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L'umanitarismo è uno strumento dell’imperialismo

di Francesco Lamendola - 31/01/2020

L'umanitarismo è uno strumento dell’imperialismo

Fonte: Accademia nuova Italia

Si fa un gran parlare di umanità e di umanitarismo, in questa tarda modernità. Si parla di emergenze umanitarie, di interventi umanitari, perfino di guerre umanitarie. Ma cosa c’è dietro questo utilizzo ideologico del concetto di umanità? Secondo il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt (Plettenberg, Vestfalia, 1888-ivi, 1985), una delle menti speculative più raffinate che l’Europa ha prodotto negli ultimi due secoli, l’utilizzo propagandistico del termine umanità e tutti gli strombazzamenti dell’umanitarismo, caratteristici della modernità, altro non sono che strumenti dell’imperialismo, e specialmente dell’imperialismo economico. Ci siamo già occupati altra volta di questo importante pensatore tedesco (vedi l’articolo: “Amico” e “nemico” nel pensiero politico di Carl Schmitt, già pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/12/07 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/01/18), il quale afferma che la categoria di amico e nemico è coessenziale alla politica, mentre il concetto di umanità non è di tipo politico, perché gli uomini appartengono tutti a una medesima specie e quindi non vi sono uomini più umani di altri, e neppure meno umani. Di conseguenza, secondo Schmitt, quando si bandisce una guerra in nome dell’umanità, in effetti lo si fa perché si vuol togliere al nemico la qualifica di umano e avocarla a sé soli, identificandosi come i campioni della natura umana contro delle forze non umane, bestiali, le quali minacciano, appunto, l’umanità. Infatti, muovere contro qualcuno in nome della difesa dell’umanità e dei valori umani equivale a negare che costui appartenga al genere umano e che alberghi in sé dei valori umani: e pertanto si tratta della forma più radicale, più violenta e brutale di guerra che sia dato concepire. Contro un simile nemico, non c’è arma che non sia o non divenga lecita, anche quella che, in circostanze normali, farebbe rabbrividire di orrore colui che si appresta ad usarla: e tale è stato il caso del lancio delle due bombe atomiche sulle città indifese di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto del 1945. In quel caso, la giustificazione umanitaria era duplice: da un lato perché i giapponesi erano stati presentati all’opinione pubblica americana, fin dall’inizio come dei nemici disumani, non solo i militari ma anche i civili (e infatti i cittadini americani di origine giapponese erano stati chiusi in campi di concentramento e vi rimasero per tutta la durata del conflitto, con gravi sofferenze per tutti loro); dall’altro lato perché, mostrando al Giappone la terribile potenza dell’arma atomica, si sarebbe affrettata la richiesta di armistizio da parte sua e così, ponendo fine alla guerra, si sarebbero risparmiate molte vite umane (ma di chi? non certo dei giapponesi): obiettivo di per se stesso, come ben si vede, altamente umanitario.

