto a quella mondana. Lo spirito capitalista, invece, assegna il primato all’attività nel mondo, quindi all’interesse individuale il cui indice è il successo economico, ed all’arricchimento, mentre la vita spirituale o è minimizzata oppure del tutto negata. Il relativismo etico delle società liberali – a dispetto delle preoccupazioni, alquanto ipocrite, che esso suscita in tanti liberali e conservatori – è nient’altro che l’esito della logica interna del capitalismo. Laddove la fede cristiana ha al suo centro il rapporto tra Dio ed uomo dal quale discende il giusto rapporto tra gli uomini, la logica del capitalismo, nella negazione, ancorché in certi casi “deista”, di Dio, è fondata sul primato autocentrico dell’io a discapito concorrenziale del prossimo.

Il “vangelo” del capitalismo

Lungo i secoli, lo spirito del capitalismo si è dotato di un suo “vangelo”. Si tratta della teoria economica classica. Elaborata tra XVIII e XIX secolo essa è stata, poi, riformulata nel XX secolo nella versione detta neoclassica ed in quella monetarista. Questa teoria, benché ripetutamente smentita dai fatti, presume di avere la chiave universale per la comprensione dell’economia. Gli economisti (neo)classici non si sono mai data pena di domandarsi se tra essa  e la concezione cristiana dell’uomo e del mondo c’è compatibilità. Hayek e Mises semplicemente non assegnavano alla questione religiosa alcun rilievo nell’analisi economica. Per essi il mercato è immune da qualsiasi presupposto riconducibile al contesto religioso e quindi di civiltà. Sfere separate e da tenere tali respingendo ogni, nella loro visuale, illegittima inferenza dell’una nell’altra e viceversa.

Tale approccio cela l’accettazione dell’idea che il mercato sia un tutto onnicomprensivo, rispetto al quale ogni altra dimensione dell’essere è sovrastrutturale, e che pertanto esso sia regolato da leggi naturali ovvero da un ordine etico-normativo immanente ritenuto sempre e comunque benefico e pertanto intangibile.

I “cattolici per il mercato”, ordoliberali o neoliberisti che siano, assumono questa separazione come un dato di fatto dal quale partire. Per essi il cristiano potrà adempiere i suoi doveri verso i poveri solo dopo essersi adeguati alle “leggi naturali dell’economia”. Solo dopo essersi arricchiti, seguendo quelle leggi, i cristiani potranno anche aiutare i poveri e così adempiere all’etica cristiana. Poco importa se, per arricchirsi, il cristiano, obbedendo al presunto ordine naturale dell’economia, deve porsi in concorrenza, invece che cooperare, con il prossimo ovvero perseguire amoralisticamente l’interesse individuale ed autocentrico. Machiavellicamente il fine giustifica il mezzo perché solo in tal modo, per l’imperscrutabile volontà della mano invisibile, alla fine il cristiano potrà venire incontro al prossimo dato che il mercato, libero di agire senza vincoli, genera ricchezza e felicità universali.

In realtà, non sono solo queste pur basilare osservazioni etiche a comportare seri problemi per il cristiano che vuole sposare la teoria economica (neo)classica perché essa presenta evidenti difficoltà e contraddizioni anche sul piano teoretico. Essa si riduce in sostanza ad una serie di tautologie senza alcun fondamento empirico né riprova sul piano dell’esperienza. Un piano sul quale piuttosto trova ampie smentite storiche. Questa teoria, in altri termini, è pura astrazione, un tentativo di sistematizzare analiticamente quello spirito individualista e contrattualista dal quale è nato il capitalismo.

«L’economia ortodossa – scrive Charles M.A. Clark –, si dice, fornisce strumenti molto efficaci; essa è convinta di spiegare tutto, ma in tal modo non spiega nulla. (…). La teoria economica … è la “teologia” del capitalismo; è un “Vangelo competitivo”, per utilizzare un’espressione del saggio di Robert Simona, rispetto a quello della cristianità. (…). Entrambi i sistemi di pensiero, il cristianesimo e la teoria economica, sono in fonda basati sulla fede e sulla ragione; ma la fede e la ragione proprie dei Vangeli e del pensiero cristiano (fin tanto che una parte di quest’ultimo non si è messa a servire la causa del capitalismo) si differenziano radicalmente dalla “fede” nella “mano invisibile” e dalla “ragione” che abita la logica del mercato. Il problema che sorge quando si vuole ridurre l’analisi al dato tecnico è che nel quadro teorico vengono sacrificate le finalità essenziali e ultime dei due sistemi di pensiero. Perché essi differiscono non solo nei presupposti sui quali si fondano, ma anche negli scopi cui tendono. Per il cristianesimo il fine è la salvezza, condurre gli uomini il più possibile vicino a Dio; viceversa per la teoria economica e per il capitalismo l’obiettivo è la produzione della ricchezza e il godimento dell’utile, entrambe azioni che, nella prospettiva cristiana, qualora vengano elevate a fine dell’attività umana, diventano barriere tali da impedire il contatto con Dio (come emerge con chiarezza sia dal Vecchio sia dal Nuovo Testamento)» (2).

Michael Novak e gli altri “cattolici per il mercato” si sono trovati esattamente di fronte a questa evidente, ed in ultimo insormontabile difficoltà, ossia l’incompatibilità tra Cristianesimo e spirito del capitalismo. Ecco perché essi hanno, vanamente, tentato di rendere la fede cristiana – a suo discapito, però – meno difforme dal capitalismo e di ridurre la contraddizione tra Vangelo e Mercato.

Il punto dolente sta, però, nel fatto che se per gli economisti ortodossi, la cui teoria economica è accettata dai teologi del capitalismo, non ha alcun rilievo la dimensione spirituale ed etica né la Verità, interessati come sono soltanto al dato tecnico oltretutto trattato in modo astratto e senza realismo storico, per chi fa professione di fede in Cristo dimensione spirituale, etica e veritativa non può essere né trascurata né posta al secondo o terzo posto o negata. Ed è questo che rende  maldestro il tentativo dei teo-capitalisti di conciliare la difesa del capitalismo con la teologia cristiana. I “cattolici per il mercato” sono un esito del clima post-conciliare. Un cima nel quale molti nella Chiesa hanno creduto possibile la conciliazione della Fede con il mondo moderno nato dalla rivolta umanistica del XV secolo. In tal senso essi sono la versione liberale dello stesso percorso di conciliazione che altri cattolici postconciliari hanno tentato con il comunismo. Catto-liberalismo e catto-comunismo quali, apparentemente diverse ma sostanzialmente identiche, modalità di abbraccio del mondo a discapito della Fede. Guardate le cose sotto questo profilo si spiega, ad esempio, il percorso di un Michael Novak dalla sinistra liberal alla destra reaganiana oppure l’arruolamento “cattolico” di ex pastori protestanti come Richard Neuhaus, rimasto sostanzialmente luterano anche dopo la formale conversione al Cattolicesimo.

