Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’offensiva russa nel Donbass

L’offensiva russa nel Donbass

di Gian Micalessin - 27/06/2022

L’offensiva russa nel Donbass

Fonte: Analisi Difesa

Per capire l’inizio di tutto bisogna partire da una villa aggrappata al crinale di una collina di Yalta. Fino all’anno scorso era un vecchio casolare di pietra circondata da vigneti e frutteti. Oggi è il “buen retiro” di Oleg Tsarov, l’ex deputato ucraino che, secondo l’intelligence americana, era stato scelto da Vladimir Putin per sostituire Volodymyr Zelensky, guidare un governo di transizione e riportare l’Ucraina nell’alveo della Russia.
Lui non lo ammette, ma neppure lo nega. “Quel 24 febbraio – racconta ero sotto Kiev con i miei uomini. Avevamo armi, carri, munizioni, ma viveri per solo tre giorni.

Il fallito colpo di mano a Kiev
Doveva finire tutto in 72 ore, invece ho passato un mese intorno alla capitale, ho visto la guerra e molte cose che non auguro a nessuno”. Oleg Tsarov non vuole e non può raccontare tutto, ma fa capire che né lui, nè i russi si aspettavano di conquistare “manu militari” Kiev e il nord dell’Ucraina.
Quello che Tsarov non può raccontare lo ricostruiamo parlando con altri fuoriusciti del Partito delle Regioni, la formazione filo russa legata all’esecutivo del presidente Viktor Yanukovic destituito nel febbraio 2014 dopo gli scontri di Maidan. “Siamo arrivati alle porte di Kiev scortati da soldati di leva e dalla   Rosgvardiyas, la Guardia Nazionale – racconta una delle nostre fonti – ma invece di venir accolti dai reparti dell’esercito ucraino pronti a deporre Zelensky ci siamo ritrovati attaccati da tutte le parti”.
Un ribaltamento di fronte che Oleg Tsarov imputa all’efficienza dell’intelligence inglese. “Sono stati molto più bravi di noi…. conoscevano tutti i nostri piani e li hanno fatti saltare uno dopo l’altro. Anche perchè qualcuno dei nostri ha tradito”.
Le ammissioni di Tsarov e di altri esponenti dell’ex Partito delle Regioni fanno capire i motivi della batosta subita da Mosca nel primo mese di operazioni. In quel fatidico 24 febbraio i servizi segreti russi erano convinti che interi reparti delle forze armate ucraine sarebbero passate dalla loro parte giurando fedeltà al governo provvisorio affidato a Oleg Tsarev e ad altre personalità fedeli a Mosca.
“Quando il piano è stato scoperto molti di quei comandanti sono stati arrestati e fatti confessare, altri si sono riallineati al governo” – spiega la nostra fonte. Una versione confermata dalla vicenda del banchiere-spia Denis Kireyev.
Inserito nella squadra ucraina che il 28 febbraio a Gomel, in Bielorussia, avvia le prime trattative con i russi, Kieryev viene brutalmente assassinato a Kiev, il 4 marzo, da un commando dei servizi segreti ucraini. Un assassinio che rientra nel giro di drastiche purghe con cui vengono eliminati tutti i sospetti complici dei piani russi. La mancata discesa in campo delle unità ucraine anti-Zelensky è dunque la vera causa del fallimento delle operazioni russe sul fronte di Kiev.
Allo stesso tempo però i facili successi ucraini generati da una situazione strategicamente irripetibile sono all’origine degli errori che inducono la Nato a sottovalutare le capacità dall’esercito russo durante la seconda fase della guerra.