Quando Carl Schmitt svolgeva questo tipo di osservazioni, fra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, questi ultimi fatti erano di là da venire, ma certamente egli ripensava al trattamento che era stato inflitto alla sua patria, la Germania, e alle nazioni sue alleate, dai vincitori della Prima guerra mondiale. Un trattamento non solo durissimo sotto ogni punto di vista: territoriale, economico e finanziario, ma altresì caratterizzato da un moralismo assolutamente inedito: ai rappresentanti del governo tedesco – un governo repubblicano, e dunque un governo diverso da quello che esisteva nell’agosto del 1914 - fatto unico nella storia, era stato imposto di firmare un documento nel quale era scritto, nero su bianco, che la Germania sola portava la responsabilità dello scoppio della guerra, e quindi di tutte le distruzioni e le perdite di vite umane che essa aveva causato. In tutte le guerre del passato, il vincitore si era limitato a imporre una certa quantità di risarcimenti per i danni e le perdite subite; ora il vincitore pretendeva di mettersi sul piedistallo della moralità e di far ammettere al vinto, sotto la minaccia di una ripresa immediata delle ostilità, che tutto quanto era avvenuto doveva attribuirsi esclusivamente a lui. La cosa dovette riuscire tanto più facile agli Alleati sotto il profilo psicologico, oltre che giuridico, in quanto per più di quattro anni essi avevamo effettivamente rappresentato i tedeschi come dei barbari crudeli, anzi dei sadici: nei loro manifesti di propaganda si vedevano i soldati del Kaiser tagliare le mani ai bambini del povero, piccolo Belgio, e innumerevoli altre atrocità venivano addebitate alla Germania e all’Austria-Ungheria (ma non, curiosamente, il solo, gravissimo e documentato crimine di guerra perpetrato dagli ottomani nel 1915-16: il genocidio del popolo armeno). Delle crudeltà e delle violazioni alle norme del diritto internazionale, beninteso, c’erano state, ma da entrambe le parti; però la propaganda dell’Intesa, più efficace, era riuscita a dipingere gli Imperi Centrali, agli occhi del mondo, come il regno del male. Pertanto l’opinione pubblica mondiale condivise l’opinione degli Alleati che la guerra sottomarina indiscriminata lanciata dai tedeschi, con l’affondamento di qualsiasi nave diretta verso i porti alleati, fosse una maniera criminale di condurre la guerra, ma nessuno si chiese se fosse moralmente lecito alla flotta britannica porre il blocco ai rifornimenti internazionali per la Germania, riducendo alla fame centinaia di milioni di persone, ossia l’intera popolazione degli Imperi Centrali, e provocando la morte di bambini e malati per mancanza di nutrimento sufficiente o di generi farmaceutici (cfr. i nostri articoli: Violando i diritti dei popoli la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 05/03/08 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 29/11/17; e Processare il Kaiser?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Quando poi, nell’aprile del 1917, entrarono in guerra gli Stati Uniti (mentre la Russia zarista, alleato politicamente imbarazzante, ne usciva), e il presidente Woodrow Wilson sbandierò trionfante i suoi troppo celebrati 14 Punti, il gioco era fatto: la guerra era diventata non più una contesa fra due coalizioni imperialiste su scala mondiale, bensì una crociata della democrazia contro il militarismo e l’assolutismo (anche se la Germania e l’Austria erano in realtà delle monarchie costituzionali). È allora che si formò, per la prima volta, l’equazione fra democrazia e pace, da un lato, e fra governi non democratici e guerra, anzi guerra criminale, dall’altro, che si è andata gradualmente rafforzando e che oggi permea interamente il nostro immaginario, sino ad aver assunto lo statuto di verità auto-evidente e incontrovertibile. A quel punto, nel 1917, il nemico della coalizione alleata non era più un nemico “normale”, ma, essendo un nemico della democrazia, doveva essere considerato a tutti gli effetti come un nemico dell’intera umanità. E quando, per esempio, alla conferenza di pace, i rappresentanti del governo ungherese, i quali nulla avevano a che fare con l’Austria-Ungheria che nel luglio del 1914 aveva dato inizio alla guerra mondiale, attaccando la Serbia – si sentirono dire che il loro Paese avrebbe dovuto rinunciare ai due terzi del suo territorio e a una buona metà della sua popolazione, probabilmente pensarono di aver udito male o di aver avuto un’allucinazione collettiva. Che cosa avrebbero pensato i rappresentanti della Francia, della Gran Bretagna o degli Stati Uniti, se la sorte delle armi avesse visto la loro sconfitta e si fossero visti presentare delle condizioni di pace analoghe? E oltre al danno, la beffa: quella di vedersi trattare come i soli responsabili morali di tutto quanto era avvenuto, e di portare quindi la colpa della più grande tragedia che l’Europa avesse conosciuto da secoli e secoli.

Scrive, dunque, Carl Schmitt in Le categorie del politico (edizione originale 1932; traduzione dal tedesco di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 140):

 

L’UMANITÀ in quanto tale non può condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta. Il concetto di umanità esclude quello di nemico, poiché anche il nemico non cessa di essere uomo e in ciò non vi è alcuna differenza specifica. Che poi vengano condotte guerre in nome dell’umanità non contrasta con questa semplice verità, ma ha solo un significato politico particolarmente intenso. Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario, di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’UMANITÀ è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno.

Proclamare il concetto di UMANITÀ, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato “hors-la-loi” e “hors-l’humanité” e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità. Ma al di fuori di questa utilizzazione altamente politica del termine non politico di umanità, non vi sono guerre  dell’umanità come tale. L’umanità non è un concetto politico e ad essa non corrisponde nessuna unità o comunità politica e nessuno “status”.