Nel loro tentativo di conciliare fede cristiana e capitalismo, i teologi del mercato hanno finito per accostarsi ai libertarians e per sposare la Scuola Austriaca di Economia, intransigente nella perorazione delle virtù del capitalismo ed inflessibile nell’uso dell’individualismo metodologico in economia. Come diremo fra breve, alla radice di tale orientamento vi è il soggettivismo gnoseologico di Carl Menger, formatosi nel clima del liberalismo massonico dell’ottocento austriaco. L’Austria asburgica, infatti, pur essendo sempre rimasta un fedele baluardo del Cattolicesimo, non è stata esente, tra XVII e XIX secolo – si pensi soltanto a Rodolfo II l’imperatore “alchimista”, in stretti rapporti con il rabbino Loew creatore, secondo la leggenda, del “Golem”, o a Giuseppe II l’imperatore illuminista-giurisdizionalista – dagli influssi delle logge, appartenenti al filone esoterico-conservatore della massoneria piuttosto che a quello naturalistico-rivoluzionario sul modello giacobino francese.

Individuo o Persona?

Il cavallo di Troia per introdurre, nella cittadella della filosofia politica e sociale del Cattolicesimo, l’individualismo, ossia il fanfaniano “spirito del capitalismo”, è stata la confusione, appositamente indotta, tra il concetto liberale di “individuo” e quello cattolico di “persona”. Come annota ancora Charles M. A. Clark, i teologi del mercato hanno cooptato le espressioni ma non il significato, vero ed autentico, del personalismo cattolico. In altri termini, dietro un linguaggio esteriormente personalista essi introducono i concetti propri dell’individualismo che, al contrario, i teologi moralisti hanno sempre rigettato e combattuto, molto prima che esso si imponesse con l’Illuminismo.

Laddove il personalismo cattolico concepisce l’uomo, creatura politica, per natura socialmente relato, sicché nella filosofia politica cattolica l’idea del “bene comune” assume un posto principe ed un ruolo chiave, la Scuola Austrica di Economia rigetta qualsiasi propensione dell’uomo alla socialità naturale e pertanto nega ogni rilievo all’affermazione di un bene condiviso. Nella prospettiva “austriaca” l’uomo è homo oeconomicus determinato e definito esclusivamente dalla propria astratta dimensione individualistica per la quale, nei rapporti con i simili, conosce soltanto le forme contrattuali intese a regolare gli interessi e le utilità individuali mediante accordi di volontà di per sé portate, se non ci fosse il “contratto sociale”, a prevalere le une sulle altre. C’è molto di Hobbes, ma anche al rovescio qualcosa di Rousseau, nel contrattualismo utilitarista austriaco. Negata la possibilità stessa del bene comune e la naturalità del vivere in comunità dell’uomo, gli economisti austriaci negano, coerentemente, l’esistenza stessa dell’idea di comunità o società, che nella loro prospettiva altro non sarebbe che una finzione concettuale, un mero nominalismo filosofico che non conosce alcun “universale” (3). Quando la Thatcher affermava che “non esiste la società ma soltanto gli individui” non faceva altro che riprendere un giudizio già espresso, in ambito “austriaco”, da Von Hayek.

«La versione estrema dell’antropologia dell’uomo economico razionale – nota giustamente ancora Charles M.A. Clark –, che ha avuto un ruolo importante nella elaborazione della teoria neoclassica, deriva da Carl Menger, il fondatore della scuola austrica di economia. Per gli economisti della scuola austriaca, gli effetti determinati dal mercato sono per definizione morali ed etici, in quanto il mercato è l’unico riferimento che abbia valore. Riesce difficile immaginare una branca della riflessione economica che più della scuola austrica sia incompatibile col cristianesimo, incluso il marxismo. Se l’Acton Institute (ossa Michael Novak, nda) cerca di difendere il capitalismo, la scuola austriaca è perfetta allo scopo. Ma il cristiano, se è tale, deve guardare altrove» (4).

Ebbene, dal momento che come cristiani, cattolici, dobbiamo guardare altrove, diventa a questo punto inevitabile una ricostruzione storica dello scenario nel quale la teoria neoclassica di Menger emerse. A questo scopo è però preliminarmente necessario comprendere, sempre sotto il profilo storico, le dinamiche della trasformazione spirituale, antropologica e sociale intervenuta nel passaggio chiave dall’età premoderna alla Rivoluzione Industriale. Innanzitutto la questione dell’accumulazione del capitale ovvero della “concretizzazione”, in mezzi di produzione o beni capitali, dei surplus finanziari per l’appunto accumulatisi nella precedente età agricolo-commerciale.

Sebbene anche i mercanti, in età premoderna, agissero organizzati in corporazioni, e quindi in regime vincolistico, l’attività mercantile, più delle altre, è stata quella che ha favorito il formarsi ed il consolidarsi dell’individualismo, ovvero dello “spirito del capitalismo”, e quindi l’accumularsi dei surplus finanziari e monetari, in particolare mediante l’attività creditizia mai del tutto distintasi, almeno fino al XVI secolo, dall’attività commerciale vera e propria. L’espansione degli scambi commerciali e delle tecniche finanziarie e creditizie, a partire dalla lettera di cambio – che solo nel XVII secolo, quando fu assunta dallo Stato come unico mezzo di pagamento delle tasse, divenne moneta legale, mentre in precedenza era soltanto uno strumento di pagamento non monetario tra privati –, consentì il formarsi di quelle enormi fortune mobiliari le quali non appena si profilarono gli avanzamenti tecnologici, che avrebbero introdotto alla cosiddetta “Rivoluzione industriale”, iniziarono a trovare immobilizzazione non più nella terra, e nelle sontuose ville dell’aristocrazia, ma nelle nuove organizzazioni produttive fondate sulla divisione razionale del lavoro, sulla riduzione degli artigiani ad operai salariati e sulla massimizzazione dei profitti ottenuta dalla minimizzazione dei costi ad iniziare da quello del lavoro salariato.

Effettueremo la ricostruzione del retroterra storico-filosofico del mengerismo con l’aiuto delle riflessioni storiche ed etiche, delle quali siamo ampiamenti debitori, di Luigi Pasinetti, docente di economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore che nei suoi studi è sempre molto attento alle relazioni tra economia ed etica. Di fede cattolica, Pasinetti è economista di indirizzo keynesiano. Il testo pasinettiano che seguiremo, attualmente reperibile sul web, costituì la sua relazione in un simposio organizzato dal Vicariato di Roma (5).

La Formazione del capitale

Alla fine del diciottesimo secolo – dopo che per millenni l’umanità è vissuta di economia agricola, artigianale e commerciale – compare sulla scena storica un nuovo fattore della produzione ossia il capitale. Con questo termine, in genere, si fa riferimento, in tal senso lo usava anche Marx, al capitale fisico ossia all’insieme dei beni materiali che, insieme al lavoro e alle risorse naturali, sono impiegati come strumenti per produrre sia beni di consumo sia altri beni capitali. In tal senso la parola “capitale” indica i “mezzi di produzione”, intorno alla proprietà dei quali si è poi dipanata la querelle tra liberisti e marxisti.