L’offensiva russa nel Donbass
Sottovalutazioni alimentate anche dalle poco azzeccate previsioni di chi descrive  un esercito russo prostrato e incapace di ricostituire i ranghi dei “gruppi di combattimento” reduci dalla campagna di Kiev e dall’assedio di Mariupol.
L’infondatezza di quelle previsioni balza agli occhi visitando i circa novanta chilometri di linee lungo le quali si snoda l’avanzata russa nell’ oblast di Lugansk.
Rubizhne a nord e Popashna a sud sono le due ganasce della morsa stretta, a partire da metà maggio, intorno Severodonetsk e Lysyshank, gli ultimi due centri del Lugansk ancora sotto controllo ucraino. Popashna, fulcro meridionale dell’offensiva russa, viene conquistata il 9 maggio dall’esercito di Mosca, dalle truppe cecene e dalle forze indipendentiste della Repubblica di Lugansk.
L’epilogo arriva dopo due mesi di sanguinose battaglie durante le quali russi e alleati faticano non poco a snidare le unità ucraine trincerate nei palazzi del centro. Il tutto mente il fuoco incessante delle artiglierie di entrambe le parti batte i due fronti urbani costringendo all’esodo buona parte dei 19mila abitanti.
Oggi la piazza principale di Popashna è un lugubre anfiteatro di guerra. Tutt’intorno gira la quinta dei palazzi anneriti e sfondati da missili e colpi di artiglieria. Addossati alle macerie riposano, come tori in attesa della carica, blindati e carri russi. All’entrata di cantine e seminterrati un miscuglio di pallide facce slave e barboni ceceni si gode un turno di riposo.
Altri, usciti dall’intrico di rovine trasformate in alloggi di fortuna, imbracciano il kalashnikov, stringono giubbotto antiproiettile e giberne e corrono verso i cingolati pronti a scaricarli in prima linea.  Qui e là si fanno vedere gli uomini del Gruppo Wagner, i contractor dai volti sempre coperti, a cui spetta il compito di sferrare gli attacchi risolutori contro le unità ucraine più restie alla resa o alla ritirata.
Rasoterra, sotto la collinetta, incrociano, come fragorose libellule, gli elicotteri Ka-52 a doppia elica. Su, nel cielo, sibilano le salve dei razzi Grad diretti verso le posizioni ucraine davanti a Severodonetsk. Da questa distesa di rovine si è snodata l’avanzata che ha tenuto impegnati gli ucraini su quel fronte.
Un’avanzata che ha permesso la chiusura della sacca di Zolote (nella mappa qui sotto) e l’avanzata verso Lysyschansk, la roccaforte ucraina situata sulla cima della collina prospiciente Severodonetsk.

La sacca di Zolote
La chiusura della sacca di Zolote, conclusasi martedì 21 giugno, segna il definitivo accerchiamento di quasi duemila uomini dell’esercito ucraino privi ormai di vie di fuga.  Da Toshkivka – villaggio di 5mila anime quaranta chilometri a nord est di Popashna, conquistato il 19 giugno – prosegue, invece l’avanzata verso nord   per tagliare i rifornimenti che ancora si muovono sulla strada da Bakmut e chiudere la sacca di   Lysyshansk.
Un accerchiamento indispensabile per ottenere la resa ed evitare una sanguinosa avanzata sotto il fuoco dell’artiglieria ucraina annidata sulla cima della collina. L’avamposto migliore per comprendere le strategie russe sul fronte di Popashna passa per le postazioni d’artiglieria semovente e lanciarazzi BM-21Grad impegnate a martellare la sacca di Zolote.
Ad ogni salva una vampata di fiamme e fumo accompagnata dal fragore e dai sussulti di un sisma divora i camion Ural mentre i quaranta tubi appoggiati sui cassoni sputano l’ennesimo carico di morte e devastazione. Un istante dopo il fruscio sinistro dei razzi Grad da 122 millimetri solca il cielo e punta il suo obbiettivo, sei o sette   chilometri più avanti. Quindici secondi ed un altro, piccolo terremoto ne annuncia l’arrivo sulle linee ucraine.
“Quella è Zolote, lì dove cadono i razzi ci sono le posizioni della 24ma brigata ucraina e quelle di alcuni battaglioni nazionalisti come il Tornado, il Donbass e l’Haider – spiega Ayrton ufficiale di un’unità di artiglieria delle truppe della Repubblica popolare di Lugansk aggregata ai russi – in tutto sono più di duemila soldati. Sono circondati, e noi stiamo cercando di farglielo capire”.
In effetti in oltre un’ora di permanenza su queste linee non si nota un solo colpo di risposta. Un segnale abbastanza chiaro di come le unità di Kiev, in evidente difficoltà e a corto di munizioni preferiscano chiudersi nei bunker e nei trinceramenti sotterranei anziché farsi individuare rispondendo al fuoco.

