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La catabasi imperiale

di Enrico Tomaselli - 24/12/2023

La catabasi imperiale

Fonte: Giubbe rosse

C’è una grande guerra globale in atto che oppone l’impero occidentale a guida statunitense a quei paesi che ne contestano il dominio. A questa guerra, prima o poi, finiranno per ricondursi tutte le piccole guerre in atto nel mondo, quali che ne siano state le cause scatenanti ed è forte il rischio che finiscano per saldarsi in una sola guerra aperta. In questo momento, ci sono due fronti di guerra che sono con ogni evidenza parte di questo scontro: quello ucraino e quello palestinese. Entrambe ci indicano qual è il fattore decisivo su cui si decidono le sorti. L’impero ha fretta, perché teme che i suoi nemici diventino troppo forti e la sua capacità di deterrenza cali. Il resto del mondo ha pazienza e vuole logorare l’impero finché non crolla. La grande guerra globale è una guerra con il tempo.

Benché sia una delle cose che capitano più di frequente, non bisognerebbe mai dimenticare la lezione di von Clausewitz: la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi. Dunque, non solo la guerra – ogni guerra – è già di per sé un atto politico, ma i suoi obiettivi, benché si cerchi di conseguirli attraverso lo strumento militare, sono e restano di natura politica. Dunque, una guerra che fallisce i suoi obiettivi politici è una guerra persa, anche se ha prevalso in ogni battaglia.

La guerra ucraina, ad esempio, è cominciata con obiettivi politici ovviamente diversi, per l’una e l’altra parte. Ad un certo punto, ha visto la Russia modificare i suoi obiettivi, più precisamente, l’ha vista modificare la sua strategia militare attraverso cui conseguirli. Tra questi obiettivi, le conquiste territoriali sono sempre state secondarie, mentre il focus principale è sempre stato la smilitarizzazione dell’Ucraina (e la sua “denazificazione”, per usare le parole di Mosca). Obiettivo che Mosca ha dovuto alla fine perseguire attraverso la via più radicale, ovvero la distruzione materiale delle forze armate ucraine. Obiettivo ormai quasi completamente conseguito e ottenuto applicando una tattica e una strategia basata sul logoramento massivo del nemico. Non una Blitzkrieg né una campagna distruttiva devastante, seguita da un’azione conclusiva delle truppe di terra. Entrambe queste strade, a parte ogni altra considerazione, non avrebbero in realtà inferto il colpo duraturo che era invece necessario infliggere. Quindi, per quanto questo procedere abbia un costo più elevato, è stata scelta una via basata sul fattore tempo. Quanto più a lungo dura la guerra, quanto più la forza nemica viene logorata, tanto maggiori sono i risultati. Mosca ha scommesso ancora una volta sulla propria capacità di sfruttare questo fattore meglio di chiunque altro. E ha vinto la scommessa.

A ben vedere, in Palestina sta accadendo qualcosa di molto simile. Anche se i rapporti di forza appaiono invertiti rispetto al fronte ucraino, la strategia messa in atto dal Fronte della Resistenza (in senso ampio, non solo quella palestinese) ricalca in qualche modo quella adottata dai russi in Ucraina.
Le forze della Resistenza sanno che il nemico ha bisogno di concludere in fretta, per una serie di motivi che vanno dagli aspetti economici agli equilibri interni ed internazionali. Per questo, l’asse USA-Israele sta mettendo in campo uno sforzo considerevole, cercando di ottenere vittorie quantomeno tattiche che le consentano di accelerare la conclusione del conflitto o, quanto meno, di congelarlo temporaneamente per riprendere fiato.
Ovviamente, il problema gigantesco con cui devono confrontarsi gli israelo-americani, ancor prima della Resistenza armata, è la mancanza di obiettivi politici reali e, quindi, di una strategia elaborata in funzione di questi. Dove per reali si intende realisticamente perseguibili, quindi politici in senso proprio, e non certo i sogni messianici con cui li stanno sostituendo. Per tacere del fatto che i due poli dell’asse hanno oltretutto interessi ed obiettivi non sovrapponibili, anche se per molti versi coincidenti.

Va tenuto presente che l’operazione della Resistenza è molto più vasta di quanto appaia. Non solo c’è un completo coordinamento tra le formazioni politico-militari della Resistenza palestinese, che hanno una Joint Operations Room (il centro di comando e coordinamento delle varie brigate) operativo su Gaza. Da tempo è presente in Libano un ulteriore centro di coordinamento in cui sono rappresentate – oltre alle formazioni palestinesi – anche alcune delle milizie irachene e siriane ed ovviamente Hezbollah. Non ci sono notizie certe sulla presenza anche di Ansarullah (Yemen). In tal modo, tutte le forze della Resistenza possono coordinare le proprie azioni a livello strategico, calibrando la pressione su Israele e sugli USA, ed alternandola tra i vari fronti aperti – Gaza, confine israelo-libanese, Mar Rosso…
L’intento è quello di tenere impegnate le forze israeliane in una guerra d’attrito, il cui livello d’intensità varia nel tempo – così da risultare tatticamente imprevedibile – e nello spazio. Può acuirsi a Shuja’iya come a Khan Younis, a Metula oppure ad Eilat, sulle alture del Golan o a Kiryat Shmona.
Tutte le formazioni che fanno parte del Fronte della Resistenza sono in grado di sviluppare un attacco assai più intenso e massiccio contro il territorio israeliano, ma non è questo l’intento – poiché qualsiasi accelerazione produrrebbe una reazione altrettanto intensa e massiccia. L’obiettivo è invece risparmiare al massimo possibile le proprie forze e puntare sul logoramento di Tsahal su tempi medio lunghi.