La trasformazione capitalistica della produzione si è imposta solo grazie alla diffusione delle macchine non più azionate da energia umana o animale ma da una serie di nuove fonti energetiche. E’ innegabile che lo sviluppo tecnologico ha comportato un enorme aumento della produzione ma al contempo la “Rivoluzione industriale” ha innescato processi di accumulazione di ricchezza e potere a vantaggio esclusivo dei soli capitalisti, o imprenditori, spesso originando sperequazioni sociali molto più brutali e dure di quelle del tempo antico quando il regime vincolistico, gli usi civici, l’etica cristiana, l’opera di carità della Chiesa e lo stesso paternalismo dei sovrani e dei ceti egemoni, a ciò obbligati dallo spirito cristiano diffuso, facevano in modo di lenire e rendere meno dura la condizione della maggior parte dell’umanità in un mondo povero di per sé o, se si vuole, fondato su una economia di sussistenza. L’industrializzazione, in altri termini, non è stata accompagnata da un’equa o ragionevole distribuzione dei benefici che da essa derivavano.

L’aumento della ricchezza fu accaparrata da ristretti gruppi sociali di capitalisti. L’emergere della fabbrica comportò un cambiamento radicale non solo nei processi produttivi ma anche nelle relazioni sociali della comunità financo all’interno delle famiglie. Questo marcava la profonda differenza con la precedente “fase del commercio” che rimaneva ancora comunque vincolata, per quanto la mercatura fosse scalpitante, al regime comunitario-vincolista. L’artigiano ridotto ad operaio, ossia a “proletario”, non possedeva più nulla, non era più padrone dei mezzi di produzione, ossia della bottega, ed era sovente costretto a separarsi dal luogo di lavoro che fino a quel momento era coinciso, per lo più, con il luogo di residenza della sua famiglia. Ora, il suo lavoro non seguiva più il ritmo naturale del sole, delle feste comandate ossia religiose o di quelle comunitarie, ma aveva l’obbligo di uscir di casa per recarsi in fabbrica secondo orari rigidamente predeterminati ed in posizione subordinata, sottoposto a turni di lavoro pesantemente lunghi ed alla concorrenza di mercato che manteneva i salari ai limiti della sussistenza. La frattura sociale ottocentesca tra due classi sociali distinte dei capitalisti e dei lavoratori – ed il conseguente conflitto fra “Capitale e Lavoro”, nasce qui. Questo era lo scenario storico nel quale Marx scrisse “Das Kapital” e nel quale tanto i socialisti umanitari, da Saint Simon a Comte, da Fourier a Proudhon, quanto i cattolici, sia quelli “reazionari” che quelli “intransigenti-popolari”, elaborarono le loro critiche, durissime, all’avanzante capitalismo nonché le diverse soluzioni da loro proposte.

«Per l’operare di questo processo – scrive Pasinetti – , le economie di libero scambio si sono di fatto trasformate in economie capitalistiche (nel senso di produzione con lavoro e beni strumentali). C’è voluto del tempo per cogliere le implicazioni istituzionali davvero sconvolgenti di questi cambiamenti. Ho altrove io stesso dimostrato, in termini analitici, il diverso impatto, sul sistema economico considerato nel suo insieme, che i beni capitali hanno rispetto ai beni di consumo. Molto brevemente, nel caso dei beni di consumo, il sistema economico non soffre alcuna conseguenza dal modo in cui questi vengono impiegati. I proprietari di beni di consumo sono liberi di prendere qualunque decisione vogliano. Un bene di consumo può essere consumato per intero, può essere messo da parte per il consumo futuro, può essere venduto o regalato, può perfino essere distrutto senza alcuna conseguenza sull’effettivo funzionamento del sistema economico. Non è così nel caso dei beni capitali! I beni capitali “devono” essere mantenuti in esistenza, devono essere utilizzati nel processo di produzione per tutta la loro vita fisica utile e, poi, devono essere interamente rimpiazzati, come mezzi di produzione, altrimenti tutto il processo di produzione si ferma! È importante rendersi conto che l’esistenza, e quindi l’accumulazione, del capitale fisico è una assoluta necessità nel processo di produzione delle economie industrializzate. Senza capitale fisico non ci possono essere i corrispondenti posti di lavoro per i lavoratori. Capitale e Lavoro sono quindi complementari (anche se con talune – limitate – possibilità di sostituzione, comunque rilevanti quasi esclusivamente nel lungo periodo). Ciò significa che i beni capitali – a differenza dei beni di consumo – svolgono una funzione “rilevante per la società nel suo insieme”. Procurano posti di lavoro per i lavoratori. Possiamo ben dire che essi svolgono una “funzione sociale”. Per questa ragione il Capitale e il Lavoro non possono essere posti sullo stesso piano. Non ricoprono un ruolo simmetrico. Dietro al Capitale c’è un particolare modo di impiegare il reddito in eccesso rispetto al consumo. Dietro al Lavoro ci sono persone umane e le loro famiglie! A questo punto sorge immediatamente un problema delicato. Una breve riflessione convincerà chiunque che il punto critico e delicato che sorge concerne la “proprietà dei mezzi di produzione”. Mentre non vi sono difficoltà nel produrre argomentazioni a favore della proprietà privata dei beni di consumo, la proprietà privata dei mezzi di produzione è un tema più controverso, semplicemente perché, in un sistema industriale, ogni decisione sull’uso dei beni capitali ha conseguenze che “riguardano la società nel suo insieme”. Il problema è tuttavia piuttosto scabroso e complesso sul piano istituzionale. In una società libera, la fonte della proprietà dei beni capitali e la fonte della proprietà dei beni di consumo appaiono essere le stesse. Se riteniamo legittimo che ciascun individuo decida di disporre dei propri risparmi nel modo che preferisce, o di accumularli, ad esempio, sotto forma anche di lingotti d’oro, perché si dovrebbe obiettare, o interferire, di fronte alla loro accumulazione sotto forma di beni capitali? Una risposta chiara e non-controversa a questo quesito – che emerge da un problema istituzionale tipicamente nuovo, generato dalla Rivoluzione industriale – non è ancora stata trovata. (…) il problema (è) … come esercitare i diritti di proprietà su un fattore di produzione che ha una funzione sociale da compiere» (6).