Tempesta di fuoco
Vista da qui la strategia russa non sembra molto diversa da quella usata ottanta anni fa per costringere alla ritirata le truppe tedesche e quelle italiane.  Nonostante tutte le dissertazioni occidentali sulla propensione russa alla “guerra ibrida” qui l’artiglieria sembra tornata l’antica “regina delle battaglie”.
Un ritorno al passato dettato da una dottrina strategica russa che continua ad attribuire la capacità di manovra sul campo al martellante fuoco indiretto di obici, mortai e razzi.
Qui più dell’intelligence, più della precisione dei Javelin, più della guerra invisibile dei droni conta, insomma, la massa critica di una Russia capace di dispiegare 60mila uomini, a fronte di appena 15mila difensori ucraini e di riversare sulle linee nemiche una pioggia quotidiana di oltre 50mila fra razzi, missili e proiettili di obici e mortai.
Nell’ambito di questa strategia la superiore massa critica garantita da uomini e potenza di fuoco si traduce in una pressione difficilmente sostenibile e capace, alla lunga, di chiudere il nemico in sacche concentriche sempre più ampie condannandolo alla ritirata o alla resa.
Sul fronte di Severodonetsk la massa critica dell’armata russa preme lungo tutto l’ampio semicerchio che corre da Popashna, a sud, fino a Rubizhne sul lato settentrionale di Severodonetsk.
Su quei 90 e passa chilometri non c’è città, sentiero o villaggio dove non si muovano camion e blindati russi, ceceni o indipendentisti. Nonostante il dispiegamento di mezzi e l’evidente superiorità numerica l’avanzata resta però lentissima rispetto agli standard occidentali.

Limitare perdite e distruzioni
Una lentezza che il capitano Ivan Filiponenko, portavoce delle forze di Lugansk (nella foto sotto con un’arma anticarro occidentale fornita alle truppe ucraine)), spiega con la necessità di contenere le perdite tra i propri effettivi e tra una popolazione civile in larga parte russofona.
“A differenza di quanto andate raccontando in Europa l’esercito russo e il nostro non sono né stanchi, nè demoralizzati, nè a corto di mezzi – sostiene il capitano – potremmo avanzare molto più in fretta, ma questo causerebbe perdite assai ingenti non solo tra i nostri soldati, ma anche tra la popolazione in gran parte russa di questi territori. Inoltre un’avanzata più veloce implicherebbe distruzioni più consistenti di città e infrastrutture che appartengono alle nostre repubbliche e dovremmo, alla fine, ricostruire a nostre spese”.
Ad agevolare la lenta, ma incessante avanzata contribuisce un fattore ambientale ampiamente sottovalutato dagli analisti occidentali. Il sostegno delle Repubbliche indipendentiste di Donetsk e Lugansk garantisce una logistica molto più corta e permette rifornimenti di armi carburante e munizioni nel giro di poche ore.  Le indicazioni fornite dagli alleati indipendentisti, veterani di questi campi di battaglia, consentono, invece, di muoversi sul terreno senza sorprese.
A rendere psicologicamente più sopportabile lo stress delle interminabili giornate di combattimenti contribuisce il favore delle popolazioni pronte ad accogliere i russi come liberatori anziché come forze occupanti.
Tutti fattori ampiamente sottovalutati da un Occidente che ha spesso chiuso   gli occhi sulla situazione di un Donbass dove la popolazione, in maggioranza russofona e filo russa, rifiuta fin dal 2014 la sovranità di Kiev e combatte, da allora, una sanguinosa guerra civile.
Un’ altra evidente sottovalutazione riguarda la resilienza russa o, meglio, la capacità della popolazione e dei suoi soldati d’accettare e sopportare l’asprezza di un conflitto contrassegnato da elevate perdite e da condizioni durissime. Nel formicolio incessante di uomini carri e artiglieria semovente che si sussegue lungo tutte le linee del fronte colpisce, spesso, l’arretratezza di tanti mezzi.
I corazzati BMP e i blindati BTR, già inadeguati nell’Afghanistan di 40 anni fa, continuano, nonostante gli ammodernamenti, a rappresentare il guscio gelido o torrido, su cui il fante russo continua a raggiungere le prime linee.
Un guscio peraltro, vulnerabilissimo a cui nessun esercito occidentale accetterebbe di affidare l’incolumità e la sicurezza dei propri soldati.  Anche da questo emerge la resilienza di un esercito russo capace di accettare non solo le scomodità, ma anche le atrocità e le perdite del campo di battaglia con un un’indole ormai aliena alle nostre latitudini.
Una resilienza, o una rassegnazione, che possono sembrare inaccettabili o assurde, ma che unite alla soverchiante superiorità numerica dei mezzi e al martellante volume di fuoco dell’artiglieria finiscono con il garantire l’effetto desiderato.