La situazione per le forze israeliane, nonostante i bombardamenti genocidi sulla Striscia di Gaza facciano da cortina fumogena, è di crescente difficoltà. Le perdite, in uomini e mezzi, cominciano a diventare significative e, soprattutto, emerge sempre più la difficoltà da parte dell’IDF nel gestire tatticamente il confronto. Sul fronte libanese, sono costretti a tenere impegnate una parte significativa delle forze di terra e dell’aviazione. E, nonostante abbiano schierate ben 8 delle 12 batterie di Iron Dome (di cui due certamente già distrutte o danneggiate), la minaccia dei missili di Hezbollah è così significativa che gran parte degli insediamenti e delle città vicine al confine sono state evacuate, con conseguenti danni all’economia e crescenti tensioni interne.
Eilat e gli insediamenti vicini vengono attaccati quotidianamente senza praticamente incontrare resistenza. Analogamente, il blocco dello stretto di Bab el-Mandeeb lascia senza difese le navi dirette in Israele e difficilmente l’operazione navale Prosperity Guardian riuscirà a risolvere il problema, se non a prezzo di mettere seriamente in pericolo le flotte NATO e rischiare un blocco totale anche sullo Stretto di Hormuz. Scenario che rappresenterebbe un disastro per le economie occidentali.

La situazione non è certo migliore nella Striscia di Gaza, dove le truppe israeliane devono confrontarsi con un nemico sfuggente, di cui non riescono a prendere le misure, e che mantiene intatta la capacità non solo di resistere ai tentativi di penetrazione, ma anche di sviluppare offensive tattiche. I periodici lanci di missili verso Ashkelon o Tel Aviv, le sanguinose imboscate contro le unità IDF, il continuo martellamento – a distanza ravvicinata – contro i corazzati israeliani, testimoniano come Hamas disponga ancora di una significativa potenza di fuoco e, soprattutto, di un inalterato coordinamento tattico.
Le fonti informative israeliane testimoniano che il numero dei morti e dei feriti è tenuto coperto o viene comunicato solo parzialmente. Il ritiro della Brigata Golani, forse la migliore unità dell’IDF, per via delle perdite subite, così come il mancato conseguimento degli obiettivi tattici dati continuamente per raggiunti (la rete di tunnel sotterranei è chiaramente ancora perfettamente operativa, non è stato scoperto un solo centro di comando, un solo deposito di armi, una sola delle fabbriche che producono i missili…), sono le prove più evidenti segni di tale difficoltà.

A più di due mesi dall’inizio dei combattimenti, non solo l’IDF non è ancora penetrato in tutte le aree urbane della Striscia, ma continua ad essere impegnato in scontri a fuoco anche laddove la penetrazione è avvenuta. Nessuno dei prigionieri è stato liberato manu militari. I due soli tentativi sono tragicamente falliti e l’unico caso di cui avrebbero potuto menar vanto è stato azzerato da una applicazione ottusa delle regole d’ingaggio. Da almeno un paio di settimane viene data per imminente la morte di Yahya Sinwar, che invece continua a sfuggire.

Nonostante tutta la potenza di cui dispone (aviazione, carri armati e corazzati, artiglieria, intelligence elettronica…), Tsahal non riesce a prevalere. Persino la guerra della comunicazione vede chiaramente in vantaggio le forze della Resistenza, che documentano inequivocabilmente in video gli attacchi portati contro le forze israeliane, mentre queste inanellano figure talvolta imbarazzanti, maldestramente coperte da filmati propagandistici costruiti su veri e propri set e già smontati persino da mainstream americani come il Washington Post.

Esattamente come in Ucraina, quindi, anche in Palestina le forze che combattono contro l’imperialismo USA-NATO mettono in campo una strategia di logoramento delle forze avversarie. In entrambe i casi, puntano sul fattore tempo per mettere in difficoltà il nemico. Che, oltretutto, si trova oggi ad essere impegnato su due fronti, con le difficoltà dell’uno che si riverberano sull’altro, mentre i suoi avversari agiscono separatamente.
A riprova che la geografia è ineludibile e che la politica non può prescinderne. Ed oggi la situazione globale è che i tradizionali strumenti del dominio imperiale anglo-americano, la potenza talassocratica e la proiezione a grande distanza hanno fatto il loro tempo e risultano inadeguati. L’impero è costretto a combattere guerre assai problematiche ed impegnative, su fronti diversi. Sia la potenza navale che quella derivante dalla più estesa rete di basi militari della storia rischiano di risolversi in un problema più che in un atout. Per la semplice ragione che i nemici non sono più così deboli da poter essere rapidamente schiacciati (ma anzi possono a loro volta colpire) e sanno scegliere le strategie e le tattiche più efficaci per combattere.

L’impero ha perso la sua arma più potente: la capacità di deterrenza. Costretto ad usare la forza in tempi e modi che non gli sono congeniali, arretra. I suoi nemici, invece, lo sfidano, non arretrano più dinanzi alla minaccia. Ingaggiano il combattimento, ne impongono i tempi ed i modi. E per vincere, gli basta resistere un minuto in più.