Gli economisti classici

Gli economisti di fine Settecento ed inizio Ottocento, conosciuti come “economisti classici”,  percepirono l’epocale mutamento di paradigma economico – dalle economie basate sugli “scambi commerciali” a quelle basate sull’‘industria’ – che stava avvenendo nel loro tempo. Agli Fisiocrati francesi come ai loro colleghi britannici, ossia Adam Smith, David Ricardo e Robert Malthus non sfuggì la forte rilevanza del Capitale come nuovo fattore di produzione benché essi non compresero a pieno la relazione tra progresso tecnico ed aumento della popolazione immaginando il rapporto causa-effetto all’incontrario. Per essi l’aumento della popolazione non era l’esito dell’avanzamento tecnico dei metodi di produzione quanto piuttosto era il fattore che metteva in pericolo quell’avanzamento, sicché bisognava ingegnarsi per contenere la crescita esponenziale della popolazione onde evitare che prevalesse la povertà e si perdessero i benefici del progresso. Malthus fu in questo l’esponente più esposto dato che proponeva rimendi come la sterilizzazione dei soggetti dei ceti subalterni e dei popoli non occidentali onde evitare che prolificassero.

Nel XVII secolo, l’epoca di Colbert, in contemporanea con l’affermarsi degli Stati nazionali delle monarchie assolute, la scuola economica del Mercantilismo poneva al centro del problema economica, in chiave di potenza statuale, l’accumulo di oro ed altri metalli pregiati nelle casse dei regni. Un accumulo che, in un’età di regime monetario ancora metallico, si poteva ottenere soltanto mediante politiche di favore verso le esportazioni e di contemporaneo contenimento delle importazioni. Esportare significava vendere merci e quindi introitare oro in forma di moneta, importare significava l’esatto contrario. In tale paradigma pertanto il ricorso al protezionismo ed alle barriere doganali era la norma. Con il XVIII secolo inizia una vera e propria rivoluzione culturale che cambia persino il paradigma economico dominante. Già nella seconda metà del diciottesimo secolo, proprio nella stessa Francia che era stata all’avanguardia del mercantilismo, la nuova scuola della Fisiocrazia smise di preoccuparsi del “commercio” per concentrarsi sulla “produzione” che in quella fase era ancora prevalentemente quella agricola. Si iniziava a pensare che la vera fonte della ricchezza di una nazione non era nell’oro accumulato, mediante gli scambi, quanto nella sua capacità produttiva.

Nel Tableau économique di François Quesnay il concetto di ricchezza non era più concepito come  appropriazione di risorse naturali nella forma dei metalli preziosi, secondo l’idea di “stock” propria al Mercantilismo, ma come prodotto netto annuale dell’intera economia – il produit net di Quesnay – che era un “flusso”. Questa nuova concettualizzazione della ricchezza fu adottata anche dagli economisti classici britannici. Laddove Quesnay parlava di produzione agricola generatrice di sovrappiù, al di sopra della sussistenza e della reintegrazione dei mezzi di produzione, restando però nel quadro di un’economia preindustriale, Adam Smith spostò le intuizioni dei fisiocrati nel quadro della nascente “produzione industriale”. Egli indicò per primo quelle che sono le forze che determinano la crescita della “produttività del lavoro” e quindi della ricchezza delle nazioni. Tali forze furono da lui individuate in “skill, dexterity and judgement” (arte, destrezza e intelligenza) indipendentemente dalle circostanze naturali, del clima e dell’ambiente, e dalle relazioni sociali.

Indipendentemente dalla scarsità delle risorse naturali, la ricchezza, secondo Smith, poteva essere prodotta grazie alla specializzazione e alla divisione del lavoro. Come si vede in Smith si ha l’esaltazione di quell’individualismo anti-vincolistico che Fanfani chiama “spirito del capitalismo”. Era, quello esaltato da Smith, a ben vedere, l’affermazione della preminenza dell’Economico sul Politico e sul Sacro. Anzi, si trattava addirittura dell’assorbimento dell’umano, della complessità spirituale ed antropologica dell’umano, nel meccanismo produzione-consumo dell’economia capitalista di mercato. La risoluzione del mondo nel mercato-mondo. Come osservava Karl Polany, con la comparsa del capitalismo l’economia non è più “incorporata”, “embedded ”, nella Comunità politico-sociale ma è quest’ultima che viene liquefatta nel mercato capitalistico.

Pur avendo intuito quale passaggio epocale veniva attuato dalla nuova era industriale, Smith ritenne, tuttavia, le istituzioni economiche già esistenti come sufficienti per assicurare la “convergenza naturale” dei prezzi di mercato e delle quantità prodotte. Egli, in altri termini, affidò alla “naturalezza” del libero commercio fra individui, in concorrenza fra loro e tendenti al perseguimento del proprio interesse in un quadro istituzionale supposto ordinato e ben regolato, lo spontaneo raggiungimento dell’equilibrio economico e dell’armonia sociale. Partendo dalla intuizioni di Smith, David Ricardo pose le basi della teoria oggettiva del valore e della distribuzione del reddito sulla base del “principio dei costi comparati” quale criterio regolatore del commercio internazionale. Ogni Paese è specializzato in una o poche produzione sicché esso deve mettere sul mercato internazionale quanto produce onde acquistare dagli altri Paesi, con la moneta ottenuta dalla vendita della propria produzione, quanto non produce in proprio.

Si tratta, come è evidente, della sistemazione teorica del liberoscambismo che sulla scena storica, lungi dall’essere mai stato riscontrato come operante per moto spontaneo, è stato piuttosto imposto, anche per mezzo delle cannoniere, nel gioco asimmetrico degli scambi tra Stati del Primo, del Secondo e del Terzo Mondo. Fu sulla base della teoria ricardiana che, nel Commonwealth inglese, all’India era impedito di sviluppare una industria tessile moderna perché il suo vantaggio comparativo doveva, per forza, essere nella coltivazione del lino necessario alle manifatture tessili di Manchester: L’India, con le risorse monetarie ottenute vendendo all’Inghilterra il suo lino, avrebbe ricomprato, dalla stessa Inghilterra, il prodotto finito ossia i capi in lino realizzati dai telai inglesi. L’idea che l’India avrebbe potuto dotarsi essa di telai per trasformare in proprio il lino e far concorrenza all’Inghilterra, nonostante i peana liberisti alla libera concorrenza, era ritenuta sovversiva.

Quindi, nel complesso, ai Classici va ascritto il merito di aver intuito gli elementi essenziali del passaggio dall’economia antica a quella moderna, industriale, mediante raffinate indagini economiche sulle basi oggettive delle economie industriali. Essi, però non furono affatto capaci di cogliere che la nuova “fase dell’industria” avrebbe avuto bisogno di nuove istituzioni politiche ed economiche onde ammortizzare e, soprattutto, riequilibrare gli sconquassi sociali apportati dal capitalismo. Pensarono che la “naturalità” del meccanismo produttivo capitalistico e del mercato liberista fossero sufficienti di per sé ad armonizzare il mondo. Intuirono il cambiamento di paradigma, ma non la necessità di pensare nuovi assetti politici per organizzare il nuovo mondo emergente che, senza che essi se ne accorgessero, non era affatto quello dell’armonia attesa. Ciò ebbe effetti disastrosi per la credibilità delle loro dottrine. Fra i Classici, probabilmente, ad intuire la necessità che le Istituzioni politiche intervenissero nei meccanismi del nuovo processo di produzione industriale-capitalistico fu soltanto Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, svizzero di antiche origini familiari toscane e cristiano, sebbene protestante, attento anche agli aspetti etici del problema redistributivo che l’industrializzazione stava aprendo (7).