Errori di valutazione
Ma le errate valutazioni occidentali non si limitano al campo russo. Un’altra evidente anomalia rispetto allo scenario strategico di Kiev riguarda la composizione delle unità ucraine sul campo. A Kiev i difensori provenivano in gran parte dalle regioni settentrionali e nord occidentali e combattevano per così dire alle porte di casa. Nel Donbass, complice la sfiducia dei vertici di Kiev nelle popolazioni locali e l’alta percentuale di russi, sono assai poche le unità formate da combattenti del posto.
Per contro le unità provenienti dalle regioni nord-occidentali non sembrano molto motivate a battersi per il Donbass. O, comunque, assai meno di quando combattevano per Kiev. Questa differenza rispetto alla fase iniziale del conflitto è emersa con drammatica evidenza non appena i comandanti hanno incominciato a misurarsi con perdite sempre più elevate.
Sul numero dei caduti e dei feriti ucraini le fonti occidentali hanno a lungo sorvolato preferendo concentrarsi sui numeri, spesso esagerati, dei caduti russi. Una lacuna informativa emersa soltanto a fine maggio quando i vertici di Kiev hanno dovuto ammettere di non poter sopportare le pesanti perdite subite su questo fronte.
“Ogni giorno – ha ammesso il presidente Volodymyr Zelensky – perdiamo dai 50 ai 60 soldati e dobbiamo fare i conti con almeno 500 feriti”.  Cifre che, a detta di altri esponenti del governo ucraino, sarebbero ancor più pesanti. Il ministro della difesa Oleksii Reznikov parla di 100 morti e 500 feriti al giorno.
Il consigliere presidenziale Mykhaylo Podolyak, citato dalla BBC, ammette perdite quotidiane che vanno dai 100 ai 200 soldati. Vuoti praticamente incolmabili per un esercito ucraino che anche ricevendo nuove armi dall’Occidente non avrebbe più il tempo di fornire alle nuove reclute l’addestramento indispensabile per utilizzarle con efficacia. E a rendere più impari lo scontro s’aggiunge un morale in caduta libera.
Lo dimostrano gli appelli, praticamente quotidiani, apparsi su internet e “social” dal 20 maggio in poi con cui gli ufficiali impegnati a Severodonetsk e Lysichansk chiedevano a Zelensky e al governo di risparmiar loro un inutile sacrificio. Tutto inizia   quando un ufficiale della 14a Brigata posta la foto di una ventina dei suoi uomini e un’esplicita ammissione.
“Eravamo in cento, ora – scrive –  siamo solo questi, non posso più difendere la posizione”. Neanche 24 ore dopo anche un comandante della 115a Brigata chiede il ritiro immediato. Un collega della 56a è, invece, ancor più esplicito.  “Non usateci come carne da cannone tenere queste posizioni non è più possibile”.
Messaggi senza precedenti che evidenziano la scollatura con un governo di Kiev pronto a esigere un sacrificio di soldati e civili simile a quello imposto a Mariupol. I ripetuti e sofferti “no” di Kiev, seguiti da nuove pressanti richieste, evidenziano alla fine la frattura sempre più evidente tra forze sul campo e dirigenza politica.
Una frattura inimmaginabile nella prima fase del conflitto quando le perdite erano compensate dalla prospettiva di un’inaspettata vittoria. Una frattura che venerdì 24 giugno ha costretto Kiev a decretare il definitivo abbandono di Severodonetsk.
“Restare in una città distrutta al 90 per cento dai bombardamenti può solo aumentare le perdite” – ha detto  il governatore militare ucraino di Lugansk Sergei Gaida annunciando una ritirata destinata, probabilmente,  a venir seguita dall’addio a Lysychansk e a agli esigui territori dell’oblast  ancora nelle mani di Kiev.

Foto: Gian Micalessin