 

Tutto quel che è successo dopo che queste parole furono scritte ha confermato in pieno la giustezza dell’analisi di Carl Schmitt. Sconfitta di nuovo nella Seconda guerra mondiale la Germania (insieme al Giappone) è stata tratta assai più duramente che nel 1919, non solo sul piano materiale – addirittura divisa in due metà, nemiche irriducibili! – ma anche, di nuovo, sul piano giuridico: con un processo spettacolare ai capi del Terzo Reich, quello di Norimberga, che non ha precedenti nella storia per la sua arbitrarietà e ipocrisia. Arbitrarietà, perché non vi è mai visto un tribunale formato da quella che ritiene di essere la parte lesa; ipocrisia, perché i giudici-accusatori avevano commesso a loro volta atrocità e crimini di ogni tipo, e perché ricorsero al misero espediente d’incriminare il nemico per quelli che, all’epoca dei fatti, non erano contemplati come crimini dalle leggi internazionali: ad esempio, aver pianificato e scatenato la guerra. Un analogo processo farsa si tenne a Tokyo contro i capi politici e militari del Giappone sconfitto; all’Italia questa sorte fu risparmiata in virtù dell’armistizio dell’8 settembre 1943. E tutto ciò fu possibile, anzi, fu visto e presentato all’opinione pubblica internazionale come normale e pienamente legittimo, grazie all’opera propagandistica svolta in precedenza: ossia che quelli del Tripartito non erano nemici “normali”, bensì mostri assetati di sangue, criminali sadici e meritevoli di essere trattati non come uomini, ma come animali idrofobi, da abbattere senza pietà. Si badi: non stiamo dicendo che tedeschi, giapponesi e, in certi casi, anche italiani, non commisero dei crimini nel corso della guerra; stiamo dicendo che i loro nemici ne commisero, a loro volta, di gravissimi: e non solo i sovietici, ma anche le potenze democratiche. Tutti oggi parlano, e giustamente, dei campi di concentramento tedeschi; ma quanti sanno che esistettero anche i campi di concentramento britannici e americani, e che in questi ultimi furono lasciati morire di fame e di freddo milioni di prigionieri tedeschi, a guerra ormai conclusa? E che milioni di civili tedeschi delle province orientali furono sterminati o costretti a fuggire per sempre dalle loro case?

Nei decenni successivi, e soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, questo stato di cose non ha fatto che rafforzarsi, come sono aumentate l’arbitrarietà e l’ipocrisia delle democrazie che si ergono a giudici e giustiziere di qualsiasi nemico esse decidano di abbattere, magari dopo averlo costruito a tavolino per i loro scopi inconfessati e inconfessabili. Lo abbiamo visto ormai troppe volte, dall’Iraq alla Serbia e dall’Afghanistan alla Libia. In Siria, poi, le cose sono giunte al punto che le democrazie sostengono di essere intervenute per difendere la libertà di quel popolo, e intanto forniscono supporto logistico e finanziario a dei gruppi terroristici, presentati però all’opinione pubblica come combattenti democratici; mentre il governo autoritario locale, che esse avrebbero voluto abbattere (e ci sarebbero certamente riuscite, se non fosse intervenuta con decisione la Russia di Putin) combatte contro i terroristi e paradossalmente difende alcune libertà fondamentali, come quella di continuare a esistere della minoranza cristiana in un Paese che è a larghissima maggioranza islamico. Ma tutto questa ipocrisia è insita nell’atteggiamento di fondo delle democrazie, le quali, nelle Convenzioni di Ginevra, istituendo i crimini contro la pace, sottintendono che la guerra sia di per se stessa un crimine; il che obbliga le democrazie a mentire e a chiamare operazioni  umanitarie, o addirittura operazioni di pace, tutte le guerre che decidono di scatenare contro chi non si adegua all’ordine internazionale da esse voluto. E poiché tale “ordine”, se così lo possiamo chiamare, è essenzialmente quello stabilito nell’interesse dei grandi gruppi finanziari internazionali, i quali hanno le loro basi nelle democrazie, ma che non s’identificano con esse, perché la grande finanza non ha patria né ha bisogno di passaporto, anche da questo lato si rivela quanto avesse visto giusto Carl Schmitt, allorché sosteneva che l’umanitarismo sarebbe divenuto lo strumento dell’imperialismo, essenzialmente nella versione economica e finanziaria. Ecco perché si tratta di un pensatore di scottante attualità, che va letto, riletto e meditato a fondo…