I limiti dei Classici furono messi in evidenza dall’irrompere sulla scena del dibattito economico di Karl Marx, il quale mise drammaticamente in discussione l’ingenuità armonizzante della  concezione libero-mercatista partendo dai loro stessi presupposti teoretici ed analitici. Sul piano dell’analisi economica, Marx è un dichiarato erede della teoria economica classica. Egli dimostrò una incredibile capacità di muoversi con estrema facilità all’interno del quadro descritto dal paradigma della “produzione industriale”. Egli dimostrò lo stesso intuito che i Classici avevano posto a base dei loro studi. Diversamente da loro, però, Marx lasciò da parte le difficoltà analitiche del nuovo paradigma e ne denunciò le deficienze, ad iniziare dall’aspetto istituzionale e sociale. Ponendo al centro i nuovi problemi sociali che il capitalismo aveva creato, egli ne desumeva l’impossibilità di una sua riforma e ne suonava la campana a morte in vista della prossima rivoluzione proletaria.

«Non essendo in grado di proporre alternative sul piano analitico – scrive in proposito Pasinetti –, (Marx) andò direttamente alle conclusioni estreme, finali, delle sue argomentazioni, puntando su una radicale rivoluzione dell’intero assetto sociale. Marx comprese con rara intuizione le profonde implicazioni “istituzionali” della nuova epoca industriale, che gli economisti Classici non erano stati in grado di cogliere. La “fase dell’industria”, diversamente dalla precedente “fase del commercio”, richiedeva mutamenti profondi nelle “istituzioni sociali”. Rielaborando i concetti ereditati dai Classici, Marx capovolse le loro “innocenti” conclusioni e si adoperò nel riformularle in modo coerente con i propri propositi rivoluzionari. Ciò che sarebbe stato veramente necessario era una rinnovata teoria economica, ma non è su questa strada che Marx si incamminò. Invocò e spinse per una rivoluzione radicale nella realtà pratica, mancando nello stesso tempo di introdurre miglioramenti costruttivi in quella teoria economica che gli economisti Classici avevano soltanto intuito. Da questo punto di vista, il suo lavoro risultò tremendamente distruttivo, anche se sarebbe un grave errore sottovalutare le sue critiche alle istituzioni esistenti (capitaliste). Da allora però la costruzione di un quadro analitico appropriato ad un paradigma economico della “produzione” si è interrotto e non è più andato avanti. Questa è, ed è rimasta, fino ai nostri giorni, la più grave deficienza della teoria economica prevalente, che non ha saputo ancora adeguarsi al dinamismo della nuova società industriale» (8).

In altri termini, Marx è sceso nell’agone sul terreno stesso degli economisti Classici, ne ha usato le stesse armi analitiche per giungere a conclusioni radicalmente contestatrici e rivoluzionarie rispetto all’assetto capitalistico dell’economia. Il punto sta nel fatto che, così facendo, Marx mise con le spalle al muro i difensori della Teoria Classica dato che le sue critiche si muovevano sullo stesso  terreno e, quindi, era impossibile controbatterle senza mettere in discussione i postulati medesimi della Teoria. Marx aveva costretto la modernità capitalista al disincanto, a svegliarsi dai sogni “armonistici” ed a prendere atto dei suoi difetti, limiti e contraddizioni. Non fu solo la borghesia ad essere spaventata dal “rasoio” di Marx. Il panico imperversò anche nel mondo accademico della Scienza Economica Classica: non era possibile negare le ragioni del marxismo sulla base del paradigma affermato e difeso. Bisognava arrendersi al comunismo prossimo venturo.

La svolta del decennio 1870-80

Per evitare un “destino marxista” l’unica via di fuga stava nel cambiare Teoria, nel mutare paradigma. Di fronte all’impasse, provocato dal Marx, allo sviluppo della teoria economica, alla fine del secolo XIX, venne proposta, con grande successo, una Teoria Soggettiva del Valore basata sull’utilità marginale, che abbandonava il fondamento oggettivo della Teoria dei Classici e, quindi, di conseguenza, dell’analisi di Marx. La nuova Teoria dell’utilità marginale, negli anni seguenti al 1870, ebbe immediatamente un eclatante successo accademico in quanto permetteva una critica del marxismo che non cadeva nella trappola, posta da Marx, dell’oggettivismo classico ossia del tirar le conclusioni ultime dalla Teoria Classica che si dimostravano in sé favorevoli al marxismo. Il concetto di “utilità” ed il “principio marginale” non erano nuovi all’interno del dibattito scientifico ma, fino a quel momento, erano stati considerati del tutto secondari e come meramente complementari rispetto a quello, ritenuto fondamentalo, della “produzione”. All’improvviso essi emergono per diventare centrali nell’analisi e quindi assurgono a veri fondamenti della scienza economica.

Si trattò di una svolta teorica inaspettata la cui unica spiegazione soddisfacente: «non (può)  prescindere – ci dice Pasinetti – dagli effetti combinati di due rilevanti aspetti reali dell’ambiente europeo del tempo: 1) la pubblicazione della critica di Marx alle economie capitaliste (il primo volume del Capitale di Marx apparve nel 1867), e 2) la diffusa inquietudine e il disagio sociale che caratterizzarono quegli anni travagliati (9). (…) l’effetto pratico indotto dall’appello lanciato da Marx per una rivoluzione sociale fu quello di sollecitare una forte e immediata reazione da parte delle classi dominanti. L’intero establishment delle società occidentali, alla fine del diciannovesimo secolo, ne era terrorizzato. Era difficile rispondere con gli strumenti analitici dell’economia politica apprestati dai Classici. Marx era un economista classico nel pieno senso della parola. Riprese e sviluppò l’atteggiamento classico alla realtà economica, il che diede enorme vigore alla sua analisi, dato che la produzione – e la produzione con capitale – costituisce indubbiamente la caratteristica centrale di ogni moderno sistema industriale. Da un punto di vista soggettivo, tuttavia, Marx usò la teoria Classica per scopi che erano diametralmente opposti a quelli degli economisti Classici. Questi ultimi – seguendo una linea di pensiero che discende direttamente dal pensiero fisiocratico – avevano accettato le istituzioni della società in cui vivevano come parte di un ordine naturale; Marx le considerò come fasi di passaggio nella transizione dal feudalesimo del passato al socialismo del futuro. Gli economisti Classici avevano generalmente condotto le loro analisi in termini di armonia di interessi tra le varie classi sociali; Marx concepì le relazioni economiche in termini di conflitto di interessi e di lotta di classe. I Classici avevano cercato di individuare come il sistema esistente operava, allo scopo di contribuire a farlo funzionare meglio; Marx si propose di “svelarne le contraddizioni”, allo scopo di affrettarne la fine tumultuosa e rivoluzionaria. Nello stesso tempo proprio quelle stesse caratteristiche che agli economisti Classici erano apparse come difficoltà analitiche difficili da sormontare (si pensi al problema analitico delle relazioni tra prezzi relativi di produzione e distribuzione del reddito, che avevano travagliato le teorie ricardiane e che sono state chiarite soltanto recentemente da Piero Sraffa) venivano da Marx trasformate in ulteriori accuse contro le economie capitaliste. Tutto ciò era sconvolgente. Alle orecchie di molti suonava assurdo. E tuttavia, nel loro complesso, le argomentazioni di Marx non si potevano confutare facilmente. Il procedimento più naturale da seguire sarebbe stato quello di metterne in discussione le premesse logiche. Ma proprio in ciò stava la difficoltà. Le premesse logiche di Marx erano esattamente le stesse di Smith e Ricardo, cioè dell’economia politica Classica prevalente. Proviamo ora a fare questa ipotetica considerazione: se solo qualcuno avesse potuto proporre una teoria economica che non facesse riferimento alcuno al lavoro, ai mezzi di produzione, possibilmente nemmeno al fenomeno produttivo come tale … questa sarebbe stata esattamente il tipo di teoria a cui un establishment impaurito non avrebbe potuto che dare il più caloroso benvenuto. La teoria dell’utilità marginale offriva precisamente questo. (…). E ciò che accadde è davvero notevole. Nel decennio successivo al 1870, la teoria dell’utilità marginale, dovunque venne proposta, incontrò un pieno successo» (10).

Il paradosso della svolta “marginalista” sta nel fatto che essa compiva una virata radicale all’indietro. I Marginalisti non facevano altro che tornare al concetto pre-industriale di ricchezza, ossia un insieme, uno stock, di risorse naturali date e scarse. Ciononostante essi riuscirono ad elaborare schemi analitici superiori a quelli dei Classici. Il loro schema era formalmente elegante e sofisticato ma presupponeva, come abbiamo detto, un concetto premoderno di ricchezza intesa come un fondo di risorse naturali quantitativamente scarse. In questo essi avevano un legame con uno dei Classici ossia Malthus. Da un punto di vista teologico, si tratta di uno schema che risente chiaramente di un influsso anti-biblico giacché si fonda su una visione pessimista della creazione – l’idea di una Natura Matrigna – e nega l’Abbondanza Donativa del Creatore nell’atto di dotare, all’interno dell’Alleanza, l’uomo, nel mondo, di ogni gratuità benefica.

Il Marginalismo, spiega Pasinetti, consistette in una « … riformulazione dell’intera teoria economica in termini di un elegantissimo modello matematico, diventato poi noto col nome di “modello dell’equilibrio economico generale”, che diede l’impressione di un salto di qualità, verso un’analisi economica che sembrava finalmente aver imboccato la strada della “scientificità”. In realtà, sul piano concettuale, significava una ritirata in un ambito ristretto, in cui tutti i fenomeni economici venivano ridotti a processi di massimizzazione di funzioni-obbiettivo matematiche, supposte tutte perfettamente note, esprimenti le utilità dei singoli individui o i profitti dei singoli imprenditori, o quant’altro si potesse formulare in termini di un “comportamento razionale” dei vari individui, tutti agenti sotto il potente movente del tornaconto egoistico individuale, e soggette ai vincoli di una distribuzione delle risorse esistenti accettate come date e da non discutere. Ne seguiva la dimostrazione che le soluzioni di questo modello di massimizzazione vincolata – ottenute lasciando agire i vari individui in mercati liberi e competitivi e tendenzialmente perfetti – portavano ad una allocazione finale delle risorse, che era “ottima” in senso relativo (cioè relativamente alla data distribuzione originaria delle risorse), e quindi ritenuta efficiente. Va aggiunto che questo schema di fondo (qui espresso evidentemente in modo semplificato) ha continuato ex-post ad essere perfezionato negli anni successivi al 1870, e poi per tutto il secolo XX. (…) l’espressione più elegante, e forse simbolica, di questo modello matematico di massimizzazione vincolata (è) … quella che è stata formulata da Paul Samelson nella sua opera “Foundations of Economic Analysis”, 1947. Trovo impressionante l’entusiasmo di questo insigne studioso, premio Nobel per l’Economia 1970, per quella che ha definito una “Mathematical Economics Revolution” (…). (…) le novità che vengono segnalate (sono) soprattutto di carattere formale, ispirate alle scienze naturali e alla matematica. (…) (mancano) invece gli aspetti … più importanti, ossia gli accenni ad almeno una presunta migliore rappresentazione e comprensione della realtà. Anche lo stesso processo di produzione, che pur doveva essere considerato, vi è stato inserito come se fosse un processo di scambio inter-temporale. Lo schema è persino sopravvissuto, (nonostante la parentesi Keynesiana) alla grave crisi economica del 1929. Si sta ora cercando di farlo sopravvivere anche all’attuale crisi del 2008, allorché persino le transazioni finanziarie sono state inserite nella stessa forma analitica, cioè come dei processi di massimizzazione del valore delle imprese, così come questo risulta dalle quotazioni di mercato. Le basi “scientifiche” di questo schema, quando se ne accettino le (irrealistiche) supposizioni sono state ritenute logicamente solide, tali da sovrastare ogni altra alternativa. Esse portano in sostanza a 3 risultati tradizionali, che vengono reiterati, confermati e messi al servizio della politica economica: i) la libertà nelle contrattazioni di mercato, con un minimo di regole, idealmente lasciate all’iniziativa privata, ii) l’accettazione della esistente distribuzione delle risorse e/o di quella dei redditi, così come i processi di produzione e la concorrenza di mercato viene a determinarli, iii) la proprietà privata (tendenzialmente) di tutti i beni» (11).

Misconoscendo la realtà problematica e conflittuale dell’epoca del dinamismo industriale, i Marginalisti non posero affatto al centro dell’indagine economica il problema del miglioramento delle condizioni di vita dei ceti più svantaggiati nella dinamica capitalista della produzione ma il problema della gestione efficace delle risorse esistenti, presunte scarse, facendo assegnamento sul supposto comportamento razionale di individui astratti, irrelati, che non conoscono altri legami sociali se non quelli contrattuali, utilitari, e che inseguono ciascuno il proprio tornaconto in una società stazionaria, competitiva e strettamente atomistica.

Riproponendo nella teoria economica il concetto luterano del “peccato salutare” – gli uomini, giacché corrotti, non possono evitare di peccare ma Dio a suo arbitrio, indipendentemente dalla trasformazione del cuore, ne salva alcuni nonostante anch’essi restino integralmente corrotti – i Marginalisti affidano agli effetti an-intenzionali, ossia indiretti ed involontari, garantiti dalla “mano invisibile”, secolarizzazione ambigua del Dio della teologia, l’ottenimento, attraverso l’egoismo teorizzato e praticato, del bene generale, universale, per tutti e per ciascuno. In tal modo l’“armonismo” dei Classici era sì salvo ma in un quadro concettuale falsificato che non corrispondeva affatto alla realtà della società industriale. Della quale tuttavia si pretendeva di spiegare il funzionamento economico sulla base di presunte “leggi naturali universali” – fondate sul principio del tornaconto individualistico ossia il fanfaniano “spirito del capitalismo” – che in realtà sono mere astrazioni concettuali e matematiche. Le quali, lungi dall’essere le “leggi naturali” dell’economia, mai hanno trovato effettiva concretizzazione nei diversi scenari storico-sociali conosciuti dall’umanità nella sua storia, come, ad esempio, la realtà vincolistico-comunitaria premoderna testimonia. Lo schema marginalista era analiticamente affascinante ma del tutto astratto non solo dalle circostanze storiche della sua epoca ma, in generale, da qualsiasi contesto storico concreto attuale o passato. Esso, tuttavia, svolgeva perfettamente una funzione di legittimazione teoretica del capitalismo predatore ed antisociale e dell’egemonia indiscussa ed indiscutibile del Capitale sul Lavoro. Ecco perché la Teoria Marginalista fu accolta tanto nell’Accademia quanto nella cultura politica conservatrice. Essa permetteva di rispondere al marxismo cambiando, in astratto, il terreno dello scontro e togliendo a Marx il terreno sotto i piedi.

Nella sua essenza di una astrazione matematica, formalmente elegante quanto si vuole, il marginalismo, oltretutto, non tiene affatto conto della complessità antropologica dell’uomo – il quale si denota per essere essenzialmente e prima di tutto “homo religiosus”, non “homo oeconomicus” – e della complessità del Reale, che conosce molteplici livelli ontologici ed ambiti e dimensioni di esistenza e nessuna di esse contempla come normativa l’individuo (casomai la “persona” che è l’antitesi dell’individuo perché, a differenza di quest’ultimo che è concetto di irrelazione, essa si definisce proprio in virtù delle sue relazioni, verticali, verso Colui che la trascende, ed orizzontali, verso le altre persone in un contesto comunitario).

«Vorrei far presente, specialmente ai colleghi economisti, – dice ancora Pasinetti – che l’immagine ingannevole sta proprio qui, cioè proprio nel fatto che il modello matematico dell’equilibrio economico generale è il più elegante e logicamente rigoroso modello matematico finora proposto che è in grado di dare una giustificazione in termini di raggiungimento di posizioni (relativamente) ottime, alla prescrizione di lasciare agire i singoli individui secondo il loro tornaconto individuale. Da qui tuttavia il passo è lungo, e quindi aperto a travisamenti, malintesi ed errori anche notevoli, quando lo si voglia adottare in concreto come l’unico schema logicamente coerente che giustifichi una generale politica economica di laissez faire. Non solo. Il passo diventa ancor più lungo e temerario, quando viene usato, troppo immediatamente e per estensione, per giustificare quello specifico assetto istituzionale che è il capitalismo di mercato, tutto centrato sul potente movente della massimizzazione dei profitti e delle utilità individuali. Eppure questo è proprio ciò che è stato fatto. Ci si deve render conto che in questa funzione esso è interamente ingiustificato. Naturalmente, sappiamo bene che il meccanismo competitivo di mercato è un delicato meccanismo istituzionale, che si è lentamente evoluto nei secoli – specialmente in quelli che hanno caratterizzato le “economie del commercio” – che ha tanti meriti, purché vengano prese le necessarie precauzioni e vengano seguite le opportune regole, che vanno continuamente cambiando, parallelamente alle condizioni esterne, e che devono essere sottoposte continuamente ad esami e revisioni. Sappiamo inoltre altrettanto bene che esso non funziona incondizionatamente. Addirittura, in certe condizioni, non funziona affatto. In ogni caso, richiede vigilanza e prudenza. Ora, la svolta che l’avvento della teoria marginalista ha compiuto, e che è poi stata continuata e canonizzata con l’elaborazione del modello matematico dell’equilibrio economico generale sopra descritto consiste nell’aver scelto un particolare insieme di condizioni – che derivano dal precedente paradigma del commercio – e averle innalzate a unico insieme di condizioni che definisce il meccanismo istituzionale del mercato ideale, con la tendenza a dare per scontato che in ogni caso siano approssimativamente soddisfatte, per tutti i propositi rilevanti e in tutte le occasioni. In questo modo si è in pratica costruito una rigida gabbia entro cui tutte le relazioni economiche vengono idealmente costrette (non importa quanto lontane possano essere dalla realtà). In sovrappiù – e questo è l’aspetto veramente grave – penalizzando tutte le ricerche, che non prevedono questo adeguamento analitico, come “non scientifiche” e quindi da non considerare» (12).

La Teoria Marginalista, il cui padre fu l’economista viennese Carl Menger, divenne ben presto nota sotto il nome di “Teoria Neoclassica” ed all’ombra di essa nacquero tutte le scuole neoliberiste oggi conosciute, sia la cosiddetta “Scuola Austriaca” (Friedrich August Von Hayek, Ludwig von Mises) sia l’“Ordoliberismo” friburghese (Ludwig Erhard, Walter Eucken, Franz Böhm, Hans Grossmann-Doerth, Alfred Müller-Armack e Leonhard Miksch), sia il “Monetarismo” (Milton Friedman). Pur ciascuno con le proprie caratteristiche concettuali, che lo differenzia rispetto agli altri, tutti questi filoni neoliberali hanno quale radice comune il “marginalismo mengeriano” il quale a sua volta – e questo dovrebbe essere un caveat per quei cattolici che si proclamano ordoliberisti o semplicemente liberisti – nasce da una chiara scelta di campo filosofica favorevole al soggettivismo ossia all’individualismo. Non è infatti pensabile il marginalismo senza premetterne le basi filosofiche cartesiane, hegeliane, husserliane ossia razionalistico-idealistiche e fenomenologiche. Riducendo l’oggetto al soggetto, la realtà oggettiva all’io senziente, il marginalismo asserisce essere il valore economico una funzione del gradimento soggettivo-individuale, sempre più marginale mano a mano che il bisogno o il desiderio sono soddisfatti. Non quindi un attributo oggettivo, in sé, dei beni nell’ambito di un più vasto Kosmos simbolico-reale, sicché l’uomo è, poi, in grado di esprimere giudizi di valore proprio perché in lui è riflessa l’immagine della stessa Intelligenza che il mondo ha creato, secondo una prospettiva etica, e donato all’umanità.

La Chiesa scende in campo

Alla fine del XIX secolo, dunque, si assisteva allo spettacolo di una teoria economica, raffinata nelle sue formulazioni matematiche, ma totalmente astratta ed estranea al contesto storico e sociale della società industriale e dei suoi conflitti. Al quale poi si pretendeva di applicarla. Ed è proprio alla fine del secolo XIX, che Leone XIII, con grande buon senso, prese l’iniziativa nel nome del Vangelo. Era ormai improcrastinabile necessità della Chiesa affrontare la sfida epocale della modernità intervenendo esplicitamente coi suoi ammonimenti etici in tema economico-sociale. Nasceva così il corpus magisteriale che sarebbe stato denominato Dottrina Sociale della Chiesa. Il suo primo atto fu la Lettera Enciclica Rerum Novarum (1891), promulgata da Papa Pecci. Essa, però non nasceva dal nulla perché, in realtà, raccoglieva, sistematizzava e sanciva con l’Autorità della Cattedra Petrina le spinte spirituali, teoriche e soprattutto pratiche già manifestatesi, e gradualmente sviluppatesi, in seno all’opposizione tradizionalista ecclesiale alla modernità che, a partire dagli albori stessi della Rivoluzione Industriale e della Rivoluzione Francese, avevano dato vita ad una operosa ed attiva corrente sociale interna al Cattolicesimo.

Non è, infatti, affatto vero che la Chiesa abbia iniziato a preoccuparsi delle realtà mondane, in specie dei problemi posti dall’economia, soltanto alla fine del XIX secolo, come se Essa, fino a quel momento, avesse praticato una sorta di spiritualismo disincarnato e non fosse stata, invece, come da insegnamento di Cristo in Persona, attenta alla salvezza globale dell’uomo nella sua integrale costituzione, metafisico-antropologica, spirituale, psichica e corporea, e quindi attenta anche alla corporeità ossia il livello ontologico connesso con i problemi posti dalle necessità vitali primarie ovvero l’economia. Il punto differenziale tra l’epoca premoderna e l’epoca moderna sta soltanto nei mezzi e nella prassi adottata, più assistenziale-caritativa in passato, anche aperta oggi al confronto con la politica economica in un mondo trasformato dalla rivoluzione tecnologica. Quel che sembra un intervento tardivo, di fine Ottocento, con la Rerum Novarum, fu in realtà soltanto il primo atto moderno, ovvero adeguato alla realtà mutata dei tempi, del Magistero sociale della Chiesa la cui radice prima si chiama Carità. Per questo il Magistero sociale, può dirsi, è apparso, implicito, insieme alla Rivelazione. In altri termini la Dottrina Sociale della Chiesa è sempre esistita mentre nella seconda metà dell’Ottocento nasce soltanto la sua versione moderna che si sarebbe sviluppata lungo il secolo successivo leggendo ed interpretando i cambiamenti nell’ottica di sempre e quindi mettendo in rilievo luci ed ombre dei processi in atto.

Ai tempi di Leone XIII si poneva come immediato il problema di cercare una soluzione ai guasti sociali posti dalla Rivoluzione Industriale. Il Magistero era consapevole che la critica di Karl Marx, assorbendo dagli economisti Classici i tratti analitici essenziali di un “paradigma economico della produzione”, giocava sul terreno delle contraddizioni degli stessi Classici che credevano potessero essere salvaguardate, nonostante le trasformazioni, le istituzioni liberali. La Chiesa che con il liberalismo politico si era già scontrata sin dal suo nascere, perché la sua essenza stava nella pretesa “liberazione” (che del resto, successivamente Marx, che era intrinsecamente un liberale, fece propria) dell’uomo da Dio e del singolo dalla comunità, non ebbe difficoltà a comprendere prima degli economisti, anche se non diede (non era il suo compito) risposte in termini di paradigmi e teorie economiche, l’insufficienza del liberalismo nell’affrontare i problemi sociali che erano sorti dalla Rivoluzione Industriale, ad iniziare dal diffuso scontento sociale, generato dal disagio delle classi lavoratrici, costrette a vivere in condizioni disumane, sia in fabbrica che in famiglia. Marx le incitava alla rivolta senza condizioni; in pratica ad una rivoluzione radicale dell’intero quadro istituzionale esistente – politico, economico, sociale, e, non ultimo, religioso. La Chiesa rifiutò questa prospettiva perché, nella Sua Sapienza, ben vide quale era la radice e quale sarebbe stato l’esito ultimo del marxismo ossia l’avvento del nichilismo lungo un percorso storico mediato, in una fase intermedia, dalla immanentizzazione delle speranze escatologiche sostenute dalla Rivelazione. Ma non per questo la Chiesa poteva rinunciare a dare il suo giudizio sullo scenario sociale impostosi con la modernità e non esitò a mettere sotto accusa innanzitutto il liberalismo in un quadro analitico, teologico e storico, nel quale il marxismo fu visto come una conseguenza estrema del liberalismo. La Chiesa non rigettava le critiche marxiste, che anzi considerava fondate e giuste, ma rifiutava il marxismo perché, figlio del liberalismo, aveva lo stesso, inaccettabile, obiettivo “paterno” della sconsacrazione definitiva e totale del mondo.

Di fronte al fallimento, da parte del mondo accademico, nel formulare un nuovo paradigma  economico in grado di interpretare i nuovi eventi e di indicare, al mondo del Lavoro, un’alternativa efficace al marxismo, la Chiesa, conscia di essere espressione storica dell’Eterno e quindi di essere depositaria di una continuità sapienziale pur nel cambiamento delle forme storiche della società, indicò nell’adattamento alla realtà nuova dei modelli organicisti dei tempi della perduta Cristianità la soluzione cristiana. Quando Leone XIII, nella sua enciclica, riconosceva l’esigenza di sindacati “anche di soli operai” prendeva atto, contro le illusioni tradizionaliste, superate dai tempi, del ripristino delle corporazioni di tipo premoderno, delle trasformazioni intervenute con l’industrializzazione che avevano fatto emergere il dualismo capitale-lavoro in un modo che nell’età antica era quasi sconosciuto, sicché non si poteva sic et simpliciter riproporre l’antico organicismo ma bisognava aggiornarlo in considerazione del fiorente sindacalismo moderno. La aggiornata piattaforma “corporativista-sindacale” inaugurata da Leone XIII – che non è venuta meno, quale caratteristica del Magistero, neanche dopo il travolgimento delle esperienze novecentesche, dato che essa persiste in forma diversa anche nel Magistero Sociale più recente – trovava la sua ragione in questo senso di continuità ecclesiale. Quel che è piuttosto mancato, nonostante poche e per questo brillanti teorizzazioni di alcuni grandi studiosi, è stata la traduzione, nei termini della scienza politico-sociale e della scienza economica, delle indicazioni etiche e sociali del Magistero.

A differenza degli economisti Neoclassici – i quali anziché riconoscere ed affrontare la sfida del cambiamento epocale che era intervenuto ed elaborare un parallelo cambio di paradigma teorico si rifugiarono nell’astrazione matematica – la Chiesa non scelse la strada della fuga dalla realtà del nuovo mondo industriale per un ri-adagiamento nel solco del vecchio paradigma economico “del commercio”. La Chiesa ruppe con detto paradigma. Così mentre i Neoclassici, anche se con versioni varie da un autore all’altro, rimanevano concordi nella raccomandazione alle Autorità pubbliche di astenersi il più possibile dall’interferire nelle contrattazioni economiche del merc